sabato 17 ottobre 2015

Repubblica 17.10.15
Quel simbolo conteso dalle fedi in guerra
Nell’antica Neapolis le ferite della Storia
Nelle tre religioni del libro la figura di Giuseppe indica l’ineluttabilità della violenza
tra fratelli, della contrapposizione etnica e dell’intolleranza La sua tomba è al centro del grande sisma del Medio Oriente
di Silvia Ronchey


Nella tetralogia di Thomas Mann il mito viene usato per raccontare la Germania nazista e antisemita

IN quella sterminata topografia dell’immaginario collettivo che è la cosiddetta geografia dei Luoghi Santi, costruzione mitica cristiano-bizantina sedimentata da due millenni tra sangue e leggende, si esprimono da sempre i conflitti fra le tre religioni cosiddette del libro: giudaismo, cristianesimo e islam, che poggiano sulla stessa tradizione sapienziale in origine espressa da quel caotico e oscuro ancorché prodigiosamente suggestivo racconto di gesta “sacre” che è l’Antico Testamento giudaico. In quella topografia, la cosiddetta tomba di Giuseppe a Nablus ora incendiata nuovamente dai manifestanti palestinesi per la costernazione del loro presidente Abu Mazen, ultimo atto dell’escalation di violenza che da due settimane insanguina lo scacchiere arabo- israeliano, ha una posizione particolare. Non si tratta solo della sua dislocazione strategica, nel cuore della Cisgiordania, in un luogo, Nablus, l’antica Neapolis dei Flavi, intriso di storia, sangue e distruzione dai tempi dei romani, dei bizantini, degli arabi, dei mamelucchi, dei turchi, dei crociati, fino ai recenti e inestinti conflitti che il Novecento ha trasmesso al secondo millennio; né si tratta solo del suo statuto di enclave cultuale multireligiosa, più volte passata di mano nel pendolo della diplomazia internazionale tra la guerra dei sei giorni, la Seconda Intifada e il Defensive Shield del 2002. Si tratta anche, e soprattutto, della sua collocazione in un’altra geografia: quella storica e psicologica dei simboli. La storia, anzi le storie di Giuseppe, occupano un posto particolare nella Bibbia. L’ultima declinazione del mito di Giuseppe è nella tetralogia di Thomas Mann, dove viene usato per raccontare in trasparenza la Germania dell’inizio del Novecento, la montata dell’antisemitismo nell’ascesa del partito nazionalsocialista e in generale i grandi temi della storia umana: la violenza fratricida, il fondamentalismo religioso, il rapporto tra giustizia e potere, la possibilità di riscatto di chi ne è privato e fatto schiavo, la fondamentale inguaribilità della politica. Come dice Abramo a Dio in “Giuseppe e i suoi fratelli”: «Se vuoi il mondo, non puoi pretendere la giustizia; ma se la cosa che ti preme di più è la giustizia, allora per il mondo è finita».
La suggestione esercitata dai capitoli 37-50 della Genesi sulle religioni monoteiste, la carica mitica del personaggio di Giuseppe conducono all’invenzione del suo monumento. La leggenda sulla presenza delle ossa di Giuseppe a Sichem, nei suburbi di Neapolis, compare per la prima volta in Eusebio, il teorico ecclesiastico dell’età costantiniana, in contemporanea con l’invenzione della topografia dei Luoghi Santi da parte di quella geniale comunicatrice che fu Elena, la madre del primo imperatore Costantino. Un’altra donna viaggiatrice, Paola, l’aristocratica dama romana amica di Girolamo, con il suo primo avvistamento della cosiddetta tomba dei dodici patriarchi diede vita alle leggende che dal V secolo in poi intrecciarono la loro propaganda ai conflitti tra samaritani e bizantini, in un caleidoscopio di segni, simboli, immagini oniriche, che non prima del XII secolo, alla fine del regno crociato di Tancredi d’Altavilla, si materializzarono nelle scarne e dubbie tracce di marmo avvistate dai grandi pellegrini del medioevo globale come Beniamino di Tudela e Guglielmo di Malmesbury. La tradizione di un sepolcro di Giuseppe, se pure non supportata dal Corano, fu suffragata dai lungimiranti viaggiatori islamici del XIV secolo, anzitutto Ibn Battuta, e poi da tutta la schiera dei viaggiatori moderni che descrivono l’ancora virtuale weli del patriarca come luogo di culto misto per ebrei e cristiani, maomettani e samaritani. Fu ancora molto dopo, alla fine dell’Ottocento, nell’ultimo fiorire degli entusiasmi coloniali, che una vera e propria struttura architettonica, ancora ibrida, ancora equivoca, ma effettivamente esistente e visibile, si manifestò, ad incontrare peraltro gli albori della fotografia. Della tomba di Giuseppe furono così i viaggiatori a creare la realtà, in una storia stratificata e multireligiosa di testimonianze e credenze che non poté mai scindersi dalla storia della politica e dei suoi conflitti. Se i Luoghi Santi sono il riflesso dell’immaginario collettivo da un lato e il prodotto degli scontri fra religioni dall’altro, se sono il punto di intersezione tra questi due inscindibili piani dell’esperienza umana, l’incendio che la storia recente ha prodotto nell’attuale scenario mediorientale non ha cessato di coinvolgere questi ed altri monumenti “sacri”, in una dinamica che gli antropologi definirebbero, appunto, sacrificale. Dagli idoli di Ninive al tempio di Bel a Palmira, a riaccendere la scintilla è la potenza primaria dei simboli. La figura di Giuseppe è simbolo dell’ineluttabilità della violenza tra fratelli, della contrapposizione etnica, dell’intolleranza, ma anche del loro fallimento, nel trasformarsi dello schiavo in padrone grazie al prestigio dell’irrazionale, al potere profetico della chiaroveggenza, al governo dei meccanismi della psiche: i sogni dei compagni di prigionia, poi del faraone. La sua tomba, vuota come non può non essere quella di un mito, condensa nella stessa esistenza materiale una storia perenne. L’azione degli insorti che l’hanno incendiata sposta la nostra attenzione dalla geografia reale e dalle sue sofferte, contrastate frontiere a una faglia più profonda, una linea non orizzontale ma verticale: quella del passato e delle sue cicatrici. Dopo le ebollizioni postcoloniali, il grande sisma al quale assistiamo, che ha per epicentro la Palestina e come scenario il Medio Oriente, è anche una guerra di simboli, e per questo colpisce anche i monumenti. Come dimostrato dal blitz turco al mausoleo di Suleyman Shah, altra tomba simbolo di un’antica identità, la riscossa islamica ha come vero bottino il passato. Solo rievocandolo possiamo comprendere i suoi atti distruttivi di appropriazione simbolica della tradizione e di eversione dell’ormai superato ordine occidentale.