Repubblica 17.10.15
Sull’orlo del precipizio
di Lucio Caracciolo
QUANDO nulla appare più possibile tutto diventa possibile. Persino che la Terra di Israele/Palestina s’avviti nel caos.
PER MANCANZA di alternative. Giacché ormai tutte le ipotetiche soluzioni alla questione della sovranità sull’ex mandato britannico appaiono consunte. Impraticabili. Ai due Stati conviventi in pace l’uno al fianco dell’altro non crede più nemmeno chi per dovere di ufficio continua a sacrificarvi celebrando spente liturgie, vuoi per perpetuare lo status quo (Netanyahu) vuoi per segnalare la propria altrimenti impalpabile esistenza (Abu Mazen). Quanto allo Stato binazionale, ipotesi a suo tempo coltivata da alcuni protosionisti, presuppone un grado di fiducia fra concittadini arabi ed ebrei di cui oggi non si vede traccia.
Restano in teoria alcune non-soluzioni — misure volte non a risolvere la disputa territoriale ma a limitare la violenza. Come l’apartheid in stile sudafricano, che però sancirebbe la morte della democrazia israeliana, insieme legittimando la guerriglia palestinese giacché chi si batte contro la discriminazione per razza non può essere bollato terrorista. E provocherebbe aspre forme di embargo inter-nazionale contro Israele, oltre a ritorsioni sugli ebrei in diaspora. Se poi lo Stato ebraico intendesse moltiplicare “barriere di separazione” e check point per limitare la diffusione della violenza palestinese, finirebbe per imprigionare se stesso, non solo i Territori, in un labirinto inabitabile. Già si trova a sezionare Gerusalemme, che pure vuole capitale una e indivisibile.
È la carenza di prospettive che distingue la cosiddetta “terza intifada” dalle due precedenti. In questo caso il termine “intifada” (“rivolta”) è però improprio. Qui non si tratta di una ribellione politica, più o meno armata e violenta, come in passato. Questa è la rivolta dei senza speranza. Soli, scoordinati, senza riferimenti. Almeno per ora.
I giovani arabi che in Israele accoltellano per strada i concittadini ebrei o che vengono a loro volta liquidati dalle forze di sicurezza di Gerusalemme non perseguono un progetto politico. Non rispondono a nessun capo. E i palestinesi dei Territori hanno spesso perso quella minima base economica che consentiva loro di compensare la sconfitta geopolitica — vivere per sempre sotto occupazione. Le elemosine provenienti dall’esterno, soprattutto dal Golfo, cominciano a scarseggiare, sia perché i “benefattori” sono in altre faccende affaccendati (per esempio noleggiare jihadisti sul fronte siriano), sia perché i confratelli arabi si sono stancati di fingere d’interessarsi alla causa palestinese (specie gli islamisti radicali, seguaci del “califfo” inclusi).
L’intelligence israeliana discetta di “attacchi ispirati”, diversi dal “terrore guidato”. Violenza spontanea, non studiata. Ne sono protagonisti anche giovani acculturati, insospettabili. Ma deprivati socialmente e politicamente. Perché oggi il frastagliatissimo campo palestinese non esprime una guida. Se Abu Mazen è figura patetica, Hamas non sta molto meglio, pur se cerca di cavalcare la rivolta. La Cisgiordania è abbandonata a se stessa, mentre la Striscia di Gaza è infiltrata da cellule salafite, che lanciano sporadici razzi contro lo Stato ebraico.
Sul fronte israeliano, Netanyahu è accusato di mollezza. Questa crisi lo ha sorpreso. Per lui il problema palestinese era in naftalina. Una fastidiosa infezione da tenere sotto controllo con qualche antibiotico, non certo una minaccia esistenziale. Soprattutto, gli mancano efficaci strumenti di reazione. Aerei e carri armati non servono contro i coltelli.
Mentre Israele vincerebbe a mani basse qualsiasi guerra con i vicini e potrebbe venire a capo di una classica intifada colpendone le centrali vere o presunte, contro questo caos, esteso dalla Cisgiordania al territorio nazionale — dove è in questione l’asimmetrica coesistenza fra minoranza araba e non troppo omogenea maggioranza ebraica — il governo di Gerusalemme si scopre quasi inerme. Sicché gli ebrei israeliani ricorrono al fai-da-te, allestendo squadre di vigilantes o semplicemente girando armati, come il sindaco della capitale, Nir Barkat, che ostenta la sua pistola davanti alle telecamere. E a scanso di equivoci twitta (8 ottobre): “Attentati terroristici a Gerusalemme possono essere prevenuti grazie alla rapida risposta di cittadini responsabili. Detentori autorizzati e addestrati di armi possono salvare vite”.
C’è ancora tempo per evitare il caos che eccita gli estremisti musulmani ed ebrei, i quali amano santificare la propria causa con i colori del fanatismo religioso, nella terra più sacra ai tre monoteismi. Finora Israele ha resistito quale isola stabile e prospera nel mare in tempesta delle guerre islamiche. Oggi però la minaccia viene da dentro. E ne mette in gioco l’identità. Dunque l’esistenza.