mercoledì 14 ottobre 2015

Repubblica 14.10.15
Marek Halter.
La nuova violenza allontana la pace Il mondo torni al sogno di Rabin
Lo scrittore ebreo franco-polacco interviene sulla nuova escalation: “Le grandi potenze facciano ripartire il negoziato. Ora è tempo di studiare una Confederazione”
di Marek Halter.


L’IPOTESI dei due Stati in Palestina mi sembra definitivamente abortita. Tra le parti s’è infatti accumulato troppo astio. E da molto tempo ormai, alla violenza si risponde soltanto con la violenza. Adesso, perfino i religiosi israeliani accoltellati a Gerusalemme impugnano a loro volta il pugnale per colpire i giovani palestinesi. Parlano tutti di una terza Intifada, inflazionando un termine già inflazionato, ma la storia non si ripete. Certo, non potendovi equamente amministrare la giustizia, era una bella idea, quella di dividere in due questa terra travagliata. Due Stati, uno accanto all’altro: il presidente egiziano Sadat fu il primo a formulare questo sogno. La sua proposta fu ripresa da molti e condusse, nel 1993, agli accordi di Oslo, che avrebbero potuto portare una pace duratura in tutta la regione se un fanatico non avesse assassinato il premier israeliano Yitzhak Rabin.
Sì, sono sempre più convinto che il naufragio di quella splendida visione è dipeso soltanto dalla morte di Rabin. I grandi cambiamenti della Storia non sono solo frutto di idee nobili e rivoluzionare ma anche di uomini in grado di farle valere. E non si tratta di uomini necessariamente più intelligenti di altri, ma di individui in grado di guadagnare la fiducia della propria gente. Purtroppo, personaggi di quel calibro, ammirati da tutti, come furono appunto Rabin e Arafat in passato, non esistono più né a Tel Aviv né a Ramallah.
Oggi, ahinoi, sulla scena c’è ovunque la presenza di Dio, ogni spazio è stato colonizzato dalla religione, o meglio, dalla religiosità, che trascende ogni cosa, ossia gli interessi economici, finanziari e politici dei due popoli, complicando alquanto le cose.
Ma se la soluzione dei due Stati è diventata obsoleta poiché irrealizzabile, bisogna ricorrere ad altro. Si potrebbe, per esempio, riesumare la vecchia ma ancora validissima formula di una Confederazione della Palestina. La sola alternativa al caos è infatti l’apertura di nuovi orizzonti, perché, oggi più che mai, è necessario gridare nelle piazze israeliane e palestinesi che un altro futuro è possibile. È stato il padre fondatore della Tunisia moderna, Habib Bourghiba, il primo a parlare di Confederazione nel suo celebre discorso di Gerico, nel 1965. Nella sua visione profetica, Bourghiba, che fu anche il primo presidente di un Paese arabo a recarsi in Israele, indicò il più semplice dei cammini per giungere alla pace.
L’idea di una Confederazione mi è tornata in mente ripensando alla metafora con cui alcuni anni fa lo scrittore israeliano Amoz Oz cercò di spiegarmi il conflitto israelo-palestinese. Oz mi disse che quando ci sono due pazzi nella stessa stanza è inutile cercare di riconciliarli: o gli infili la camicia di forza o li sposti in un’altra stanza piena di altre persone. È l’unico modo per evitare che i due si affrontino e si scannino. Ebbene, su questa terra che dai tempi dell’imperatore Adriano si chiama Palestina, che fu riconosciuta come tale dagli ottomani, dai francesi e dagli inglesi e che comprende Giordania, Cis-Giordania e Israele, da sempre vivono due popoli. Si tratterebbe quindi di riunire i leader di questi territori per concepire, all’immagine dell’Europa, un’entità più grande che li includa tutti e tre, ognuno di essi rimanendo comunque indipendente. Ciò risolverebbe, tanto per cominciare, il problema di Gaza e quello dei 400mila israeliani residenti in Cis-Giordania, perché potrebbero esserci regioni autonome in seno ad ogni territorio. La capitale della Confederazione diventerebbe Gerusalemme Est, un po’ come Bruxelles lo è dell’Europa, pur restando quella del Belgio.
Per la prima volta sulla spianata delle Moschee sventolerebbe la bandiera palestinese, il che spegnerebbe le tensioni che regolarmente appaiono in quel luogo sacro per i musulmani.
Anche sul piano economico sarebbe un successo, perché si creerebbe un grande mercato del lavoro, con la tecnologia israeliana e con l’inventiva e la volontà dei palestinesi. Un tale accordo salverebbe anche la Giordania dalle mire dello Stato Islamico, che sta conquistando uno dopo l’altro i villaggi alla frontiera con l’Iraq. È concepibile che perfino la Siria, quando si sarà liberata delle squadracce del Califfo e di Bashar al Assad, raggiunga anch’essa questa Confederazione.
Ora, per raggiungere l’obiettivo serve anzitutto la volontà delle grandi potenze, le quali dovranno portare i tre leader al tavolo del negoziato. Quanto agli israeliani hanno anch’essi bisogno di un nuovo programma di pace in cui credere. Non basta pensare di aprire una futura trattativa con Hamas. Bisogna proporre altro, perché da due generazioni sono tutti vittime dell’illusione di due Stati che vivono felicemente uno accanto all’altro. In Israele sono i religiosi quelli che vincono, perché portano avanti il sogno messianico. Perciò c’è bisogno di un nuovo sogno per tutti gli altri. Quanto alla nostalgica sinistra israeliana, essa si limita a criticare il premier Netanyahu, e fa bene a farlo, ma non propone nessuna soluzione per il futuro.
È sempre più evidente che in tutti questi anni non siamo ancora riusciti ad arare la terra a sufficienza per far nascere qualcosa di buono dalla volontà di tutti quelli che credono nella pace. Il progetto della Confederazione palestinese non piacerà a tutti. Molti la criticheranno, la ridicolizzeranno anche. E sarà una fortuna, perché sia gli israeliani sia i palestinesi devono sapere e devono soprattutto credere che una soluzione esiste. E che se non si trova oggi, si troverà domani.