mercoledì 14 ottobre 2015

Il Sole 14.10.15
La rivolta dei coltelli
Dai «cani sciolti» al rischio Intifada
La punizione collettiva che si sta organizzando minaccia di sfociare in una sollevazione popolare
di Ugo Tramballi


Continua la disputa sulla definizione della rivolta: se è Intifada o no. La differenza politica è che nel primo caso si tratta di una sollevazione popolare, nella seconda di “cani sciolti”, come polizia e giornali chiamano i responsabili palestinesi degli assalti. Di fronte a queste forme di piccolo terrorismo quotidiano Israele si organizza alla reazione più facile: la punizione collettiva.
Ieri anche Isaac Herzog, il leader del partito laburista, ha chiesto al governo di chiudere tutti i palestinesi di Gerusalemme Est nei loro quartieri. Il capo dell’estrema destra nazional-religiosa al governo, Naftali Bennett, propone di chiudere a chiave tutta la Cisgiordania e di non radere al suolo solo le case degli attentatori, ma di tutti i “terroristi”. Una definizione forse applicabile a chiunque protesti contro l’occupazione.
Tutte le intelligences israeliane hanno ripetuto che si tratta di una rivolta minore, anche se non meno pericolosa. Alcune organizzazioni islamiste stanno sobillando sul web, ma né l’Autorità palestinese né Hamas cercano di cavalcare la protesta. Allargare la punizione all’intera comunità palestinese non servirebbe alla repressione del fenomeno ma a chi vorrebbe trasformarlo in sollevazione nazionale.
A dispetto della rivolta, ogni mattina 47mila palestinesi entrano in Israele a lavorare: circa 250mila arabi di Cisgiordania dipendono economicamente dal mercato israeliano. Finché le frontiere non saranno chiuse a questi operai e finché Israele non deciderà di invadere ancora una volta militarmente le città della Cisgiordania, quello che sta accadendo non si può chiamare Intifada.
C’è tuttavia un elemento che lega questa rivolta dei coltelli alla seconda Intifada del 2000, la più distruttiva. È iniziata il mese scorso a Gerusalemme sulla spianata del Tempio: il luogo più importante per musulmani ed ebrei. Allora fu Ariel Sharon a fare una “passeggiata” provocatoria fra le moschee di al-Aqsa e di Omar. Questa volta gruppi di estremisti ebrei, accompagnati da alcuni ministri irresponsabili, sono saliti alla spianata, facendo credere ai palestinesi un’imminente occupazione.
Il conflitto fra israeliani e palestinesi è fra due risorgimenti nazionali e due etnie. Ma è il terzo elemento dello scontro, fra due religioni, il più pericoloso. Anche allora cominciò come rivolta spontanea. Ma l’elemento religioso irrazionale fece esplodere la frustrazione provocata da decenni di occupazione. La rivolta cominciò con pietre e coltelli, passando poi alle armi automatiche. Ieri a Gerusalemme per la prima volta i giovani hanno usato armi da fuoco.
L’unica possibilità per fermare l’aggravarsi della rivolta è tornare alla politica. Se Israele tenta di riaprire un dialogo; se l’Autorità palestinese collabora; se Hamas a Gaza comprende che la Striscia, devastata dalla guerra dell’estate 2014, non sarebbe in grado di sopportare un nuovo conflitto, la rivolta non diventerà una terza Intifada. Ma i possibili mediatori esterni sono impegnati nella Grande guerra mediorientale. E quasi tutte le volte che israeliani e palestinesi sono stati lasciati da soli, il conflitto è peggiorato: i due nemici sono sempre stati capaci di offrire al mondo tragiche sorprese.