sabato 10 ottobre 2015

Repubblica 10.10.15
La città
Da Petroselli a Veltroni, chi ha provato a governare la capitale
sa che non solo è difficile, ma forse anche svantaggioso
Sotto la lupa la sede è vacante e Roma va avanti tra buche, rifiuti e corruzione
di Filippo Ceccarelli


La cronaca è la cronaca, e la storia pure, ma dinanzi agli animali totemici è altamente consigliabile che i potenti mantengano sempre dignità e compostezza.
Come noto, Roma è una lupa. Perciò nutre e consuma, allatta e dilania, consacra e divora chiunque le sfruculia il pelo nel verso sbagliato - e a volte, per ventura, anche in quello giusto. Ogni tanto la belva ulula alla luna, però questa è una faccenda più complicata che magari trascende sia l’antico rituale dei lupercali che la provvisoria condizione di sede vacante.
Un vuoto di governo aggravato dagli eterni e crescenti impicci, rispetto ai quali non s’intravede un solo pallido straccio di soluzione. E dunque, in lunga e colorita rinfusa: i maiali dell’immondizia a Boccea, i fiumi d’acqua per strada quando piove, i necrofori scassinatori del Campo Verano, l’epopea da incubo della MetroC, i camion bar della famiglia Tredicine, i vigili urbani che si buttano malati, le abitazioni di favore, i tavolini abusivi, i campi rom inutilmente demoliti, i cartelloni pubblicitari deturpanti, le pedonalizzazioni selvagge, i vip dell’Auditorium, i boss di Ostia, i centurioni aggressivi, le buche assassine, i rifiuti di Malagrotta, i mecenati dell’Uzbekistan, le tasse dei preti, il nuovo stadio della Roma, il prosieguo dell’indagine di Mafia capitale, l’Atac acefala e tante altre graziose vicende che fanno dell’Urbe, appunto, l’Urbe.
E quindi una città che in qualche misura non è solo impossibile, ma forse addirittura svantaggioso governare, come si potrebbe chiedere a tanti che ci hanno provato. Anch’essi enumerati senza distinzioni tardo ideologiche: il grande Petroselli, che pure ci lasciò la pelle; e poi il caparbio Vetere, il pomposo Signorello, ribattezzato «Pennacchione », l’ombroso Giubilo, detto «Er Monaco », il milanese (in realtà padovano) Carraro, fino ai sindaci della Seconda Repubblica, Rutelli 1 e 2, Veltroni 1 e 2, Alemanno solo 1, per fortuna, e infine il povero Marino.
Chissà se anche loro pensano che l’imminente deficit di comando abbia almeno un po’ che fare con la mitica leggenda lupesca materializzatasi sopra una colonna de Campidoglio in una celebre statua di cui però non si conosce con certezza l’origine e l’età; forse un totem etrusco, forse una scultura medievale, comunque un bronzo che oscilla tra una ventina di secoli - a parte l’attribuzione dei gemelli al Pollaiolo.
Proprio sotto questa statua, comunque, incontrò la morte, per mano di un popolano che « impuinao mano ad uno stocco e deoli nello ventre » Cola di Rienzo, archetipo del politico prima celebrato e poi morto ammazzato, con il dovuto vilipendio di cadavere. Era l’8 ottobre - oh, guarda le coincidenze! del 1354.
Sempre l’8 ottobre, ma di quest’anno, cioè ieri l’altro, al Museo Romano di Palazzo Altemps è stata aperta al pubblico una mostra interdisciplinare da titolo, invero significativo: «La forza delle rovine». Quindi catastrofi, rimasugli, spezzoni, frammenti, macerie. Insomma quel genere di materiale da cui plausibilmente, insieme alla sua segreta energia, la capitale trae le contorte e disturbatissime relazioni che intrattiene con il potere: all’insegna, si direbbero, del più inesorabile combinato disposto tra l’iniziale euforia e la drammatica conclusione. Si aggiunga che in latino lupa significa anche prostituta. E pure questo fa riflettere perché fra gestacci e scontrini la post-politica vira decisamente verso la spudoratezza, anzi verso l’osceno, da intendersi in senso lato e quindi anche di cattivo augurio.
Del fatale incrocio ha fatto le spese l’ultima amministrazione Marino, che invano, appena formata, si recò - erano 70 individui - in un hotel di Tivoli per un ritiro meta-spirituale e para-manageriale di high-performing
e visioning . Sembra una storia incredibile, uno scherzo di quelli che si fanno oggi, oppure un soggetto per qualche grottesco film, ma nel luglio del 2013 il neo sindaco, gli assessori e i consiglieri di maggioranza, divisi in sette squadre, si misero in mano a una società di team building esercitandosi a tenere canne di bambù in equilibrio, recuperare secchi d’acqua su un palo, costruire con travi, funi ed elastici delle macchine per tirare e ricevere palline da tennis, oltre a sedute di autocoscienza e caccia al tesoro. Ma davvero.
«Se vogliamo cambiare la città - proclamò Marino- dobbiamo cominciare a cambiare noi stessi». Giusto. Al termine dell’impegnativa due giorni, che il giornalista di Repubblica Mauro Favale designò «una via di mezzo tra una gita scout, «Giochi senza frontiere» e «Mai dire Banzai», il sindaco, in verità non ancora marziano, radunò i Settanta e, secondo le regole motivazionali, li invitò a farsi un applauso.
Qualche giorno dopo era a cena alla Trattoria degli Amici. E la lupaccia capitolina ne prese nota.