domenica 25 ottobre 2015

La Stampa TuttoLibri 25.10.15
“Con lo Zibaldone ho trovato l’Io”
“Per anni l’ho indagato sotto varie angolature. Ma quando ho visto il film su Leopardi mi sono deciso a ripetere la sua formula per le riflessioni su me stesso”
colloquio con Mattia Feltri


A casa di Eugenio Scalfari si vede il mondo intero e non è soltanto questione di panorama: l’attico in cui vive, a tre minuti dal Pantheon, ha terrazze affacciate su Roma e i suoi secoli, ma la prospettiva è una semplice premessa, sebbene magnifica. Seguirà un pomeriggio non di colloquio ma di introduzione al museo esistenziale di un uomo che probabilmente è stato il più importante giornalista italiano della storia repubblicana, e a buona ragione rifugge le domande: non gli servono, lo scocciano, lui ha da dire quel che ha da dire, e il buon interlocutore non interloquisce. Anche l’occasione dell’intervista - il libro appena uscito per Einaudi, L’allegria, il pianto, la vita - sarà utile più che altro perché Scalfari metta il punto che gli preme di mettere.
«Sì, questo libro è la chiusura di un cerchio», dice, «il completamento di un lungo percorso che è cominciato nel 1994 con la pubblicazione di Incontro con Io». E poi diventa qualcosa di più, diventa l’incontro con gli altri, Scalfari fa avanti e indietro nei decenni, si sofferma su Papa Francesco («ci sentiamo perché a lui interessa il punto di vista di un miscredente che però ammiri la predicazione di Cristo. Gli ho detto, “lei però sa meglio di me che i Vangeli sono romanzi: nessuno degli evangelisti, escluso Giovanni, e ammesso che sia quel Giovanni, ha conosciuto Gesù; scrivono di seconda o terza mano, così amo quello che i vangeli dicono di Cristo, ma di Cristo né lei né io sappiamo nulla”. Allora discutiamo di fede e di grazia e di anima e io concludo dicendo di non credere all’anima e il Papa insiste: “Lei non ci crede, ma l’anima ce l’ha lo stesso”»); va indietro fino a Gianni Agnelli: «Eravamo molto vicini perché aveva sposato Marella Caracciolo di cui ero amicissimo. Quando sull’Espresso feci una campagna contro il progetto dell’Iri di fare l’Alfasud, tutti pensavano che la campagna fosse ispirata dall’Avvocato poiché sua moglie era la sorella di Carlo Caracciolo. Lui protestò e io gli dissi che la campagna non potevo sospenderla, ma avrei potuto dimettermi da direttore; allora Agnelli mi disse: “Suo suocero di lei dice sempre: è calabrese ma è un gentiluomo...”. Parlava di Giulio De Benedetti, che per un ventennio è stato direttore della Stampa, ed era padre di mia moglie Simonetta».
Eccolo al centro di sé, ed è il centro perfetto, per noi il privilegio dell’ascolto. Dell’Espresso che nacque perché Adriano Olivetti non aveva soldi per il quotidiano, e di associarsi con Enrico Mattei non gli andava: «Vuol dire un pasticcio fra un cavallo e la formica». Della Repubblica che fatica a raggiungere il punto di pareggio, ma con la scelta della linea della fermezza sul sequestro di Aldo Moro decolla fino a superare il Corriere a metà anni Ottanta. Di Odisseo, «che io considero il primo eroe moderno perché, da guerriero furbo che era nell’Iliade, diventa l’uomo della conoscenza, la cui spinta in lui è insopprimibile». Di Giacomo Leopardi che gli ha ispirato quest’ultimo libro: «Per anni ho indagato l’Io da varie angolature, l’Io che da istinto si trasforma in sentimento e poi su come la mente vi influisca. Pensavo di avere finito, ma quando al cinema ho visto Il giovane favoloso di Mario Martone, film che mi è piaciuto molto, mi sono deciso a ripetere la formula dello Zibaldone: metto una data e scrivo riflessioni che incidono sul mio Io e mi suscitano desideri».
Eccoci nel cuore della conversazione. «La differenza fra noi e gli animali è che gli animali non vedono se stessi mentre vivono, non si vedono invecchiare, non dicono “io morirò”, non distinguono il passato dal futuro, vivono nel presente appagando bisogni ripetitivi; noi abbiamo una mente riflessiva, che ci riflette da fuori, parliamo e ci vediamo parlare, abbiamo un deposito nel passato e immaginiamo il futuro, desideriamo, inventiamo nuovi bisogni che cercheremo di soddisfare». Ecco l’Io: il desiderio, e cioè l’istinto di sopravvivenza «che La Rochefoucauld chiamava amor proprio. L’uomo è narciso, è innamorato di sé anche se tutti negano. Io so di essere narciso, anzi so di avere un Narciso un po’ più forte di quanto dovrebbe e quindi lo tengo al guinzaglio, ma talvolta mi scappa di mano e devo faticare a riacchiapparlo».
L’io, il Narciso, l’istinto di sopravvivenza si realizzano, o si illudono di farlo, attraverso l’amore o attraverso il potere. «Il potere contiene l’amore e l’amore non contiene il potere», dice Scalfari, ma qui non si riassume più, bisogna che andiate a L’allegria, il pianto, la vita e ai libri precedenti, alla corrispondenza fra Abelardo ed Eloisa che spiega benissimo la differenza fra l’«Io che è demoniaco» e vuole il potere e l’Io misericordioso che porta all’annullamento di sé, alle definizioni di Agostino, a Esiodo, a Eros. E c’entrano, eccome, le lacrime che Scalfari racconta d’aver versato alla malattia del padre, alla morte della moglie, ai funerali di Mario Pannunzio da cui fu escluso per disaccordi ingigantiti dai fraintendimenti. C’entra naturalmente la Recherche di Marcel Proust, che Scalfari mette fra i libri della vita «perché ci sono due modi di affrontare la conoscenza: viaggiare verso l’esterno e viaggiare al proprio interno, e la Recherche è il solo libro che non viaggia mai all’esterno».
La Recherche è per lui così centrale che Scalfari possiede - invidia somma! - la prima edizione di ognuno dei sette volumi, compreso il primo edito non da Gallimard ma da Grasset. E di libri si starebbe a parlare per ore, dell’altro che è il segno di una vita, i Quaderni di Malte Laurids Brigge di Rainer Maria Rilke, «e non è un’opera di poesia ma di prosa, e lo considero il grande romanzo moderno, l’espressione più compiuta di un secolo straordinario nel bene e nel male quale fu il Novecento».
Per ognuno degli scrittori e dei capolavori amati c’è una riflessione, il terzetto aureo è completato da Guerra e pace di Lev Tolstoj, «che meglio ha raccontato la Russia come madre». Ma è una scelta faticosa, uno come Scalfari che parla di Rilke non può non parlare di Fernando Pessoa e del Libro dell’inquietudine e avrebbe voglia di dettagliare ancora e ancora, sull’amico «Italo Calvino, su Eugenio Montale, su Charles Baudelaire, su Paul Valéry, su Federico Garcia Lorca, su William Faulkner, su Gabriel García Márquez», ma il tempo che avevamo è già tutto al passato, «come subito passata è ogni cosa detta e ogni cosa scritta».