La Stampa 4.10.15
Amos Gitai
Rabin lo diceva la forza di Israele è nelle idee”
intervista di Alain Alkan
L’uscita del nuovo film di Amos Gitai segna il 20° anniversario dell’assassinio del premier israeliano Yitzhak Rabin, vincitore del Nobel per la pace, avvenuto a Tel Aviv, il 4 novembre 1995. Rabin, The Last Day fa luce sull’odio crescente nella società israeliana. L’assassino di Rabin, arrestato sulla scena dell’omicidio, era un ebreo osservante di 25 anni. L’indagine rivela il mondo oscuro dove è maturato questo tragico evento.
Il film è stato proiettato a Venezia e a Toronto e uscirà a Tel Aviv il giorno dell’anniversario. Come è nato?
«Vent’ anni fa ho intervistato a lungo Rabin: non era un progressista senza nerbo come alla gente piace descriverlo. Aveva capito che per rendere stabile l’esistenza di Israele in Medio Oriente era necessario aprirsi al mondo arabo. E aveva capito che di tutti i conflitti regionali quello israelo-palestinese è il più importante: è reale ma è anche usato come pretesto dagli arabi per attaccarci. Rabin aveva capito che se Israele fosse riuscito a smantellare questo campo minato, raggiungere una forma di convivenza con i palestinesi, avrebbe molto accresciuto la nostra sicurezza».
Ma fu ucciso proprio per le sue idee dagli estremisti di destra ebrei?
«Sì, quando iniziò a negoziare con i palestinesi ci fu una campagna molto ben orchestrata, sostenuta da tre forze: i rabbini estremisti, che gli indirizzarono ogni sorta di maledizioni talmudiche, malefizi e stregonerie; la lobby dei coloni che non vogliono concedere nulla ai palestinesi in Terra Santa; e la destra guidata dal Likud di Netanyahu».
Sapeva che volevano ucciderlo?
«No. Non pensava che l’avrebbero ucciso e aveva fiducia nelle forze di sicurezza di Israele».
Siamo molto lontano da questo ora?
«Sì, molto. Sono preoccupato dalla deriva di isolamento del Paese. Si combatte contro tutti senza eccezioni e la xenofobia è sempre più diffusa».
Il premier Netanyahu è appena andato a Mosca per firmare un accordo con Putin. Cosa ne pensa?
«Ha un gusto assai strano nella scelta degli amici. Putin, e il più reazionario repubblicano americano, Sheldon Adelson, che ha fatto i soldi nelle lotterie di Macao e Las Vegas. Così facendo ci sta portando in un ambito molto negativo. Per non dire delle dichiarazioni razziste sue e di alcuni suoi ministri».
Il collasso della Siria, la guerra conto l’Isis, la nuova apertura Usa nei confronti dell’Iran, cosa cambia per Israele?
«Abbiamo vicini pericolosi. Ma non dobbiamo confidare solo nei rapporti di forza; in quanto Stato ebraico dobbiamo anche credere nelle idee. Innanzitutto mantenere la struttura democratica, minacciata dall’estrema destra che vorrebbe interferire anche sul sistema giudiziario o sulla cultura».
Come artista come si sente in Israele?
«Avverto una pressione continua per essere conformisti e non dire nulla che disturbi. È un disastro e può distruggere il progetto israeliano. Israele è forte perché ha una società aperta e le giovani generazioni sentono di essere creative e libere. Se questo progetto è minacciato la società ne sarà indebolita».
Perchè è stato eletto Netanyahu?
«E’ stato eletto perché era figlio di uno storico che ha imparato molto bene la lezione di Machiavelli. E’ stato eletto mettendo gli uni contro gli altri».
Come percepiscono gli israeliani il diverso rapporto con gli Stati Uniti, tradizionalmente l’alleato più forte?
«Ho messo in scena un testo teatrale, qualche anno fa, sul conflitto tra la Giudea e l’Impero Romano, nel quale gli ultra-nazionalisti di Masada volevano sconfiggere l’impero. E sappiamo com’è finita. Diaspora per 2000 anni».
Sembra molto pessimista.
«Non posso permettermi di essere pessimista, ma non è un buon momento e speriamo che questo film induca qualcuno a riflettere. Non vedo l’ora che esca: l’essenza del mio lavoro è raccontare la storia di questo grande dramma chiamato Israele. Una storia che merita un cinema impegnato».
Quindi il cinema è ancora un modo per esprimere idee politiche?
«42 anni fa, nel Golan, il giorno di Yom Kippur, mi sono trovato dentro a un elicottero in fiamme, colpito da missili siriani. Stavamo cercando di salvare un pilota israeliano abbattuto. Ero uno studente di architettura e avrei dovuto continuare il lavoro di mio padre, che era un architetto della Bauhaus, ma quando fui dimesso dall’ospedale decisi di diventare un regista. Dissi a me stesso: vi dirò ciò che penso. E da allora ho fatto solo film che ho pensato valesse la pena di fare».
Perché vive a Parigi?
«Vivo tra la mia città natale, Haifa, e Parigi. Sono arrivato a Parigi negli Anni 80 per poche settimane che poi sono diventate sette anni. Dopo l’elezione di Rabin nel ’92, tornai in Israele. Durante i miei anni a Parigi ho ampliato le mie conoscenze grazie a persone come Jack Lang, il ministro della Cultura, che ha facilitato il mio lavoro”.
Qual è il rapporto tra gli ebrei della diaspora e Israele?
«C’è un forte sentimento di solidarietà, un legame impressionate: ovunque io vada trovo comunità ebraiche che mostrano una grande compassione».
Nuovi progetti?
«Alcuni legati al film. Per esempio saranno pubblicare le mie interviste con Rabin, e presenterò un testo teatrale sullo stesso tema ad Avignone l’anno prossimo. E poi l’attrice Isabelle Huppert mi ha proposto un film su un’ebrea marrana, Doña Grazia Nasi».