Repubblica 4.10.15
Il regista Amos Gitai
“Non mi fido di Netanyahu solo una pace giusta fermerà la violenza”
Faccio il regista come atto di resistenza contro lo stato di guerra. Se non fossi israeliano farei l’architetto
intervista di Gianni Valentino
NAPOLI «Se credo alla pace in Israele? Ci devo credere. Ci voglio credere. Sono consapevole che in tutti questi anni troppe persone hanno sofferto. Però sono fiducioso. Del resto il mio nuovo film più che un’opera di un regista è l’azione politica di un cittadino attento». A Napoli, dove ha presentato in anteprima Rabin, the Last Day — il film che racconta dell’assassinio del premier laburista avvenuto nel 1995 — il cineasta israeliano Amos Gitai parla del costante stato di tensione in Israele: «Quel brutale assassinio, di cui a novembre ricorre il ventennale, ha interrotto un delicato processo di riconciliazione tra Israele e Palestina. Gli accordi sanciti a Oslo nel 1993 con Arafat credo avrebbero gradualmente portato alla pace ».
Nel discorso all’Onu, il premier Netanyahu ha affermato che è pronto a riaprire i colloqui di pace con l’Autorità nazionale palestinese. È credibile?
«Netanyahu è un uomo politico e i politici, lo sappiamo, dicono tante cose. Lo sapete pure voi in Italia. Dire non costa nulla, il dilemma è fare. Perciò accolgo la sua dichiarazione con estrema prudenza. In Israele esiste una coalizione — da entrambe le parti — che non vuole affatto la pace. Quando Rabin ordinò il ritiro delle truppe dell’esercito dai Territori della Palestina ci fu un istantaneo aumento delle azioni terroristiche palestinesi a danno di Israele. Questa guerra che non finisce è un fatto politico, più che religioso. Yigal Amir, il killer di Rabin oggi all’ergastolo non era ultraortodosso bensì appartenente all’ultradestra. Oggi il vero guaio del governo in carica sono i toni razzisti assai aspri. E questo atteggiamento contro gli arabi ricade pure sul resto della società civile, con effetti terribili e ingestibili: per le politiche scolastiche, la legalità e la cultura».
A luglio, per un incendio doloso, un bimbo è stato bruciato vivo nei dintorni di Nablus. Alcuni giorni fa, una coppia di coloni in Cisgiordania è stata uccisa davanti ai figli. Queste azioni di rappresaglia aumentano il rischio di ulteriori scontri?
«Ci sono angeli e bastardi da entrambi i lati. Questi avvenimenti che provocano morte si possono ripetere a intervalli regolari o più distanti nel tempo. Per questo insisto nel ribadire che l’unica via per ridurli, e via via non farli più accadere, è soltanto in un costante processo di convivenza ».
Davanti al Palazzo di Vetro dell’Onu è stata anche issata la bandiera della Palestina. Qual è la sua opinione?
«Guardi, il mio pensiero l’ho già espresso. E lo faccio ogni volta che scrivo e dirigo un film. È un concetto che credo di aver chiarito. Non mi piace commentare i singoli accadimenti poiché vanno inseriti in uno sguardo totale.
La mia posizione politica è quella che ogni spettatore può intuire in sala al termine della proiezione. La verità è che io nasco architetto, faccio il regista per reazione alla guerra. Anche mio padre era un architetto, lavorava nel nucleo della Bauhaus in Germania e quando Hitler prese il potere lo catturarono assieme ai suoi amici. Lo picchiarono, lo imprigionarono. Poi mio padre andò in Israele. Io studiavo architettura e nel 1973 ci fu la guerra del Kippur. Ero in elicottero per salvare alcuni feriti e un missile siriano colpì il nostro velivolo. Il mio copilota venne decapitato. Io restai illeso, miracolosamente. Da quel momento ho scelto di fare cinema come atto di resistenza».
Nel film si è ritagliato un cameo. Interpreta una guardia che all’arrivo del killer di Rabin dice ai colleghi “Portate via questo bastardo”.
«È il miglior personaggio che potessi scegliermi. Dice pochissime parole. Le più giuste, le più essenziali ».