La Stampa 29.10.15
Iarc. Carni rosse
La frontiera della gastropolitica
di Massimiliano Panarari
Sembra un thriller internazionale, ma è politica. Anzi, per la precisione, gastropolitica.
Ha quasi l’andamento di una crime story l’operato dell’Iarc (l’agenzia dell’Oms per la ricerca sul cancro) che sta condannando o mettendo sotto la propria lente investigativa, uno dopo l’altro, molti dei cibi hard più popolari e consumati.
Prima è toccato alla carne (rossa e lavorata), prossimamente a caffè, mate e «altre bevande calde». E un discorso analogo vale per il Parlamento europeo che dà il primo via libera a una serie di «nuovi alimenti» (e a un rinnovato bestiario), dagli insetti alle alghe, dagli scorpioni ai ragni. La frontiera della biopolitica si è infatti spostata da qualche tempo a questa parte sul terreno del cibo e dei (vecchi e nuovi) comportamenti alimentari. Un processo su cui ha influito molto il rilevante mutamento degli stili di vita che l’Occidente ha conosciuto per effetto della diffusione dei valori postmaterialisti; dai quali, come hanno evidenziato diversi politologi a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, è derivata una riconfigurazione delle tematiche e delle issues politiche, nonché, direttamente, la nascita di formazioni e partiti inediti come i Verdi (che si sono infatti opposti alle regole di semplificazione delle procedure autorizzative dei nuovi alimenti licenziate dall’Europarlamento e contrastano da sempre gli ogm).
La biopolitica nutrizionale, più recentemente, si è trasferita sul piano delle relazioni internazionali, la cui governance, finito l’ordine bipolare, si è fatta anch’essa molto postmoderna. Sono cambiati gli attori, lasciando spazio a soggetti privati (come le multinazionali dei prodotti alimentari) o non governativi (come le ong che combattono contro la fame nei Paesi poveri o l’italianissima Slow food), che hanno trovato una rappresentazione importante all’interno di Expo 2015, dove è stata messa in scena con successo l’attuale geopolitica globale dell’alimentazione. Nel mondo fattosi multipolare, che è anche un interconnesso e mediatizzatissimo Villaggio globale, si è inoltre affermata la public diplomacy che utilizza esponenti dello star-system (certi chef internazionali tali sono in tutto e per tutto) e si fa largo a colpi di quel soft power di cui certe nazioni dispongono per cultura e fascino della loro storia e modo di vivere. Non per nulla Stati Uniti, Gran Bretagna e Israele ragionano da tempo, e hanno avviato programmi, di «gastrodiplomacy» (che, detto per inciso, dovrebbe essere anche pane quotidiano per i denti di noi italiani); e nella decisione europea di aprire a «nuovi alimenti» inusitati (per non dire altro...) per i palati occidentali, ma piuttosto comuni per quelli asiatici, pare infatti di intravedere una mossa gastrodiplomatica che omaggia i mutati equilibri internazionali. Perché il cibo è una delle pochissime espressioni al tempo stesso di soft power (mangiare è, e ne siamo consapevoli da secoli, una forma di cultura) e di hard power (per la mole titanica di attività economiche che muove).