giovedì 29 ottobre 2015

La Stampa 29.10.15
I suoi racconti di fantascienza
Come il Lager, aiutano a svelare le smagliature della ragione
Non sono momenti di evasione, ma una sfida intellettuale e letteraria per entrare nella paradossale logica del “mondo alla rovescia”
di Francesco Cassata


Perché la fantascienza? Quale ruolo riveste nell’opera di Levi? Per rispondere a questi interrogativi bisogna innanzitutto liberarsi da una distorsione interpretativa. Levi scrive racconti «fantabiologici» - come li definirà Calvino - fin dagli Anni Quaranta, ma la sua prima raccolta - Storie naturali - esce soltanto nel 1966, dopo la ripubblicazione di Se questo è un uomo da parte di Einaudi e l’uscita della Tregua. La prima edizione di Storie naturali è inoltre firmata con uno pseudonimo, Damiano Malabaila, voluto dall’editore per ragioni commerciali. All’indomani della pubblicazione, il corto circuito fra scelte editoriali e ricezione critica indurrà Levi ad assumere una posizione difensiva, incentrata sul tema della continuità tra la fantascienza e gli scritti del Lager. E ancora oggi, la tesi di un Levi «imbarazzato» di fronte ai suoi stessi racconti fantascientifici non manca di raccogliere i suoi adepti.
Per mostrare quanto sia infondato questo approccio occorre esplorare le dichiarazioni di Levi, pubbliche e private, che precedono cronologicamente l’uscita di Storie naturali. Nel luglio 1965, ad esempio, Maria Grazia Leopizzi intervista Levi per l’Avanti! a proposito delle sue «pause fantastiche». Due punti, in questo articolo, sono fondamentali.
«Vizi di forma»
In primo luogo, Levi individua una stretta relazione tra il racconto fantascientifico e l’esperienza di un «vizio di forma» intrinseco alla «civiltà» e all’«universo morale» contemporanei, un «vizio» strettamente connesso - ma in maniera non univoca, non simbolica e non intenzionale - alla memoria del Lager: il ponte tra il Lager (il «più grosso dei vizi») e la fantascienza sono i «mostri» generati dal «sonno della ragione». A partire da Se questo è un uomo, Levi ha descritto l’universo concentrazionario come un «mondo alla rovescia», un universo non irrazionale, ma dotato di una sua mostruosa, capovolta, logicità e razionalità.
Nel 1955, nel decennale della Liberazione, in un sofferto passaggio dedicato al silenzio dei testimoni e alla vergogna provata dai sopravvissuti, Levi ha affermato: «Siamo figli di quell’Europa dove è Auschwitz: siamo vissuti in quel secolo in cui la scienza è stata curvata, ed ha partorito il codice razziale e le camere a gas. Chi può dirsi sicuro di essere immune dall’infezione?». In quest’ottica, lo straniamento cognitivo della fantascienza costituisce una chiave per entrare nella paradossale logica del «mondo alla rovescia», per studiarne i meccanismi e valutarne la possibile replicabilità futura, oltre che per indagare in profondità la «curvatura» etico-politica della scienza nell’era del dopo-Auschwitz.
Ma, accanto a questa dimensione, l’intervista del 1965 presenta anche un secondo aspetto, relativo a questioni di stile. Levi distingue qui nettamente fra due modelli: da un lato, la scrittura del Lager, il racconto analitico, «diritto» e «chiaro», frutto di una dedizione venata di «sofferenza» e di «errori»; dall’altro, la scrittura fantascientifica, fatta di «racconti scherzo, di trappolette morali», divertente ma nello stesso tempo distaccata e fredda. La scrittura del Lager può convivere con quella fantascientifica? O rischia di apparire, agli occhi del pubblico, come «una frode in commercio, come chi vendesse vino nelle bottiglie dell’olio?».
La similitudine leviana, intrisa di riferimenti a Lucrezio e Rabelais, è profondamente ambigua: olio e vino sono infatti due prodotti egualmente genuini e pregiati. Il loro scambio non è certo una «frode in commercio», ma un esperimento narrativo e cognitivo. Il racconto fantascientifico ha per Levi il pregio di condurre il lettore, tramite l’arte dell’umorismo e della parodia, all’interno delle «smagliature», dei «vizi di forma», delle «curvature» apertesi - dopo Auschwitz - nella sfera della razionalità novecentesca. Attraverso gli ingranaggi della «trappola morale», si entra nella bottiglia quasi come in una provetta, aspettando di trovarvi il Lager e finendo invece nel vino della fantascienza, in un ambiguo «mondo alla rovescia», al tempo stesso inquietante e seducente, evocativo e straniante. Proprio per questo motivo, la scrittura dei racconti fantascientifici è accompagnata - afferma Levi - da un «vago senso di colpevolezza», frutto di una «piccola trasgressione», compiuta però in piena consapevolezza.
Il vino e l’olio
Sulla portata di questo atto trasgressivo, Levi fornisce alcuni chiarimenti in una lettera privata a un’amica, il 22 febbraio 1966. La fantascienza non rappresenta un «tradimento» - afferma qui lo scrittore - ma un «ritorno alla realtà» e un’«evasione dalla parte ufficiale e professionale» del testimone ed ex deportato, sentita come un’imposizione del destino. È questo il vino venduto al posto dell’olio. Compiuto il dovere della testimonianza, Levi non vuole ridursi al «personaggio» che pur incarna, chiuso nell’esercizio di un ruolo pubblico standardizzato. Auschwitz per Levi non è soltanto un universo immerso nel passato e riattivato di volta in volta dai processi memoriali, ma è un prisma etico e cognitivo attraverso cui analizzare la «curvatura» della razionalità contemporanea e riflettere sulle «smagliature» e i «vizi di forma» del presente e del futuro. Quale miglior strumento, allora, della fantascienza per esprimere questa complessità, questo straniamento cognitivo?
Nella lettera del febbraio 1966, l’imminente pubblicazione dei racconti con Einaudi ha il valore di una cartina al tornasole. Da essa e dalla corretta comprensione da parte del pubblico - scrive ancora Levi - dipenderà il suo futuro di scrittore, il proseguimento della «parentesi letteraria». Non un’evasione, dunque, né un tradimento venato di imbarazzo, come molti hanno sostenuto: ma una sfida intellettuale e letteraria, perseguita con coraggio e consapevolezza.