giovedì 29 ottobre 2015

La Stampa 29.10.15
Obama, il guerriero riluttante
Truppe speciali verso Siria e Iraq, prolungamento della missione in Afghanistan e il ritorno in agenda degli interventi di terra
Il presidente americano Obama è obbligato a rivedere la propria strategia militare a causa della natura dei conflitti in corso
di Maurizio Molinari


Per comprendere l’entità del ripensamento che tiene banco a Washington bisogna partire da quanto sta avvenendo sui campi di battaglia, da dove si originano fatti che aggrediscono le convinzioni dell’amministrazione. In Siria Obama ha puntato sulla combinazione fra guerra aerea e Cia per sconfiggere Isis e far cadere Assad ma il risultato è il collasso dei gruppi di ribelli addestrati da Langley e la carenza di obiettivi per i raid in quanto i jihadisti vivono sotto le tende e operano a piccoli gruppi. In Iraq è andata peggio perché Isis si è rafforzato, estendendo il controllo dei territori fino a Ramadi, a 100 km da Baghdad. Non sono errori tattici ma strategici: Obama ha scelto di combattere Isis applicando il modello di guerra formulato da John Brennan, attuale capo della Cia, ovvero intelligence hi-tech per individuare il nemico e poi eliminarlo con droni, aerei e, se indispensabile, truppe speciali. È in questa maniera che nella notte del 1 maggio 2011 è stato eliminato Osama bin Laden, evidenziando il successo della «guerra segreta» ad Al Qaeda iniziata nel 2009. Tale «guerra segreta» è stata teorizzata e realizzata da Brennan per andare incontro all’esigenza di Obama di combattere i terroristi senza più impiegare l’esercito convenzionale, come invece aveva fatto George W. Bush in Iraq ed Afghanistan. È stata una formula vincente contro Al Qaeda ma nei confronti di Isis ha fatto flop perché il nemico è tornato a combattere in maniera convenzionale, che in questa regione significa tribale. Isis occupa città, riscuote tasse, gestisce confini, dispone di tribunali e polizia urbana. Se Al Qaeda l’11 settembre 2001 lanciò una guerra «asimmetrica» contro gli Usa, basata su attentati, Isis oggi controlla un territorio esteso quanto la Gran Bretagna. È un avversario convenzionale ed ha innescato un conflitto tribale con quasi 5000 gruppi armati che si combattono villaggio per villaggio. L’errore commesso da Obama è stato di combattere contro Isis la guerra precedente, vinta contro Al Qaeda, ignorando chi - al Pentagono ed al Congresso - da tempo gli chiede di adattarsi al nuovo nemico. A ben vedere anche il presidente russo, Vladimir Putin, si scontra con un conflitto più difficile del previsto. I suoi comandi avevano immaginato di usare raid massicci per far avanzare i siriani, sostenuti da iraniani ed Hezbollah, travolgendo i ribelli. Ma a quattro settimane dall’inizio dei raid ben quattro offensive di terra siriane non sono bastate perché i ribelli - sostenuti da Turchia, Arabia Saudita e Qatar - applicano la stessa tattica di Isis usando però armi più moderne, come i missili anti-tank Tow. Avanzare è arduo perché si combatte ovunque, in maniera feroce e senza un linea del fronte. Come fanno le tribù del deserto. Il volume di informazioni raccolte dalla sala operazioni di Tampa, sede del Comando Centrale Usa, ha convinto il generale Joseph Dunford, capo degli Stati Maggiori Congiunti, che la svolta non è più rinviabile: bisogna combattere a terra. Un veterano della Guerra Fredda come John McCain, ex prigioniero in Vietnam, sostiene che «servono 10 mila marines» per battere Isis. Se i generali del Pentagono hanno convinto il Segretario alla Difesa, Ashton Carter, ad informare il Congresso sulla necessità di «rafforzare lo schieramento a ridosso della prima linea» è perché l’errore del tandem Obama-Brennan sta causando un domino di cocenti sconfitte. Nelle ultime 12 settimane prima la resa dei ribelli Cia, poi l’intervento russo e infine la scelta di Baghdad di aprire ai raid russi hanno disegnato un indebolimento americano in accelerazione, trasformando Putin nel regista regionale. L’Afghanistan rafforza tale lettura perché i taleban nel blitz di Kunduz hanno dimostrato di voler anch’essi controllare aree territoriali: non fuggono nelle caverne, vogliono riprendersi le città. Dunque anche qui servono truppe di terra.
Il presidente si trova così, controvoglia, a pianificare con i generali interventi - più o meno estesi - che non condivide. È uno scenario che lo espone a rischi ed errori. Anche perché i generali del Pentagono diventeranno sempre più loquaci e determinati: per candidarsi a guidare le scelte militari che spetteranno al prossimo presidente degli Stati Uniti.