mercoledì 28 ottobre 2015

La Stampa 28.10.15
Mezzogiorno, le promesse e i pochi fatti
di Emanuele Felice


Una cosa deve essere chiara: se il Sud non si rimette in moto difficilmente la ripresa in Italia potrà consolidarsi; e se pure il Nord riuscisse a correre da solo, si spalancherebbe un tale divario da mettere a rischio la tenuta di tutto il sistema Paese.
Certo, alcune tare sono così antiche e profonde che sarebbe da ingenui pensare di poterle rimuovere con una legge di stabilità. Sono necessari anni e anni di politiche strutturali. Ma proprio per questo è importante che si comincino a dare segnali positivi: che al più presto si prenda una direzione diversa dal passato, finalmente in grado di innescare dinamiche virtuose.
Quando, nel pieno dell’estate, la Svimez aveva lanciato il suo accorato grido di allarme (ricordate? «Il Meridione in questi anni è andato peggio della Grecia»), il presidente del Consiglio Matteo Renzi, dopo qualche tentennamento, apparentemente aveva deciso di affrontare il problema di petto. La strategia che sembrava delinearsi poggiava su due gambe.
Da un lato, interventi specifici da concentrarsi nelle infrastrutture, negli investimenti e nel capitale umano, cioè in quelle che giustamente vengono considerate precondizioni per lo sviluppo - e dove il Mezzogiorno registra da sempre un deficit sostanziale rispetto al Centro-Nord. Dall’altro, interventi di ordine generale pensati per l’Italia tutta, rivolti all’ammodernamento delle istituzioni e al buon funzionamento della pubblica amministrazione (riforme dalle quali sarebbe dovuto discendere anche un più efficace contrasto a corruzione e malaffare).
Quella strategia è ancora valida. Ma risulta alquanto ammaccata dall’azione degli ultimi mesi. L’impressione è che il governo cammini su un crinale ripido, continuamente sospinto da opposte tendenze (opposte, ma non inconciliabili).
Da un lato, troppo spesso il governo tradisce la tentazione (e la voglia) di disinteressarsi del problema, estromettendo ancora una volta il Sud dalla sua narrazione, oppure esaltando oltre misura alcuni punti di forza del tessuto industriale meridionale: nella speranza che il Mezzogiorno si rimetta in moto da sé, trainato dalla ripresa. Dall’altro, qua e là affiora l’istinto di riesumare le antiche pratiche assistenziali. Le due tentazioni non sono inconciliabili, come si diceva, e anzi si potrebbero sposare senza grosse remore: distribuire un po’ di interventi a pioggia e nel frattempo aspettare che la barca del Mezzogiorno sia sollevata, anch’essa e nonostante tutto, dalla marea della crescita.
E così, nell’attesa salvifica della ripresa, la strategia per il Mezzogiorno è passata in secondo piano. In estate, sull’onda dell’emozione per le anticipazioni del rapporto Svimez, Renzi aveva annunciato un master plan per il Sud. Lo attendevamo per settembre. Non che in sé fosse una grande novità - di grandi piani se ne sono visti tanti e sappiamo che fine hanno fatto - ma almeno era un segnale. Poi però settembre è passato e il master plan non si è visto: cosicché il governo ha finito per mandare un segnale opposto, negativo - in tutti i sensi. Ci è stato detto allora che le misure per il Sud sarebbero state messe nella finanziaria. Peccato che si parlava soprattutto di prolungare, solo per il Mezzogiorno, la copertura del Jobs Act: cioè di un intervento meramente assistenziale, che non incide su nessuna delle condizioni strutturali. Alla fine il governo non è caduto nella trappola dell’assistenzialismo, bene. Epperò ha presentato per il Sud un programma parziale, dimentico degli alti proclami agostani. Della strategia iniziale di interventi specifici, rimane solo l’attenzione per le infrastrutture: meritoria, ma che per funzionare a dovere necessita di riforme nell’apparato amministrativo e nella gestione dei fondi europei ancora da completarsi (quella per la pubblica amministrazione e gli appalti, pure approvata, è in attesa di attuazione, e il governo tarda). Quanto le infrastrutture siano incerte nel Sud, lo prova anche il fatto che la proposta di riconsiderare il ponte sullo stretto è stata unanimemente giudicata una mossa elettoralistica: in questo contesto le grandi infrastrutture del Sud vengono derubricate, da bene strategico per il Paese, alla voce clientelismo.
Pensiamo che ci siano ancora margini per interventi più incisivi in finanziaria. Proprio in questi giorni gli assessori regionali alle attività produttive di tutte le regioni del Sud hanno presentato un insieme di richieste, fra le quali una (opera soprattutto del campano Lepore) va sicuramente nella direzione giusta: è la defiscalizzazione degli investimenti. Il governo ha raccolto la proposta, sostenuta anche da Confindustria. Ma resti consapevole che defiscalizzazione e infrastrutture da sole non bastano, se nel frattempo non si incide sulle altre condizioni generali (regole, burocrazia, legalità) che pesano sulla crescita italiana.