mercoledì 21 ottobre 2015

La Stampa 21.10.1
La ferita aperta del taglio delle spese
di Franco Bruni


Il problema più importante della Legge di Stabilità non è la detassazione della casa né il rilassamento del limite al contante, le cose che l’altro giorno hanno fatto dire al brillante fondo di Sorgi che la sinistra fa la destra. E non è nemmeno il tollerare la lentezza con la quale scendono deficit e debito pubblico, che qualcuno può considerare di sinistra. Il vero problema è la mancanza di un adeguato taglio delle tante spese sprecate, inefficienti, ingiuste.
Si può discutere, anche facendo teatro con destra e sinistra, come destinare i risparmi di spesa, se al taglio delle imposte, alla riduzione del deficit o a nuove spese più giuste e produttive. Ma è quasi incredibile come la «spending review» fallisca i suoi obiettivi governo dopo governo. E come questo governo abbia cercato fino all’ultimo di nascondere le sue difficoltà nei tagli, come Renzi abbia speso poca della sua popolarità per difenderli. E’ sulla frontiera delle spese pubbliche che si combatte la battaglia principale per far funzionare meglio l’Italia. Senza quella battaglia, tagliare le tasse può dare qualche stimolo, ma solo nel breve e in modo pericoloso e l’ambiziosa riforma della pubblica amministrazione, sulla quale il governo ha lavorato duro, rimane monca.
Tagliare spese che la larghissima maggioranza del Paese non può che considerare sprechi inutili, dannosi e ingiusti, non è né di destra né di sinistra. E’ solo difficile, politicamente molto difficile, perché colpisce tanti micro-interessi, interessi a che le cose continuino come sono. «Dietro voci di spesa ci sono posizioni di rendita», ha detto con chiarezza il ministro Padoan a Il Sole 24 Ore di ieri. La maggioranza dei votanti sarebbe d’accordo a eliminare le rendite, ma le resistenze corporative condizionano il Parlamento e possono organizzarsi per corrodere la popolarità del governo. Perciò i governi partono con ambiziosi progetti di tagli che poi abortiscono.
La difficoltà si supera solo con una maggioranza forte e compatta, che non miri a caratterizzarsi a destra o a sinistra, ma piuttosto come una forza capace di cambiare quello che tutti sanno va cambiato e perciò tagliare quel che va tagliato. Se si devono chiudere centinaia di società, inutili e gestite male, partecipate dalla pubblica amministrazione, se si devono ridurre grandemente deduzioni fiscali, sussidi e trasferimenti costosi, dannosi e diretti a chi non li merita, non occorre il patentino del polo giusto ma la forza di una grande maggioranza, capace di rappresentare l’interesse collettivo contro i tanti piccoli, ma potenti interessi speciali. Aveva cominciato Monti a cercare la necessaria convergenza politica, ci aveva poi provato Letta; dopodiché nello stesso sforzo si è cimentato Renzi, con una tattica diversa, centrata non su coalizioni trasversali ma sulla ricerca di un forte successo del suo partito.
Fatto sta che questa maggioranza Renzi per ora non ce l’ha e i suoi passi riformisti, spesso ben azzeccati, sono molto faticosi. E’ ovvio il suo sforzo a cercar consensi da tutte le parti, con la speranza di usarli per ottenere la maggioranza parlamentare necessaria per riformare più svelto e radicalmente. E’ questo sforzo che limita la limpidezza della Legge di Stabilità. Anche su ciò Padoan è stato chiaro: «La maggiore sensibilità politica del presidente del Consiglio si è imposta» di fronte alle richieste del ministro tecnico. Inoltre Renzi teme che l’attuale Parlamento blocchi alcune cruciali riforme in corso, compresa quella della Costituzione, che è necessaria anche per andare a elezioni con le nuove regole. Perciò deve tener buoni deputati e senatori di varia appartenenza e diversamente legati ai gruppi di interesse che ostacolano la revisione della spesa. E’ per questo che il governo rimanda quello che i consulenti di Palazzo Chigi raccomandano e che, fino alla settimana scorsa, doveva tradursi in tagli più che doppi di quelli ora proposti.
E’ possibile che il disegno acchiappavoti riesca: che le riforme già fatte funzionino bene e, con l’aiuto di Bruxelles, la politica economica sopravviva alla povertà dei tagli di spesa. Ed è possibile che, anche per non aver pestato troppi calli, dai sondaggi, dalle amministrative, dal referendum e, infine, dalle elezioni politiche, Renzi incassi la maggioranza che vuole per riformare più svelto e meglio. Ma è anche possibile che il disegno fallisca. I pericoli sono due. Il primo è che la qualità del consenso conquistato rinunciando a usare il coltello sia bassa e continui perciò a legare le mani al governo impedendogli di tagliare. Il secondo pericolo è che si corrompa chi si comporta a lungo con questa strategia: se il bottino elettorale sarà nel 2018, Renzi deve continuare per più di due anni ad attaccare Bruxelles, accontentare gli amanti del contante, far finta di tagliare, eccetera. Un periodo che può indebolire l’intento riformista, soprattutto se si dimostra che rinfoderare il coltello porta davvero voti.