La Stampa 13.10.15
“Assolvete l’imputato Pound. Non tradì l’America”
È la tesi, forse troppo indulgente, dell’ultimo volume della biografia scritta da David Moody. Il poeta finì in manicomio per aver collaborato con il fascismo
di Andrea Colombo
Ezra Pound non era un traditore e se fosse stato sottoposto a un giusto processo sarebbe sicuramente risultato innocente. È la tesi, che farà molto discutere, sostenuta da David Moody, professore emerito all’università britannica di York, nel suo ultimo volume della monumentale biografia del poeta americano, appena pubblicato dalla Oxford University Press. Come si sa l’autore dei Cantos, uno dei giganti della poesia contemporanea, simpatizzava per il regime fascista e nella seconda guerra mondiale ebbe l’imprudenza di trasmettere vari discorsi dai microfoni dell’Eiar.
Accusato di tradimento e arrestato, nel 1945 trascorse un mese in una gabbia all’aperto in un campo di detenzione nei dintorni di Pisa e quindi venne trasferito negli Usa dove, per salvarlo dalla sedia elettrica, il suo avvocato difensore giocò la carta della malattia mentale. Ritenuto incapace di intendere e volere, senza andare a processo, venne rinchiuso per 13 anni in un carcere criminale giudiziario a Washington Dc. Tornato libero nel 1958 decise di stabilirsi in Italia: morirà a Venezia nel 1972.
Ora Moody nel terzo volume dedicato a Ezra Pound poet e intitolato The Tragic Years 1939-1972, riapre il doloroso capitolo della detenzione del Miglior Fabbro (come lo chiamò T.S. Eliot) e lo fa da un’angolazione prettamente innocentista. Se finora i poundiani di stretta osservanza, come il suo editore James Laughlin, considerarono giusta la strategia difensiva che, a loro dire, evitò la pena di morte per il loro amico e maestro, Moody ribalta la questione e ritiene, carte alla mano, che al contrario solo un processo avrebbe permesso a Pound di riabilitare la sua immagine davanti al mondo. Avrebbe così ottenuto in tempi brevi la libertà, senza passare dal «buco infernale» («Hell Hole») del penitenziario psichiatrico. Il poeta «venne considerato un traditore e un fascista, ma non era né l’uno né l’altro», sostiene Moody. «La legge - continua - se avesse seguito il suo corso, l’avrebbe proclamato innocente; e la legge avrebbe dovuto seguire il suo corso perché non era pazzo». Il suo «coinvolgimento con il fascismo» era «un’adesione a principi economici e sociali più che politici, una spinta riformista con una buona dose di confucianesimo».
Il biografo arriva a dire che se proprio vogliamo etichettare Pound bisognerebbe considerarlo «confuciano più che fascista». Nonostante avesse trasmesso da una radio nemica in tempo di guerra, per Moody il poeta era un sincero patriota che aveva prima di tutto a cuore la costituzione e i «principi democratici» statunitensi. Il professore di origine neozelandese scrive senza mezzi termini che Pound nei suoi radio-discorsi «non suggerì mai al suo Paese di adottare il fascismo». Per la legge americana il concetto di tradimento implica «rendere al nemico aiuto e sostegno» e inoltre il reato necessita di almeno due testimoni. Moody intende dimostrare che il procuratore non solo non riuscì a trovare due testimoni attendibili, ma che per il dipartimento della Giustizia non si poteva sostenere che nei suoi radio-discorsi volesse fornire un appoggio concreto al nemico. Al contrario, «per quanto possa essere stato fuori strada, l’intenzione di Pound era quella di salvare gli Usa dall’errore, non di tradirli».
La questione è complessa. Moody stesso elenca dettagliatamente i pagamenti che il regime fascista elargì al poeta, anche nel periodo della Rsi. Il Minculpop gli passava infatti ottomila lire al mese, che all’epoca non erano poche, sia per le collaborazioni radiofoniche, sia per gli articoli e le pubblicazioni di propaganda. Perché di questo in molti casi si trattava: anche se ovviamente era una propaganda del tutto particolare. Alla fine però i risultati potevano apparire a dir poco imbarazzanti per un poeta di fama internazionale. Come nel Canto 73, scritto in italiano e pubblicato su una rivista della Rsi La Marina Repubblicana l’1 febbraio 1945, dove Pound si lascia andare all’esaltazione di una ragazza fascista che si sarebbe fatta esplodere in mezzo alle truppe canadesi per vendicare uno stupro «da lor canaglia»: «Nel settentrion rinasce la patria/ Ma che ragazza! Che ragazze,/ che ragazzi, / portan il nero!».
Come faceva Pound a non accorgersi che in quell’ultimo inverno di guerra tutto stava crollando, che nei gesti disperati dei repubblichini di Salò non c’era nessun «rinascimento» in vista, rimane un mistero. Di lì a poco i partigiani lo preleveranno dalla sua casa di Rapallo, mitra in pugno. Il suo destino era segnato. Lo stesso Moody è costretto ad ammettere che in questo periodo della guerra Pound aveva «dato la sua voce al fascismo». La propaganda aveva sostituito la poesia.
E la poesia appunto, che fine aveva fatto? Moody non esita a sottolineare come i versi migliori di Pound, i Canti Pisani, siano stati scritti proprio nel periodo più doloroso, quando il poeta era incatenato nella gabbia del campo di concentramento alleato in Toscana. Quelle visioni paradisiache, successivamente limate e perfezionate nell’ambiente cupo del manicomio criminale, rimangono il capolavoro più celebrato di Pound. Che sognava, nel «buco infernale» della sua cella, «la città di Dioce /dai terrazzi color di stelle».