domenica 11 ottobre 2015

La Stampa 11.10.15
Tra i famigliari di Marwan e Khalil
“Morti da martiri, come volevano”
A Khan Yunes l’addio ai palestinesi di 11 e 15 anni colpiti dal fuoco israeliano “Consideravano degli eroi i giovani che tirano sassi per salvare la moschea”
di Maurizio Molinari


«Voglio morire come uno shahid». Marwan Barbakh, 11 anni, ha rivelato l’intenzione di diventare «martire» al padre Isham, poliziotto di Hamas, prima di uscire da casa a Khan Yunes per andare a lanciare sassi contro il posto di frontiera dei soldati israeliani. È Isham che, parlando al telefono dalla tenda del lutto eretta davanti alla propria casa, ricorda l’addio del figlio: «Considerava degli eroi i giovani della Cisgiordania che tirano i sassi contro i militari, voleva essere come loro, per salvare Al Aqsa dalla dissacrazione dei coloni».
Tra calcio e playstation
La famiglia Barbakh vive in un quartiere di Khan Yunes, nel Sud di Gaza, che porta il suo nome perché gli abitanti sono tutti imparentati. Quella di Isham è una delle più povere perché i poliziotti di Hamas vengono pagati 1000 shekel - poco più di 300 dollari - ogni tre mesi. Marwan era il secondo di sette figli, «a scuola non andava bene, gli piaceva giocare a calcio per strada e appena poteva si rifugiava nella playstation», ricorda il padre, secondo il quale la scelta di «andare al confine per tirare sassi contro gli israeliani» è nata «dalle recenti immagini viste in tv di ragazzi più grandi, con le maschere sul volto, capaci di sfidare i proiettili dei soldati». Ma non è tutto perché, aggiunge Isham, «nel nostro quartiere e in tutta Gaza c’è tanta rabbia nei confronti dei porci ebrei che dissacrano la moschea di Al Aqsa».
La stessa definizione dispregiativa del nemico esce dalle labbra di Umm Jihad, madre 38enne di un altro palestinese ucciso, Khalil Othman, 15 anni. Il riferimento è «più ai coloni che ai soldati - spiega Muhammed, il fratello di Khalil che era al suo fianco quando è stato colpito - perché sono loro che vogliono impossessarsi di Al Aqsa per giudaizzarla». I soldati israeliani sono «nemici» mentre i settlers civili sono «maiali» perché, aggiunge Muhammad, «sono questi civili, religiosi, che ci strappano le terre, a Gerusalemme oggi come in passato a Gaza».
La passione per le bici
Umm Jihad descrive il figlio come «un ragazzo bravo ma poco socievole» che «stava quasi sempre da solo» e l’unico passatempo che amava era «andare in un negozio di biciclette nel nostro quartiere, Al Amal, per aiutare ad aggiustarle. Anche lui, come Marwan, ha detto ai genitori che sarebbe andato «al confine a partecipare ai lanci di pietre contro i soldati» ma senza precisare la volontà di diventare un martire. «Eravamo assieme - racconta Muhammed - ci siamo avvicinati il più possibile al recinto, abbiamo visto i soldati e iniziato a tirare le pietre, poi lui è stato colpito, prima alla pancia e poi alla schiena, è stato quest’ultimo colpo ad attraversarlo, uscire dal petto ed ucciderlo». Ambulanze nei paraggi non ce n’erano e così il corpo ferito è stato messo a bordo di un «tuk-tuk» - le motociclette a tre posti - e portato all’ospedale Nasser di Khan Yunies, dove è stato dichiarato morto.
Nella tenda del lutto
Umm Jihad non riesce a capacitarsi che il figlio - terzo di nove - non ci sia più e continua a parlarne a tratti come se fosse ancora vivo: «Non va bene a scuola, è una cosa che ci dispiace molto, bisogna parlare con lui e con gli insegnanti, forse possiamo recuperare la situazione». Tocca al figlio Muhammed tornare, più volte, sul racconto del «proiettile che ha trafitto Khalil» per far accettare alla madre quanto avvenuto mentre nella tenda del lutto della famiglia Barbakh è un gruppo di amici di Marwan a raccontare al padre Isham i suoi ultimi minuti di vita: «Ha avuto coraggio, è stato quello che si è avvicinato di più ai soldati, lo hanno colpito al petto ed è morto da Shahid - martire - come voleva». Ciò che accomuna i racconti delle due famiglie è anche la dinamica del momento della scelta, avvenuta al mattino «dopo aver parlato con gli amici», comunicata ai genitori come una decisione senza appello e poi messa in pratica camminando a piedi verso le postazioni militari israeliane sulla frontiera, nella consapevolezza di andare incontro ai proiettili. Tanto Isham Barbakh che Umm Jihad Othman aspettano i funerali di oggi come un momento «di rispetto per la nostra famiglia da parte di chiunque a Gaza». Avere un figlio «morto combattendo per Al Aqsa» significa guadagnare uno status sociale simile a quello delle famiglie che hanno avuto caduti nelle guerre combattute contro Israele.