Il Sole Domenica 25.10.15
Scalfari, diario in pubblico con molti sé
di Armando Massarenti
«Dio è morto, scrisse Nietzsche. Sbagliava. Mi sembra più corretto affermare che senza di noi non sarebbe mai nato». Il tono feuerbachiano di questa affermazione serva a liberarci dalla tentazione, un po’ morbosa, di chi vorrebbe trovare tracce di sacro, e persino di incipiente conversione, nelle recenti riflessioni del 91enne, dichiaratamente ateo, Eugenio Scalfari. Ma se nel suo ultimo libro egli può dare nuove soddisfazioni a chi è alla costante ricerca di queste cose, bisogna dire che L’allegria, il pianto, la vita è anche altro. Molto altro. E poi quell’idea è frutto di un sostanziale fraintendimento, che deriva dal gusto di Scalfari di misurarsi - quasi a volersi elevare dall’attività che lo caratterizza maggiormente, che è quella di osservatore ed analista, empirico e attento, dei fatti sociali, politici ed economici - con i temi più alti della cultura, della teologia e della filosofia: non solo Dio e la Bibbia, ma Rilke, Villon, Leopardi, Pascal, Nietzsche... Gaetano Salvemini amava distinguere due opposti atteggiamenti intellettuali: quello delle aquile, che guardano il mondo dalle altezze vertiginose dei sistemi filosofici idealistici, e quello dei passerotti, gli umili alfieri dell’empirismo, che amano rimanere a terra e attenersi ai fatti. Scalfari è più passerotto che aquila, ma è un passerotto che ogni tanto vuole volare alto, e da qui può nascere qualche equivoco. In realtà Scalfari è entrambe le cose, e lo si vede proprio in questo libro, un diario in cui si addentra in un colloquio con i suoi molti sé (il se stesso di vent’anni fa che si confronta sul tema della vecchiaia con Mastroianni e Gassman, per esempio, ma anche il sé di trenta, quaranta anni fa, qualche volta anche il se stesso bambino) in un percorso che è insieme personale, intimo, e di grande interesse pubblico. Troviamo riflessioni acute e sorprendentemente simpatetiche sull’anarchismo di Bakunin, oltre che sul patriottismo e sulle diverse anime del Risorgimento e della storia italiana, da Machiavelli e Guicciardini fino al disinteresse per la politica e per il bene comune delle ultime generazioni (non dei “bamboccioni”, ma dei giovani più brillanti e preparati). La «rilettura» dei classici di cui è costellato il volume è «motivata dal fatto che la politica italiana ed europea mi lascia profondamente insoddisfatto. Vorrei capirne il perché. Insufficienza della classe dirigente oppure inadeguatezza dei popoli che vengono detti sovrani ma quasi sempre si dimostrano succubi (o desiderosi) di demagogia?» I giudizi non sono mai edulcorati, e l’analisi termina con queste parole: «Partiti liquidi e personalizzati, declino mondiale delle forme democratiche e della divisione dei poteri, e in Italia predominio d’un partito di centro di grandi dimensioni, tali da non consentire alternative: questo è lo stato dei fatti». È la cultura dei fatti, unita al credo liberal-democratico, che nutrì le esperienze di Scalfari con Pannunzio, protagonista dell’episodio più struggente del volume. Il loro sodalizio si ruppe in maniera definitiva dopo la chiusura, nel 1962, del primo Partito radicale. Non solo Scalfari non lo poté incontrare nei giorni prima della morte (lo poté solo vedere, non visto, da una porta socchiusa) ma gli fu mentito sui funerali: «Quando vidi quei funerali in un breve servizio televisivo scoppiai in un pianto irrefrenabile. Non per l’esclusione di cui pure mi sentivo vittima ma per aver perso un padre, e ne sentivo grandissima sofferenza perché da quel padre ero stato disconosciuto senza che lui sapesse che esisteva un orfano».