Il Sole 9.10.15
Nel Sinodo il destino di un Pontificato
di Gianfranco Brunelli
Papa Francesco non farà mediazioni. Non nella sostanza. Forse non lo si è letto in profondità il suo intervento di lunedì scorso all’apertura dell’assemblea sinodale. Papa Francesco intende questa seconda assemblea sinodale, che chiude un biennio di confronti, riflessioni, analisi sulla questione della famiglia e che ha visto il più ampio coinvolgimento di tutta la Chiesa, come qualcosa che va oltre il tema stesso.
Il Sinodo sulla famiglia, per la modalità voluta da Papa Francesco, concerne l’idea stessa che il Papa ha della forma della Chiesa. Cioè del suo modo di essere. Certo c’è il tema specifico, ci sono le determinazioni anche canoniche sulle singole questioni (come la comunione ai divorziati risposati) e alla fine toccherà a lui decidere cosa accogliere da questo processo di partecipazione della Chiesa, e lo farà l’anno prossimo durante il giubileo della misericordia. Ma la sua non vuole essere una decisione solitaria. Questo Sinodo ha lo stile di un concilio. È la forma nuova, ordinaria, con la quale il Papa intende che la Chiesa debba affrontare le questioni che ha di fronte in questo tempo di trasformazioni radicali.
Il Papa intende la Chiesa stessa in questa forma di sinodalità e di collegialità. La collegialità come manifestazione esterna (giuridica) dell’unità spirituale interna (la sinodalità), nella quale avviene una partecipazione effettiva dei vescovi e di tutto il popolo di Dio. In questo egli realizza compiutamente quel processo che il Concilio Vaticano II aveva aperto.
Così quando egli ricorda «che il Sinodo non è un convegno o un parlamento o un senato, dove ci si mette d'accordo», non ce l’ha con le istituzioni democratiche, ma intende piuttosto riassumere una intera prospettiva ecclesiale: partecipare è recepire (cfr. Il Regno 7, 2015, 485). Per il Papa «il Sinodo è un’espressione ecclesiale, cioè è la Chiesa che cammina insieme per leggere la realtà con gli occhi della fede e con il cuore di Dio; è la Chiesa che si interroga sulla sua fedeltà al deposito della fede, che per essa non rappresenta un museo da guardare e nemmeno solo da salvaguardare, ma è una fonte viva alla quale la Chiesa si disseta per dissetare e illuminare il deposito della vita».
Tutto il suo pontificato si riassume qui. Può non riuscire. Può fallire. E le conseguenze allora sarebbero dirompenti per tutta la Chiesa e per il mondo intero. Per questo non farà mediazioni. Non accetterà che il Sinodo si chiuda in un nulla di fatto. Ne ha una consapevolezza piena e una lucida determinazione. Per questo è intervenuto a sorpresa nuovamente nel dibattito sinodale per chiarire le modalità del Sinodo di fronte alle critiche di alcuni vescovi. E se sarà necessario lo farà ancora. È sempre presente. Partecipa ad ogni momento, parla personalmente con i dubbiosi. Vuole che parlino tutti.
Conosceva dapprima il testo del relatore generale del Sinodo, il cardinale ungherese Péter Erdö. Una relazione così chiusa e arretrata da rappresentare una ostentata provocazione. Perché il testo di Erdö è nella sostanza un arretramento anche rispetto alla sua relazione iniziale al Sinodo dello scorso anno, non solo rispetto allo strumento di lavoro, elaborato a partire dalla relazione finale e dalle risposte delle Conferenze episcopali di tutto il mondo. Quasi un atto di presunzione. Come se tutto il lavoro svolto sin qui dall’intera Chiesa fosse carta straccia. E il Sinodo una cosa inutile. Un errore grave da parte dell’ala ultraconservatrice. Papa Francesco lo ha lasciato fare. Egli confida che la maggioranza dei padri sinodali sappia e comprenda che la Chiesa cattolica non è l’Ungheria. Non basta stendere un muro di filo spinato per proteggersi dalla realtà e ritenersi al sicuro. Al sicuro da che? E per che cosa?
Quando ha pronunciato le sue parole introduttive, rivolto ai padri sinodali, il Papa ha indicato qual è per lui l'unica strada possibile per la Chiesa oggi e con ciò ha detto che andrà fino in fondo. Nello stesso intervento, entrando nel merito, ha chiesto coraggio apostolico, umiltà evangelica, preghiera fiduciosa. Il coraggio apostolico non si lascia intimorire dalle seduzioni mondane, né dalla durezza dottrinale che allontana, in nome del bene, le persone da Dio. L’umiltà evangelica «sa svuotarsi dalle proprie convenzioni e pregiudizi» e non giudica gli altri. L’orazione fiduciosa «è l’azione del cuore quando si apre a Dio, quando si fanno tacere tutti i nostri umori per ascoltare la soave voce di Dio che parla nel silenzio». Senza Dio la Chiesa non ha parole necessarie da dire.
Ma perché questa insistenza e questa urgenza? Papa Francesco è consapevole della profondità della crisi del cristianesimo e della crisi dello stesso Occidente. La vede dalle periferie del mondo. Una perdita di senso della storia che nella storia occidentale avvolge anche la Chiesa. Sa che nel dopo concilio si è aperta una crisi dell’istituzione-Chiesa, che né il pontificato carismatico di Giovanni Paolo II, né quello teologico di Benedetto XVI hanno risolta. Anzi, che essa si è aggravata trasformandosi in crisi di autorità nella Chiesa stessa, al punto che Benedetto XVI è arrivato alla decisione di dimettersi. E il conclave gli ha chiesto di riformare la Chiesa.
Il Concilio Vaticano II aveva affrontato, seppur in maniera disomogenea, l’idea di una riforma della Chiesa, oramai inevitabilmente permeata dalla modernità, riprendendo dalla Chiesa delle origini i concetti di reformatio, purificatio, renovatio. Entrambi gli ultimi due grandi papi hanno inteso optare prevalentemente per una riforma della Chiesa che guardasse a una estroversione accattivante o alla sua interna purificazione, accantonando o escludendo le altre dimensioni.
Papa Francesco ritiene che vista la situazione critica non si possa che agire su tutti i punti, senza più separare la parte strutturale da quella spirituale della riforma. Ma non è questione di qualche raccomandazione o rammendo curiale. È questione di un radicale ritorno al Vangelo. Al Vangelo come vita, testimonianza viva prima che come dottrina. Dal dogma al kerygma. All’annuncio. Il Vangelo di Gesù somiglia più a una relazione personale che a un sistema dottrinale. Francesco ha una visione relazionale e processuale del Vangelo, come fu agli inizi, nella quale le donne e gli uomini di questo tempo possano riaccostarsi al messaggio cristiano come fosse adesso la prima volta. Riguardando la loro storia e la loro vita. Non è una negazione della dottrina della Chiesa, ma la scommessa che viva nuovamente.
Il Papa chiede alla Chiesa di trovare forme di vita della fede che parlino al cuore delle persone nelle situazioni storiche attuali, a cominciare da quelle più drammatiche, uscendo dalle secche di un modello basato su una verità posseduta e semplicemente da comunicare. La Chiesa annuncia la verità (il Dio che si rivela in Gesù Cristo), ma non la possiede e non la può imporre. Per questo Francesco, di fronte alla scena di questo mondo, ha ripreso tra i nomi di Dio quello da tempo sottaciuto di misericordia. Se Dio è misericordia, la Chiesa non può che essere misericordia. In se stessa e nella sua testimonianza. Ma questo la Chiesa lo deve credere assieme.