Il Sole 11.10.15
Interesse generale
Il sindacato e quel prestigio perduto
di Luca Ricolfi
Quando Giuseppe Di Vittorio morì, stroncato da un infarto, avevo 7 anni e giocavo con il trenino elettrico. Era il 1957, e di lui seppi qualcosa solo molto più tardi, nei primi anni ’70, un po’ per bocca di persone che lo avevano conosciuto, un po’ per averne letto sui libri: una materia come “Storia del movimento sindacale” era considerata fondamentale, e molti di noi leggevamo avidamente i libri che parlavano del sindacato. Il sindacato italiano, infatti, aveva allora un enorme prestigio, un fatto che i sondaggi e le inchieste del tempo certificavano regolarmente. Il prestigio del sindacato, a quel che ricordo, raggiunse il suo apice intorno al 1972, quando Trentin, Carniti e Benvenuto fondarono il sindacato unitario dei metalmeccanici, la mitica Flm (Federazione dei Lavoratori Metalmeccanici). Allora l’idea di un sindacato unico, che superasse Cgil-Cisl-Uil, non era affatto vista come qualcosa di autoritario, ma come un mito positivo (un po’ come l’unità europea negli anni ’90), un progetto da perseguire con pazienza e determinazione. L’idea era di “fare come la Flm”, e unire le sigle sindacali in tutti i settori, non solo fra i metalmeccanici.
Di quegli anni e di quel periodo ho un ricordo personale preciso e diretto, perché il mio primo lavoro, prima di iniziare la carriera universitaria, lo ottenni proprio dalla Flm. Sotto la guida di Ivar Oddone - uno straordinario medico e un indimenticabile maestro che, fin dagli anni ’60, aveva inventato un sistema per descrivere e classificare i fattori di nocività negli ambienti di lavoro - mi occupavo di ricostruire analiticamente i cicli produttivi (verniciatura e lastroferratura, soprattutto) per combattere la nocività e i rischi. Allora i morti sul lavoro erano circa 10 al giorno, e una parte cospicua degli incidenti aveva luogo nel settore metalmeccanico.
Questi ricordi lontani si sono affacciati prepotentemente in questi giorni, in cui tanto si è parlato della Cgil di Di Vittorio. Perché non sono abbastanza vecchio da avere un ricordo diretto della Cgil degli anni ’50, ma di quella degli anni ’70, guidata da uomini come Bruno Trentin e Luciano Lama sì. Ebbene il mio ricordo è molto nitido: il segno distintivo di quella stagione fu, nonostante sbagli e incertezze di vari tipi, il senso profondo dell’interesse nazionale. Ricordo, come fosse ieri, la fase di preparazione della piattaforma rivendicativa dei metalmeccanici nel 1972-73, e quali fossero le cose di cui andavamo fieri: erano il miglioramento delle condizioni di lavoro, le 150 ore per lo studio, gli investimenti per creare occupazione nel Mezzogiorno. Sì, avete letto bene: il cuore dell’industria del Nord, che allora era a Torino, chiedeva investimenti nel Sud.
Ecco, al di là delle polemiche di questi giorni, è questo su cui vorrei attirare l’attenzione: il prestigio del sindacato nei primi anni ’70 si fondava sulla sua capacità di porsi come rappresentante di valori e interessi generali. Una capacità non sempre esercitata al meglio, ma che era visibile e riconoscibile su molti terreni: dalla lotta al terrorismo al contrasto della nocività, dalla politica dell’istruzione allo sviluppo del Mezzogiorno.
Oggi, lo dico con amarezza, di tale capacità di interpretare l’interesse generale si vedono ben poche tracce. Il sindacato ha smarrito la capacità di andare oltre la tutela immediata dei propri iscritti, e questo spiega il crollo del suo prestigio presso l’opinione pubblica.
Eppure, quale sia l’interesse generale oggi in Italia dovrebbe essere sufficientemente chiaro a tutti. L’interesse del Paese è di far ripartire la produttività, ferma da 15 anni, e di portare il tasso di crescita a un livello, il 2-3% annuo, che consenta la formazione di un numero di nuovi posti di lavoro significativo (almeno 2 milioni). Questo obiettivo, però potrà essere raggiunto solo se, dell’interesse generale, sapranno farsi carico tutti e tre i principali attori in campo: sindacato, organizzazioni datoriali, governo. Il sindacato dovrà, prima o poi, rendersi conto che il dilemma salari-occupazione non è aggirabile, e che un ulteriore aumento della quota del reddito nazionale che va ai lavoratori dipendenti non può che rallentare la formazione di nuovi posti di lavoro. Dalle organizzazioni datoriali, d’altro canto, è lecito attendersi che divengano pienamente consapevoli che la ricostituzione dei margini di profitto è nell’interesse generale del Paese solo se i profitti si traducono in investimenti produttivi e si abbandona la risposta “ricardiana” alla crisi messa in atto in questi anni: ridurre gli investimenti e liberarsi dei segmenti meno efficienti della forza lavoro (la strada seguita fin qui, fortunatamente non da tutti) non può essere la via maestra per recuperare competitività.
Quanto al governo, che dell’interesse generale dovrebbe essere il primo interprete, quello di cui più si sente l’esigenza è uno sguardo più lungo, meno ossessionato dalla ricerca immediata del consenso, e più attento a creare le condizioni generali che consentono di generare ricchezza, prima fra tutte un allentamento della pressione fiscale sui produttori. È curioso, ad esempio, che nel recente braccio di ferro fra industriali e sindacati sulle quote distributive, nessuno abbia notato che, nell’ultimo triennio, il peso delle imposte indirette nette abbia toccato il massimo storico, qualcosa come 50 miliardi di prelievo in più rispetto alla metà degli anni ’90. Eppure, la torta che va divisa fra salari e profitti, è quel che resta del Pil dopo il prelievo delle imposte indirette nette (qualcosa come 214 miliardi nel 2014). Forse, se lo Stato si decidesse a fare un passo indietro, anche il fisiologico conflitto fra sindacati e datori di lavoro sui livelli salariali potrebbe svolgersi in termini più costruttivi.