venerdì 23 ottobre 2015

il manifesto 23.10.15
Le parole di Benyamin «Bibi» Netanyahu e la rivolta palestinese
Shoah. Imputando al Gran Muftì la responsabilità nello sterminio gli ebrei, cerca di giustificare storicamente quello che la propaganda governativa israeliana sostiene da sempre: gli «arabi» ci odiano e ci vogliono distruggere perché antisemiti
di Carlo Tagliacozzo


Nel 2000 Norman Finkelstein, storico e scrittore ebreo americano e figlio di sopravvissuti allo sterminio, scrisse «L’Industria dell’Olocausto», un libro provocatorio, apprezzato da Noam Chomsky ma di alterna fortuna e scontro, dichiaratamente scritto «contro ogni forma di speculazione, economica e politica, sulla memoria della Shoah». Egli rispondeva così alle domande sul perché della sua provocazione e indignazione: «La risposta più ovvia è che è stato usato per giustificare la politica criminale dello Stato di Israele e il sostegno americano a tale politica».
Le dichiarazioni di Benyamin Netanyahu sulle responsabilità del Gran Muftì di Gerusalemme come principale responsabile della «Soluzione finale» ne sembrano ora una diretta testimonianza. La fondatezza storica delle affermazioni di Netanyahu è stata per fortuna già confutata dagli storici, israeliani e non. Ma qual è la ragione di questa affermazione, in questo particolare contesto? Netanyahu non è stupido, ma è arrogante, dice e fa quello che ritiene utile per i suoi fini infischiandosi delle reazioni che può provocare.
A mio parere lo scopo del suo discorso è duplice. Intanto siamo di fronte al paradosso che il premier israeliano rischia di confermare proprio le tesi provocatorie di Finkelstein.
Imputando al Gran Muftì di Gerusalemme la responsabilità nello sterminio gli ebrei, Netanyahu cerca di giustificare storicamente quello che la propaganda governativa israeliana sostiene da sempre: gli «arabi» ci odiano e ci vogliono distruggere perché antisemiti. Israele, dopo la Shoah, è legittimata a difendersi a qualunque prezzo. La pulizia etnica, il furto delle terre, lo strangolamento dell’economia, il razzismo e le politiche di apartheid non sono la causa della disperata rivolta dei palestinesi di questi giorni. Le aggressioni all’arma bianca colpiscono gli ebrei in quanto tali, poco importa che siano soldati di un esercito di occupazione o coloni che rubano la terra ed attaccano i villaggi palestinesi.
Dare la colpa al Gran Muftì ha un secondo fine: scagionare l’Occidente delle proprie colpe storiche. Significa porsi dalla parte della civiltà europea contro la «barbarie» orientale, rappresentata dall’Isis. Non a caso Israele ed i suoi sostenitori insistono sul parallelo tra i gruppi della resistenza armata di ispirazione islamica e gli attacchi palestinesi di questi giorni, con lo Stato Islamico. Destoricizzare e decontestualizzare quanto avvenuto nel XX secolo e quanto avviene in Palestina, assolutizzare il ruolo degli ebrei, incarnati nello Stato di Israele, nel ruolo di vittime distoglie l’attenzione sulle cause profonde del conflitto. Così è inutile indagare sulle caratteristiche del carnefice del popolo ebraico: tutti gli altri popoli lo sono stati o lo possono diventare in qualunque momento. Ora quello che conta è dimostrare che chi sta praticando l’antisemitismo sono i musulmani, i palestinesi.
È evidente quanto ci sia di immorale, di «pornografico» nel discorso di Netanyahu. A chiunque abbia vissuto, anche indirettamente, la tragedia delle persecuzioni razziali e dello sterminio, a chiunque abbia a cuore la memoria delle vittime (di tutte le vittime), queste dichiarazioni non possono che ripugnare. Come durante «Margine protettivo», non mancheranno sicuramente le prese di posizione nette da parte di sopravvissuti e discendenti di sopravvissuti all’Olocausto contro questa volgare mistificazione. Ma ci vuole una forte mobilitazione internazionale, sopratutto della società civile, per porre fine ad un regime che tenta, speculando persino sulla memoria dei morti, di legittimare un sistema di dominazione nei confronti del popolo palestinese.