domenica 11 ottobre 2015

AAAAAAAil manifesto 11.10.15
Riforme, la non autocritica di Bersani
Senato. L'ex segretario ammette: sono stati scritti "bizantinismi costituzionali". Parla della mediazione sulla quasi elezione dei senatori che la minoranza Pd ha firmato. Renzi intanto prova gli slogan per la campagna referendaria: "Meno politici"


Antivigilia del grande giorno per il governo. Martedì il senato darà l’ultimo voto, scontato nell’esito positivo, al disegno di legge Renzi-Boschi che riscrive un terzo della Costituzione del ’48. Il presidente del Consiglio non sta nella pelle da giorni e anche ieri è tornato a esultare: «Avremo un paese più semplice con meno politici a tempo pieno». Si riferisce ai cento senatori invece degli attuali 321, trascurando però di ricordare che le proposte di riforma alternativa prevedevano una riduzione ancora più forte attraverso il dimezzamento dei deputati (che invece la maggioranza ha voluto confermare a 630).
Renzi ha detto anche, parlando agli industriali di Treviso, che «non voglio ridurre il livello di democrazia, ma il numero di chi fa politica». Difficile negare che tra le due cose ci sia un rapporto proporzionale, a meno di non considerare un pericoloso esponente della «casta» chiunque fa politica. Forse Renzi intendeva questo. Con un anno di anticipo, è già in campagna elettorale per il referendum confermativo. Ha bisogno di slogan semplici.
Che la riforma costituzionale sia invece venuta fuori tutt’altro che semplice, ma assai faticosa nella lettura e nel funzionamento, lo sostiene adesso anche uno dei suoi più recenti estimatori. Pier Luigi Bersani, che da capofila dell’opposizione interna al disegno di legge Renzi-Boschi, si è trasformato in sponsor dopo l’accordo tra la minoranza democratica e il governo sulla «quasi elezione» diretta dei senatori. «Si poteva arrivare a questi risultati importanti, ma di elementare buonsenso — ha scritto ieri su facebook l’ex segretario Pd — senza impuntature, senza lacerazioni, ma soprattutto senza bizantinismi costituzionali». Riferimento evidente agli articoli 2 e 39 della legge di riforma che si prestano a contrastanti e complicate interpretazioni, sia per il modo in cui i cittadini potranno effettivamente scegliere i nuovi senatori, sia per il momento in cui cominceranno a farlo. Ma è precisamente la mediazione che la minoranza Pd ha accettato.
Il presidente del senato grasso, la cui conduzione d’aula ha scontentato parecchio le opposizioni, teme proteste scenografiche durante l’ultima votazione in diretta tv martedì pomeriggio. E, sollecitato dal Pd, ha convocato martedì mattina un consiglio di presidenza che si occuperà di sanzionare i senatori grillini più vivaci in aula. E dimettere tutti gli altri sull’avviso.

il manifesto 11.10.15
La croce sopra al Campidoglio
Le due sponde del Tevere. Fin dall’elezione, le gerarchie ecclesiastiche hanno lavorato per logorare Marino. Il chirurgo cercò il papa per informarlo della trascrizione delle nozze omosessuali. Ma Bergoglio si negò ritenendola una provocazione. Il ruolo della comunità di Sant’Egidio, il cui fondatore, Riccardi, è stato già candidabile a sindaco
di Luca Kocci


ROMA Nella vicenda della lenta agonia, fino all’annuncio delle dimissioni, del sindaco di Roma Ignazio Marino, alle gerarchie ecclesiastiche (Cei e Vicariato di Roma, più che Vaticano) e a parte dell’associazionismo cattolico (comunità di Sant’Egidio in testa) spetta un ruolo di primo piano. Non perché sia stato papa Francesco con le sue dichiarazioni «ad alta quota» di ritorno dall’America — «io non ho invitato il sindaco Marino a Philadelphia, chiaro?» — a determinare la caduta del primo cittadino, sebbene gli abbia assestato un duro colpo. Ma perché i vescovi hanno contribuito al suo logoramento cinque minuti dopo l’elezione. Anzi anche prima.
«Ci si interroga sulle possibili svolte della nuova trazione che potrebbe consegnare all’anima più laicista di largo del Nazareno lo scranno del Campidoglio», scriveva Avvenire all’indomani delle primarie vinte da Marino. E il giorno dopo lanciava l’allarme: «Campidoglio, rischio-deriva sui valori» a causa di «un certo tipo di impostazione sul versante etico, con potenziali ricadute sulle scelte di politica familiare».
Alla vigilia delle elezioni, poi, sempre Avvenire dava ampio spazio a un documento di una serie di associazioni (fra cui Forum associazioni familiari, Movimento per la vita, Compagnia delle opere, Alleanza cattolica) in cui la patente di «candidato cattolico» veniva assegnata a Gianni Alemanno, e Marino sonoramente bocciato.
All’indomani della vittoria del chirurgo, lo ammoniva ad evitare di «progettare e praticare forzature in sedi improprie» e ad «aprire campi di battaglia sulle questioni che investono valori primari». «Ci auguriamo che nessun sindaco si imbarchi in improvvide avventure antropologiche», ribadiva il Sir, l’agenzia dei vescovi, «non ci si fa eleggere per inventare nuovi diritti o metter su improvvisati laboratori sociali».
«Cattolico adulto» assai vicino al cardinal Martini — con cui pubblicò prima un lungo dialogo sull’Espresso e poi un libro (Credere e conoscere, Einaudi) di grande apertura su temi etici -, Ignazio Marino è agli antipodi della dottrina cattolica sui «principi non negoziabili», quindi assai temuto dalle gerarchie ecclesiastiche.
    Il chirurgo cercò il papa per informarlo della trascrizione delle nozze omosessuali. Ma Bergoglio si negò ritenendola una provocazione
La questione esplode ad ottobre 2014, quando il sindaco trascrive nei registri comunali i matrimoni celebrati all’estero da 16 coppie omosessuali. «Scelta ideologica, che certifica un affronto istituzionale senza precedenti», tuona il Vicariato di Roma. E in queste ore si apprende che proprio il giorno prima delle trascrizioni, Marino telefonò in Vaticano per informare direttamente il papa, che però non parlò con il sindaco e anzi considerò quella telefonata quasi una provocazione.
Negli ultimi giorni il laccio si stringe, fino al soffocamento. Decisivo è “l’incidente” dell’invito-non invito a Philadelphia, sul quale monsignor Paglia — storica guida spirituale della Comunità di Sant’Egidio -, alla trasmissione radiofonica La zanzara, credendo di parlare con Matteo Renzi, dice parole durissime: «Marino si è imbucato, nessuno lo ha invitato, il papa era furibondo». Poco dopo, la Comunità di Sant’Egidio è fra i primi a sbugiardare il sindaco, smentendo che ad una cena registrata dai famosi scontrini siano stati presenti rappresentanti della Comunità, come invece asserito da Marino. Una posizione, quella di Sant’Egidio, che potrebbe nascondere qualche interesse: in passato il nome del fondatore Andrea Riccardi era emerso come possibile candidato a Roma, se ora rispuntasse fuori con più forza, sarebbero più chiare le ragioni per azzoppare Marino.
Annunciate le dimissioni, Oltretevere non si stracciano le vesti, anzi.
«Epilogo inevitabile», scrive L’Osservatore Romano, «la Capitale ha la certezza solo delle proprie macerie», «Roma davvero non merita tutto questo». «Adesso basta», aggiunge Avvenire, che saluta la chiusura di «una parentesi che non sembra destinata a lasciare un segno indelebile nella storia quasi trimillenaria di questa città», ora «Roma merita onestà e decisa cura». «Il tema di una nuova classe dirigente non è più rinviabile», diceva ieri sera in una parrocchia il cardinal Vallini, vicario del papa per Roma. E il Sir traccia l’identikit del nuovo primo cittadino di una città con una «missione storica, quella di porta di ingresso alla sede della cristianità».
Un sindaco cattolico quindi. Ma non come Marino.

il manifesto 11.10.15
Roma, la tentazione del rinvio 

Campidoglio. Il Pd vorrebbe votare nel 2017. Il primo cittadino uscente vuole rilanciare e rimanda a lunedì le dimissioni formali gettando nel panico i democratici
Orfini lo attacca duramente, il governo studia il modo di sfruttare l'emergenza Giubileo
di Andrea Colombo

ROMA  Edizione del 11.10.2015  Pubblicato 10.10.2015, 23:59  Lunedì Ignazio Marino presenterà la sue dimissioni «irrevocabili». Tutti gli scenari che lo volevano deciso a resistere sino all’ultimo sono solo «veleno privo di fondamento». Parola del diretto interessato, che arriva però al termine di una giornata in cui tutto sembrava indicare esiti opposti. Venticinque consiglieri su 48, inclusi una decina di esponenti del Pd, erano contrari alle dimissioni. Sel e la Lista Marino lasciavano aperta la porta a una verifica. «È ovvio — diceva a metà pomeriggio il segretario di Sel romana Paolo Cento — che Marino deve formalizzare le dimissioni. Poi vedremo cosa dirà. Il 27 luglio scorso, quando ha rotto con Sel mettendosi nelle mani del Pd più renziano, ha decretato la sua stessa rovina. Se verrà a dire che vuole tornare quello dell’inizio del suo mandato, ne discuteremo. Nelle mani dei poteri forti ci si è messo proprio con quella rottura del luglio scorso, vedremo».  Lo stesso Marino tutto sembrava tranne che un ex sindaco. Ha passato tutta la giornata al Campidoglio, come se nulla fosse. Nel pomeriggio ha riunito i presidenti di Municipio, che sarebbero in maggioranza pronti a resistere con lui. Ha disertato all’ultimo momento il programma di Fabio Fazio Che tempo fa, ma anche questa sembrava una mossa tutt’altro che rinunciataria. Marino ha spiegato agli intimi la scelta di evitare l’intervista in diretta con la certezza che qualsiasi sua parola sarebbe stata strumentalizzata e usata contro di lui. Una preoccupazione che sembrava indicare la scelta di provare a resistere senza dar corso alle dimissioni promesse.  Tanto alta era la preoccupazione in casa Pd che è uscito allo scoperto, con un durissimo attacco, proprio l’ex protettore del primo cittadino in uscita, il presidente del partito Matteo Orfini: «Una infinita seria di errori hanno definitivamente compromesso autorevolezza e credibilità del sindaco». Una sentenza senza appello, accompagnata da pressioni discrete ma fortissime sui consiglieri Pd riottosi perché abbandonassero al suo destino il defenestrato. Forse Ignazio Marino si è davvero arreso di fronte alla determinazione di Renzi. Forse intende invece dare battaglia ma solo dopo aver messo sul tavolo le sue dimissioni. Si vedrà lunedì.  Per capire se a Roma si voterà davvero in maggio, invece, ci vorrà un po’ di più. Il Pd e il governo sono tentatissimi dal rinviare tutto a dopo il Giubileo. L’eco del caso Marino sarebbe così stemperata, e il rischio di dover consegnare Roma all’M5S calerebbe bruscamente. Renzi, inoltre, eviterebbe di aggiungere litri di benzina su una tornata elettorale per lui tutt’altro che facile. Inoltre al momento un candidato da schierare il premier non lo ha. Tre dei «tecnici» considerati papabili, Malagò, Cantone e Sabella, hanno negato ieri la loro disponibilità. Il prefetto Gabrielli punta alla poltrona di capo della polizia. Resta Andrea Riccardi, che in realtà dovrebbe essere il candidato su cui più punta Renzi, ma non è detto che accetti e ancor meno è detto che ce la possa fare. Tra un anno e mezzo tutto sarebbe molto più facile. Ad aprire le danze è il capogruppo del Pd al senato Zanda, intervistato dal principale quotidiano romano, Il Messaggero: «Sarebbe molto importante far svolgere le elezioni a Roma dopo la fine del Giubileo». Raccoglie la palla il viceministro degli interni Bubbico, che non conferma e non smentisce, il che in casi come questo equivale ad ammettere che l’ipotesi è sul tavolo: «Tecnicamente è possibile e io credo che sia doveroso approfondire tutte le questioni». Roba che nemmeno un vecchio democristiano dei bei tempi… Il problema è che c’è ben poco da approfondire. La scelta è tutta e solo politica. L’idea di commissariare la Capitale per un anno, coltivata un po’ oziosamente prima che la pentola romana esplodesse, pare impraticabile. Resterebbe solo la mossa estrema del decreto. «Tecnicamente», come asserisce dotto il viceministro, è possibile. Politicamente e in termini di opinione pubblica un bel po’ di meno. Vorrebbe dire imporlo a tutte le opposizioni, con uno scontro durissimo in aula, e probabilmente dovendo ricorrere al voto di fiducia. Vorrebbe dire accreditare in un colpo solo tutte le accuse dell’M5S e forse a quel punto tanto varrebbe assegnare a Grillo la vittoria, sia pure un anno più tardi, per forfait. Ma un tipo come Matteo Renzi, il cui disprezzo per le regole è secondo solo a quello che manifesta nei confronti del parlamento, potrebbe davvero optare per un azzardo simile.

il manifesto 11.10.15
È finita la parabola del centrosinistra
Ignazio Marino. L’ex sindaco di Roma è un liberista convinto, che in due anni ha applicato senza discutere le misure di austerità volute da Renzi
di Sandro Medici


Con le dimissioni di Ignazio Marino da sindaco di Roma è definitivamente tramontata la parabola del centrosinistra. Di quelle politiche amministrative che per circa un ventennio hanno connotato, con maggiori o minori successi, le politiche amministrative locali.
Ebbene, con il chirurgo genovese si è invano tentato di farle sopravvivere, malgrado fosse evidente fin da subito l’impossibilità di continuare ad attuarle. E’ stato necessario consumare un tormentato biennio per accorgersi di quanto ingannevole fosse stato quel tentativo e di quanti disperanti equivoci contenesse. E oggi quest’esperienza s’infrange proprio su quel malinteso iniziale.
E’ davvero difficile trovare un sindaco più obbediente e zelante di lui nell’applicare le politiche economiche dettate dal governo e conformarsi acriticamente alle misure di austerità e ai piani di rientro imposti dall’amministrazione statale.
In quest’ultimo scorcio, la città ha visto progressivamente ridursi la spesa sociale e indebolirsi allo stremo la rete di sostegno per le fasce più esposte e bisognevoli. Così come diminuire sensibilmente gli stanziamenti per la manutenzione urbana e per il trasporto pubblico, lasciando ulteriormente deperire le aree periferiche e stremando la già precaria e insufficiente rete di autobus e metropolitane.
Ma tagli e saccheggi si sono abbattuti anche sulle attività culturali e la cura del patrimonio artistico, archeologico e architettonico. E nel contempo, tra sgomberi e colpevoli abbandoni, si è preferito spegnere e deprimere la grande vitalità creativa e progettuale indipendente, dall’Angelo Mai al Teatro Valle, dal cinema America al Rialto occupato, a Scup.
Stesso impianto ferocemente liberista è stato praticato nelle politiche di svendita e privatizzazione di beni comuni, aziende pubbliche e patrimonio comunale. Stessa logica padronale è stata imposta contro i propri dipendenti, riducendo salari e indennità. Stesso meschino disinteresse si è manifestato sul destino dei lavoratori di aziende e cooperative che svolgono attività per conto del Comune. E tutto ciò, nella totale assenza di una qualsiasi strategia di crescita economica della città, se non quella derivante dalle grandi opere e dai grandi eventi, le generose volumetrie dello stadio della Roma, la grottesca grandeur della candidatura alle Olimpiadi e l’imminente, inaspettato Giubileo.
Ecco perché, fin dall’inizio, la stagione politica del sindaco Marino era pesantemente ipotecata da quegli obblighi politici, a cui volentieri si è conseguentemente allineato. E le stesse lodevoli iniziative che tuttavia sono state realizzate in questi due anni, dalla chiusura della discarica di Malagrotta, all’avvio della pedonalizzazione dei Fori, all’istituzione del Registro per le unioni civili, pur se meritevoli di giudizi positivi, non modificano l’impronta decisamente liberista, l’angustia culturale della sua esperienza amministrativa.
Avrebbe dovuto andarsene prima, il sindaco Marino. Prima di questa oscena sceneggiata sugli scontrini mendaci, prima di questi imbarazzanti viaggetti americani, prima insomma di tutto questo malsano chiacchiericcio che ha finito per travolgerlo. Difenderlo oggi perché chi l’ha costretto ad andarsene è peggiore di lui, appare francamente un ingenuo esercizio consolatorio, oltreché reticente e malinteso. In questa vicenda del centrosinistra romano, Marino si è sicuramente dimostrato come il male minore, ma in un contesto politico che resta inaccettabile e da cui è necessario allontanarsi definitivamente.
Non esiste un Pd buono e uno cattivo. Solo se riusciremo definitivamente a rendercene conto, potremo avviare a sinistra una nuova stagione alternativa.

il manifesto 11.10.15
Le mani sporche del sultano
Turchia. «È una strage di Stato, l’Akp ha le mani sporche di sangue», accusano la sinistra kurda e i pacifisti turchi. Sì. E in tutta evidenza a «saltare» con la ferocia della strage di Ankara è la doppiezza del premier Erdogan, il Sultano atlantico, verso la guerra regionale in corso
di Tommaso Di Francesco


«È una strage di Stato, l’Akp ha le mani sporche di sangue», accusano la sinistra kurda e i pacifisti turchi.
Sì. E in tutta evidenza a «saltare» con la ferocia della strage di Ankara, a gettare la maschera, è la doppiezza del premier Erdogan, il Sultano atlantico, verso la guerra regionale in corso. Con questa strage la guerra ai civili e ai pacifisti entra, non più solo con la disperazione dei profughi siriani, all’interno del grande Paese mediorientale, non arabo e baluardo del fronte sud della Nato. Non sappiamo chi rivendicherà il massacro che ha visto la manovalanza di due kamikaze e diffidiamo della versione ufficiale.
Quel che appare evidente è la mano di un terrorismo ben orchestrato e dall’alto, che del resto ha già colpito, nello stesso modo e sempre la sinistra kurda e i pacifisti, nel luglio scorso a Suruç. Ora probabilmente Erdogan coglierà l’occasione per ergersi a difensore della inesistente legalità turca, magari con la dichiarazione di uno stato d’emergenza che ha da tempo nel cassetto.
Comunque tenterà di irretire il processo democratico che vede la scadenza elettorale straordinaria quanto decisiva del 1 novembre prossimo, tra soli 20 giorni. È il disastro annunciato del suo potere e di quello del partito islamista moderato Akp che alle ultime elezioni non ha avuto la maggioranza parlamentare per governare proprio grazie al 13% di consensi ottenuto per la prima volta dalla formazione dei kurdi e della sinistra turca, il Partito democratico del popolo (Hdp) della quale è leader Selahettin Demirtas, da quel momento in poi sotto accusa e sotto tiro. E non è bastato nemmeno che Demirtas entrasse nel governo elettorale ad interim.
Erdogan, per risposta e con la scusa di colpire l’Isis, ha isolato e fiaccato la resistenza militare dei combattenti della sinistra kurda del Rojava in Siria e ha scatenato l’offensiva contro il Pkk in Turchia (le due formazioni che, quasi uniche, hanno combattuto armi alla mano il Califfato), forte anche dell’appoggio Usa e dell’avallo del vertice Nato di Bruxelles di questa estate. La strage di Ankara illumina nel suo bagliore criminale l’ambiguità del ruolo turco nelle guerre mediorientali.
A partire dal doppiogioco strategico in Siria, ora disvelato e isolato dall’entrata in campo della Russia, che ha sparigliato le carte scoprendo il volto nascosto del Sultano atlantico.
Cinque anni fa, sconfitto nel tentativo di entrare in Europa, Erdogan ha ripiegato nell’area per costruire una nuova «pax ottomana», dalla Bosnia a Gaza, dall’Azerbaijan alla nuova Libia post-Gheddafi, tutto in funzione anti-Iran.
Poi, per accreditarsi con l’Occidente, è entrato nella coalizione degli «Amici della Siria» e ha giocato la carta della «guerra ottomana» in sostegno alle milizie in guerra contro Assad. Addestrando e sostenendo tutte le formazioni ribelli siriane — compresa Al Nusra, vale a dire Al Qaeda — nelle sue basi, a partire da quella Nato di Adana, come sanno tutti i governi occidentali e come hanno denunciato proprio i pacifisti turchi.
Ha sempre avuto una spina nel fianco però: il popolo kurdo. Perché le guerre americane ed europee, devastando tre paesi centrali dell’area nordafricana e mediorientale (in Iraq, Libia e Siria) hanno attivato sia il protagonismo jihadista, prima alleato dell’Occidente contro i regimi in carica e ora diventato nemico; ma hanno anche chiamato in causa il popolo kurdo, che resta diviso proprio tra Siria, Turchia e Iraq.
Fermare con la repressione, le armi e le provocazioni il contagio indipendentista e laico della sinistra kurda (il Pkk ma anche la coalizione politico-sociale del Rojava in Siria) è stato ed è l’obiettivo storico dell’islamista atlantico Erdogan.
«Cose turche» accadono, per la Nato che applaude ogni volta che un F16 turco decolla, e per l’Italia atlantica che si prepara a una nuova avventura militare in Libia, dove rischiamo di fare «un’altra Libia».

il manifesto 11.10.15
Sei morti palestinesi in 24 ore, adolescenti in prima linea
Palestina/Israele. Uccisi a Gerusalemme e Gaza in attacchi e manifestazioni pacifiche. Quattro israeliani accoltellati. La politica non sa reagire.
di Chiara Cruciati


BETLEMME La rivolta che attraversa i Territori Occupati e Israele è diversa dalle precedenti sollevazioni popolari. Lo si vede tra la gente, per le strade della Cisgiordania. Negozi aperti, suq affollati, atmosfera “normale”. Se non fosse per le parole che si sovrappongono: tutti parlano degli attacchi, degli scontri. Tanti i ragazzini con la kefiah al collo. Ma la partecipazione di massa alle proteste che esplodono improvvise a ogni ora del giorno e della notte non c’è.
Gli shebab tirano pietre lungo il muro tra Betlemme e Gerusalemme. I più grandi li richiamano, chi ha vissuto la Seconda Intifada e la sofferenza che portò con sé: «Ho trovato mio cugino al muro, lanciava pietre – ci dice Hassan, 27 anni – L’ho riaccompagnato a casa. Quando scoppierà qualcosa di grosso, popolare, lo porterò io stesso a manifestare. Ma ora è un gioco al massacro».
Un’opinione che alcuni adolescenti non condividono, quelli che si fanno uccidere dalle pallottole israeliane per portare avanti un’azione che sa di disperazione. Ieri altri due casi di accoltellamento sono finiti con la morte dei responsabili. Il bilancio di ieri è sanguinoso: sei palestinesi uccisi, tre a Gaza. Jihad Salim al-Ubeid, 22 anni, morto ieri per le ferite riportate venerdì durante la manifestazione nella Striscia al confine con Israele. Lo stesso scenario si è ripetuto ieri: due ragazzini, Marwan Barbakh, di 13 anni, e Khalil Othman, 15, sono stati ammazzati alla frontiera dal fuoco a distanza di Israele.
La notte scorsa a perdere la vita è stato Ahmad Salah, 24 anni, del campo profughi di Shuafat. È stato ucciso durante scontri con la polizia israeliana. Secondo un leader di Fatah, Thaer al-Fasfous, «le forze di occupazione hanno sparato a distanza ravvicinata», impedito all’ambulanza di soccorrerlo «e lasciato a terra a dissanguarsi».
Gerusalemme ieri ha pagato lo scotto della violenza di questo ottobre: ieri alla Porta di Damasco Eshak Badtan, 16 anni di Kufr ‘Aqab, ha accoltellato un israeliano di 65 anni, ferendolo lievemente. La polizia lo ha circondato e, quando ormai non rappresentava più un pericolo, come mostrano le foto scattate da testimoni, lo ha ucciso. Sono scoppiati scontri alla Porta di Damasco, fino ad un nuovo accoltellamento: un secondo palestinese, Mohammed Saeeb, di Shuafat, ha ferito tre poliziotti prima di essere ucciso.
Un’ondata di aggressioni individuali che Israele non sa gestire. Come non sa gestire il razzismo violento dei suoi cittadini. Si moltiplicano le ronde punitive: agli slogan “Morte agli arabi” segue l’azione. Ieri la polizia ha arrestato 5 israeliani che avevano organizzato nei social network attacchi contro palestinesi nella città costiera di Netanya. Una trentina di persone hanno risposto all’appello e si sono presentate in Piazza Indipendenza con coltelli e catene. Tre palestinesi sono stati aggrediti: due sono riusciti a fuggire, un terzo è stato linciato dalla folla. Fino all’arrivo della polizia.
In Cisgiordania a subire la vendetta dei coloni sono state le comunità palestinesi della zona di Hebron: attaccate abitazioni a Wadi Hussein, dietro la protezione dell’esercito che, invece di intervenire per fermare i coloni, ha lanciato gas lacrimogeni e acqua chimica sulle case.
Per molti osservatori l’intervento israeliano si traduce in punizioni collettive contro la popolazione civile, aperta violazione del diritto internazionale. La demolizione delle case dei responsabili di attacchi o i raid nei quartieri e nei villaggi hanno provocato la protesta di organizzazioni per i diritti umani, a partire da Amnesty International che accusa Israele di «eccessivo uso della forza e di omicidi ingiustificati». Le 20 vittime palestinesi erano tutte evitabili: chi è stato ucciso mentre manifestava pacificamente e chi, dopo aver aggredito con un coltello, poteva essere fermato con altri pezzi. Dopotutto gli israeliani fermati per atti simili non sono stati uccisi, ma solo arrestati.
Hamas per ora resta a guardare: con una mano fa appello alla sollevazione, con l’altra frena spaventato dalla possibile reazione di Israele contro Gaza, ancora non ricostruita e dove il consenso verso il movimento islamista si abbassa. Consenso ai minimi anche per l’Anp che a Ramallah si trincera dietro deboli dichiarazioni mentre i palestinesi esplodono. Il presidente Abbas non sa che fare e, se al telefono con il segretario di Stato Usa Kerry dice che la colpa è «delle provocazioni dei coloni e del governo di occupazione israeliana», nella realtà è schiacciato tra le necessità di frenare l’insurrezione e il timore di un crollo di Fatah tra la gente.

il manifesto 11.10.15
Nuova Intifada porta in strada i palestinesi d’Israele, cittadini di serie B
Galilea. A Nazareth, nei villaggi e nelle cittadine arabe in Galilea e del Neghev migliaia di palestinesi manifestano sull'onda della rivolta nei Territori occupati e contro con uno Stato che anche più di prima li considera cittadini di seconda classe e una "quinta colonna". E' una sfida anche per Lista Unita Araba
di Michele Giorgio

GERUSALEMME Gli israeliani di Serie B sono scesi in strada. I palestinesi con cittadinanza israeliana, chiamati arabo israeliani, alzano la voce sull’onda dell’Intifada di Gerusalemme. Da Nazareth a Rahat nel Neghev, da Giaffa sulla costa a Umm el Fahem a ridosso della “linea verde” con la Cisgiordania, migliaia di palestinesi israeliani, in buona parte ragazzi, hanno sfilato e protestato, spesso scontrandosi con la polizia. Scene che non si vedevano dalla seconda Intifada. Non è solo solidarietà con le ragioni della nuova (possibile) Intifada. È anche, se non soprattutto, una protesta contro lo Stato di Israele di cui si sentono parte solo sulla carta, che continua a inquadrarli come una estensione del “nemico palestinese” nei Territori occupati.
Una porzione consistente di israeliani ebrei non nasconde di guardare ai cittadini arabi come a una “quinta colonna”, “traditori” pronti a fare il gioco del “nemico”. «E la polizia non manca di farcelo capire in questi giorni», ci dice Mohammed Kabha un giovane attivista della zona di Ara-Araba, nella bassa Galilea. «Compie arresti preventivi ovunque, qui due sere fa sono stati presi sei giovani, tutti con meno di 18 anni», continua Kabha, «più di tutto ha un atteggiamento intimidatorio, lancia pesanti avvertimenti agli abitanti. Le autorità ci vedono come un pericolo perchè siamo palestinesi come quelli dei Territori occupati. Il nostro passaporto è solo un libretto inutile, non saremo mai considerati cittadini veri di questo Paese».
In questi giorni per vendicare gli accoltellamenti compiuti da palestinesi, gruppi di estremisti sono impegnati in una vera e propria una caccia all’arabo, di cui la stampa israeliana riferisce, anche se in modo insufficiente, mentre è ignorata dai media internazionali. La polizia ha arrestato ieri cinque dei 30 abitanti di Netaniya, a nord di Tel Aviv, che volevano linciare tre cittadini palestinesi. Due dei presi di mira sono riusciti a scappare, il terzo, Abed Jamal, è stato picchiato dalla folla inferocita che gridava «Morte agli arabi» e «A Netaniya gli arabi si falciano». Si è salvato solo grazie all’arrivo della polizia che, comunque, lo ha ammanettato, nonostate fosse la vittima dell’aggressione, per interrogarlo.
«Anche se solo alcuni palestinesi (d’Israele) hanno commesso violenze, alla maggioranza degli israeliani ebrei bastano uno o due episodi per mettere sotto accusa tutti i cittadini arabi» spiega Wadie Abu Nassar, un analista di Haifa, «gli israeliani ebrei non capiscono che per i palestinesi qualsiasi tentativo di danneggiare i loro luoghi sacri, in particolare la moschea di al Aqsa, rappresenta il superamento di una ‘linea rossa’». I palestinesi israeliani, aggiunge Abu Nassar, «simpatizzano con i palestinesi dei Territori occupati non solo perchè sono fratelli ma anche perchè vedono Israele come una potenza occupante».
Dieci giorni fa in diversi villaggi palestinesi e a Nazareth hanno commemorato le 13 vittime del fuoco della polizia durante gli scontri divampati in Galilea tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre del 2000, all’inizio della seconda Intifada. Una tragica ripetizione dei colpi che il 30 marzo del 1976 uccisero sei palestinesi durante le manifestazioni contro la confisca delle terre arabe. Morti, quelli del 2000, che sono una ferita mai rimarginata e anche uno spartiacque politico interno, tra coloro che ritengono possibile un riconoscimento pieno della minoranza araba nello Stato di Israele e altri (sempre più numerosi) che chiedono la creazione di uno Stato unico democratico, non sionista. Uno Stato che non approvi più leggi, come quelle promosse dalla destra al governo in questi ultimi anni, destinate a colpire direttamente l’identità e i diritti dei cittadini palestinesi. Sullo sfondo di questo dibattito ci sono i due movimenti islamici (del Nord e del Sud), divisi sul rifiuto/integrazione nel sistema politico israeliano. Ayman Sikseck ieri spiegava su Ynet l’importanza degli eventi del 2000 per la formazione dell’identità degli arabi di Israele «Dopo la delusione generata dal fallimento degli accordi di Oslo – ha scritto — la loro solidarietà con i palestinesi nei Territori occupati è cresciuta… la loro rabbia (di questi giorni) deriva dalla percezione di un destino comune delle due popolazioni discriminate e dalla sensazione di ingiustizia».
Di fronte a ciò le formazioni politiche arabe in Israele sono in affanno. La scelta unitaria (Lista Unita Araba, LAU) fatta all’inizio dell’anno per affrontare insieme le sfide lanciate a tutti gli arabi dalla legislazione aggressiva del governo e dei partiti di destra, pur avendo ottenuto un discreto successo elettorale non ha poi portato a nulla di concreto nella vita quotidiana, nella condizione di villaggi e città con minori risorse pubbliche rispetto ai centri abitati ebraici, non ha contribuito ad eliminare le discriminazioni e neppure a fermare il Prawer Plan per il “ricollocamento” (transfer forzato) di decine di migliaia di beduini del Neghev. «Molti dei palestinesi che ora sfilano nelle strade della Galilea non appartengono ad alcun partito, laico o islamista» afferma Mohammed Kabha «anzi, guardano a tutte le forze politiche, di qualsiasi orientamento, come figlie di un fallimento, della mancata comprensione della realtà israeliana. Il partito Jabha (comunista, parte della LAU) organizza iniziative con slogan come ‘Ebrei ed Arabi rifiutano di essere nemici’. Ma più passano gli anni e più la società israeliana e il sistema politico ci considerano corpi estranei, nemici da isolare». Secondo Wadie Abu Nassar la Lista Unita Araba rischia di frantumarsi, di essere sommersa dall’onda dell’Intifada di Gerusalemme. «Mai come in questi giorni sono emerse nella Lista le differenze tra il binazionalismo di Jabha e il nazionalismo del partito Balad (Tajammo). Uno scontro – prevede l’analista – che potrebbe mettere fine all’esperienza unitaria».

il manifesto 11.10.15
Palestina, roviniamo lo spettacolo a Renzi (e Obama)
di Tommaso Di Francesco


Da quando, era l’inverno del 1969, stampavamo volantini con il rappresentante di Fatah in Italia Wael Zwaiter, ucciso il 12 ottobre del 1992 a Roma dal Mossad, la condizione palestinese invece di migliorare è tragicamente peggiorata. Nonostante due Risoluzioni dell’Onu condannino da quasi 50 anni Israele per l’occupazione militare dei territori palestinesi. È peggiorata perché nel frattempo l’occupazione militare israeliana è avanzata, nel disprezzo do ogni accordo di pace. Quel popolo non ha più speranza e strumenti per opporsi all’avanzata degli insediamenti colonici che hanno ridotto la terra della Palestina ad un alveare senza continuità territoriale e quindi con una difficoltà a legittimare, anche sulla carta, il diritto ad esistere.
Privato di ogni diritto, relegato nei ghetti dei campi profughi in casa propria, guardato a vista dalle torre militari dell’occupante, separato dal Muro di Sharon — il primo edificato dopo il mitico crollo del muro di Berlino. E con una leadership ormai inascoltata perché incapace di corrispondere alle aspettative popolari. Quel popolo, che ha visto l’umiliazione dei propri capi storici come Arafat relegato dai tank israeliani nella Muqata e poi eliminato e come Marwan Barghouti che langue da anni nelle carceri israeliane, alla fine si è diviso e radicalizzato. Non nella forma a noi più consona, politicamente e socialmente ma, in assenza di una reale società civile, nelle modalità ideologiche del richiamano all’’Islam. Tema che, con i nuovi provvedimenti di Netanyahu e le ultime colonie israeliane — che ridisegnano anche la mappa dei luoghi religiosi di Gerusalemme est fino a impedire il diritto a pregare -, torna pericolosamente come l’unica bandiera. Ora una nuova generazione di giovani palestinesi è in rivolta. Ci si interroga se sia una nuova Intifada e i media, a dir poco disattenti alla tragedia dei Territori palestinesi occupati, preparano schede ammonendo da lontano sui risultati della prima e della seconda Intifada.
Certo non abbiamo mai visto una rivolta più disperata, mentre l’appello alla protesta generale viene dai leader di Hamas dalla Striscia di Gaza che ha subìto in questi anni tre guerre impari nelle quali dall’alto dei cieli la sua gente è stata massacrata sotto gli occhi distratti del mondo. È disperata questa rivolta perché il popolo palestinese si presenta a questo appuntamento ancora una volta spaccato e ridotto alla protesta individualizzata dei coltelli e quindi quasi suicida e perdente in anticipo. Sgomentano gli accoltellamenti dei coloni e le immagini dei giovani con il coltello in mano, ma nessuno s’indigna di fronte alle immagine dei carri armati, delle mitragliatrici o dei fucili dei soldati israeliani che sparano sui manifestanti. Quelle armi sono «normali», ma sono di uno degli eserciti più potenti al mondo che occupa militarmente un altro popolo. Che ora, con una nuova generazione che scende in piazza, può far saltare gli equilibri fin qui disastrosi e criminali del Medio Oriente. Nessuno giri lo sguardo dall’altra parte. La questione palestinese irrisolta è all’origine dell’intera tragedia mediorientale: i profughi delle Palestina occupata, diventati milioni, hanno destabilizzato regni, pseudo– democrazie e regimi, dalla Giordania al Libano, alla Siria. Intanto Israele si è trasformato in poco meno di un regime integralista religioso d’estrema destra. Inoltre, prima che sia troppo tardi, com’è possibile dimenticare che l’argomento ideologico fondamentale quanto capace di alimentare odio, quello della «occupazione dei luoghi sacri dell’Islam», è il tema costitutivo di Al Qaeda e dello Stato islamico?
Due le vergogne da denunciare. Quella di Obama e quella dell’Italia renziana.
La Casa bianca ieri ha denunciato le nuove proteste palestinesi come «terroriste». È lo stesso presidente che al Cairo nel 2009 dichiarava di sentire «il dolore dei palestinesi privati del diritto alla loro terra». Sono passati sei anni ed è legittimo chiedere: al di là dell’accordo geostrategico con l’Iran, che cosa ha fatto realmente perché la condizione palestinese cambiasse, quali occasioni ha dato, se non sostenere la strategia di Benjamin Netanyahu che rilancia la colonizzazione della Palestina? Ma che farebbe il popolo americano se fosse occupato militarmente e disseminato di colonie?
L’altra vergogna è quella di Matteo Renzi, il governo più filoisraeliano della storia repubblica italiana. All’ultima seduta dell’assemblea generale dell’Onu si è dimenticato dell’esistenza della Palestina ridicolizzando il ruolo di Abu Mazen. Ora la bandiera della Palestina — che ha avuto perfino uno stand all’Expo — sventola all’Onu, ma si rischia la beffa perché quello Stato e quella terra non esistono. Renzi annuncia che farà un tour di propaganda nei teatri italiani per rappresentare la piece «quanto sono bravo». Roviniamogli lo spettacolo. Portiamo ad ogni suo appuntamento la bandiera palestinese: sventolarla nei Territori occupati per il governo israeliano è reato.

il manifesto 11.10.15
Alias Domenica   
La mente dimentica il corpo no
Aleksandr Lurija. L’impresa titanica che Aleksandr Lurija tentò per rimettere insieme i frammenti della coscienza di Lev A. Zaseckij, il soldato la cui ferita al cervello provocò una scissione tra le parole e i significati
di Valentina Pisanty


Lev A. Zaseckij aveva ventitré anni quando, il 2 marzo 1943, una pallottola gli si conficcò nella regione parieto-occipitale dell’emisfero destro. Si svegliò in un ospedale militare non lontano dal fronte russo occidentale con la memoria frantumata e il campo visivo dimezzato. La cartella clinica non autorizzava alcun ottimismo. Il proiettile aveva perforato la nuca sul lato sinistro, attraversato la massa del cervello, provocato infiammazioni nei tessuti circostanti e avviato un processo di cicatrizzazione e di atrofia cerebrale destinato ad avanzare negli anni a venire. Per effetto delle lesioni, Zaseckij aveva perduto interi settori di quella che oggi chiameremmo la memoria procedurale (quella che presiede alla lettura dell’orologio, alla vestizione o all’impiego degli utensili quotidiani), la capacità di rappresentare mentalmente le parti del proprio corpo, l’orientamento spaziale, il significato di molte parole, e tutte le conoscenze che aveva accumulato nella vita precedente, dal nome delle sorelle agli studi di ingegneria meccanica.
Nelle settimane successive fu trasportato da un luogo di ricovero all’altro finché, alla fine di maggio, approdò all’ospedale di riabilitazione neurochirurgica per i feriti di guerra negli Urali meridionali. Fu preso in cura da Aleksandr R. Lurija, direttore dell’istituto, già collaboratore del grande psicologo culturale Lev S. Vygotskij, le cui riflessioni sul «principio dell’organizzazione extracorticale delle funzioni mentali complesse» (le attività cognitive che si realizzano con l’ausilio di oggetti esterni, dal nodo al fazzoletto alla scrittura) avrebbero ispirato la linea terapeutica che durante la guerra Lurija decise di tentare con alcuni suoi pazienti cerebrolesi. Una sorta di ergonomia cognitiva che nel caso di Zaseckij si realizzò nella stesura pluridecennale di un’autobiografia faticosamente redatta giorno per giorno, parola per parola, pensiero per pensiero, per cercare di rimettere insieme, almeno sulla carta, i frammenti della sua coscienza polverizzata.
Pubblicato per la prima volta nel 1972 e oggi riedito con prefazione di Oliver Sacks (1987) e postfazione di Luciano Mecacci, Un mondo perduto e ritrovato (traduzione di Mario Alessandro Curletto, Adelphi, pp. 233, euro 18,00) racconta la storia di questa impresa titanica. Lo fa attraverso il montaggio di pagine tratte dal diario di Zaseckij, alternate a commenti e digressioni dell’autore-curatore, la cui principale preoccupazione è presentare il paziente nella sua unicità di persona in lotta contro i devastanti deficit che lo affliggono, anziché come caso clinico da incasellare nel bizzarro archivio delle neuropatologie.
Pur menomato nelle sue possibilità di pensiero e di azione, Zaseckij conservò intatta la forza d’animo, ed è sulla sua feroce volontà di non soccombere alla malattia che fece leva il terapeuta quando gli propose di reimparare a leggere e scrivere. Lo sforzo fu immane: non solo Zaseckij non riconosceva più le lettere e stentava a memorizzarle di nuovo, ma era anche incapace di vederne più di tre alla volta; il che, sommato ai problemi di memoria, fece sì che dopo mesi di accanito esercizio riuscisse a malapena a trattenere la traccia delle lettere appena decifrate per collegarle a quelle successive, prima che l’intera parola evaporasse nel nulla: «era come se gli occhi se ne andassero ognuno per conto proprio, portandosi via la lettera che stavo per guardare».
Con la scrittura non andava molto meglio. Come un bambino di quattro anni Zaseckij dovette imparare a tenere in mano la matita e recitare l’intero alfabeto dalla A alla Z per farsi venire in mente, uno a uno, i caratteri che gli servivano a comporre le espressioni più elementari, rileggendo la sequenza fin lì prodotta ogni volta che doveva aggiungere un simbolo ulteriore. E siccome la ferita aveva distrutto i circuiti cerebrali tramite i quali le impressioni dei diversi sensi confluiscono in rappresentazioni unitarie, le parole e i concetti – scrive Lurija – «sciamano come api» nella sua mente, senza coagularsi in immagini coerenti o in sintagmi complessi.
«Proprio nel mio linguaggio e nella mia memoria è avvenuta la scissione tra la “parola” e il suo «significato». Il ricordo di una parola e del suo significato sono come separati l’uno dall’altro da un intervallo non definito di tempo. E sono sempre quasi del tutto isolati l’uno dall’altro, cosicché nel ricordare devo in qualche modo unirli. Ma queste unioni non durano a lungo nella memoria, si dissolvono rapidamente e svaniscono…». Così Zaseckij descrive la sua afasia, ed è sorprendente la precisione con cui si esprime, quasi a smentire i contenuti del resoconto. Mentre riferisce della scissione che nella sua testa ha disgiunto i significanti dai significati, mentre racconta di sé come di un individuo a pezzi cui sono stati «strappati dei legamenti della memoria», mentre enumera le sue numerose défaillances quotidiane, vergognandosi di apparire come uno stupido, si rivela l’esatto contrario del personaggio che descrive: una persona lucida e consapevole, dotata di una notevole proprietà di linguaggio, in grado di produrre discorsi complessi e di ragionare sull’eziologia del suo male.
La scissione non riguarda dunque solo la parola e il suo significato, ma anche il narratore e il personaggio, separati da un vistoso scarto cognitivo, come se tra il tempo della storia e il tempo della narrazione fosse sopraggiunta una miracolosa guarigione e lo Zaseckij scrittore avesse ritrovato il lucchetto della memoria.
Tuttavia Zaseckij non era affatto guarito, e fin dalle prime pagine di Un mondo perduto e ritrovato si capisce che il lieto fine ventilato nel titolo non si realizzerà, o perlomeno non secondo i canoni del racconto tradizionale. «È il libro su una lotta che non ha portato alla vittoria, e su una vittoria che non ha messo fine alla lotta» – scrive Lurija – con buona pace della morfologia di Propp.
C’è però un corrispettivo del mezzo magico fiabesco che segna un punto di svolta in questa lotta perpetua senza vittoria.
Constatati gli insuccessi della terapia logopedica, un bel giorno Lurija ebbe una intuizione folgorante: posto che le regioni uditive del cervello e tutte le attività motorie del paziente erano rimaste intatte, perché non sfruttarle per cercare di ripristinare la capacità di scrivere secondo un metodo alternativo? Gli propose dunque di scrivere la parola «sangue» non lettera per lettera, bensì tutta insieme, d’impulso, senza staccare la matita dal foglio, e senza riflettere sui movimenti della mano. Zaseckij scoprì che il suo corpo ricordava ciò che la mente aveva dimenticato: la parola si riversava meccanicamente sulla carta e, sebbene faticasse a rileggerla, da quel momento gli si dischiusero possibilità di azione sino ad allora impensabili. Con la pratica imparò a scrivere interi periodi di getto, non sempre linguisticamente ineccepibili (i problemi della memoria permanevano), eppure in grado di fissare un primo abbozzo di senso sul quale lavorare per giorni, mesi e anni, attraverso estenuanti correzioni, molteplici versioni, stesure via via perfezionate, che alla lunga ricucivano quell’indispensabile trama narrativa con cui gli umani si costituiscono come soggetti.
Lotto ancora! è il titolo dell’autobiografia a cui Zaseckij affidò la sua identità, tuttora frammentata nella vita reale, ma ricomposta nelle tremila pagine che compongono il diario. È come se il protagonista scaffalasse il suo sé in una memoria esterna a cui fare costante riferimento per recuperare, oltre alla continuità della propria esistenza, l’autostima necessaria per sentirsi persona tra le altre persone.