Corriere La Lettura 11.10.15
Maschi, bianchi e sempre gli stessi: l’immobile Top 200 degli economisti
di Federico Fubini
Domani, lunedì 12 ottobre, sarà annunciato il prossimo premio Nobel per l’Economia, in questo momento in giro per il mondo decine di studiosi seduti in soggiorno cercheranno di tenere a bada i nervi e ciò ci ricorda una terribile verità: viviamo in un’epoca misurabile. Siamo il secolo più ossessionato dalle classifiche e dai riconoscimenti che la storia ricordi. Ovviamente l’istinto di stabilire una gerarchia, tenere a mente chi viene prima e chi dopo, e in base a questo distribuire denaro, non è di oggi. È di sempre. Di oggi è la possibilità di farlo in modo così preciso: si fissano i parametri, li si aggiorna e li si misura anche ogni mezz’ora. Certi software sono perfetti per assecondare un’inclinazione di un milione di anni fa: siamo e valiamo in misura pari al numero di amici o seguaci su un social network, o di richiami al nostro nome su un motore di ricerca. Senza aver mai giocato un solo game, siamo tutti tennisti professionisti: la nostra classifica viene automaticamente aggiornata e messa sotto gli occhi del mondo ogni giorno.
Alla Federal Reserve di Saint Louis, Missouri, c’è un vicepresidente che ha capito quanto lontano si poteva arrivare grazie a questa presunta verità. Si chiama Christian Zimmermann, è cresciuto a Losanna. Una ventina di anni fa ha avuto un’idea: ha unito l’inclinazione dell’uomo a orientarsi attraverso le gerarchie a un algoritmo che pesa il numero delle citazioni di ogni articolo dei suoi colleghi economisti in base all’importanza della rivista su cui pubblicano. Ne è uscito il luogo della rete che migliaia di economisti visitano più spesso, ma di cui parlano meno: la loro classifica dal più «influente» in giù, per migliaia di posizioni. Non è solo questione di orgoglio. Più in alto si sale e più è facile che un’università vi proponga un contratto ben pagato o un’agenzia vi offra decine di migliaia di dollari per parlare in pubblico. Una classifica è cura o tortura dell’Ego, ma è anche business.
Naturalmente non ne fanno solo gli economisti. Ne hanno di simili i fisici e tante altre categorie di autori e ricercatori. Però ho deciso di prendere la classifica di Zimmermann, Ideas-RePEc, per un piccolo esperimento: volevo vedere quanto è cambiata nel tempo e com’è strutturata, perché non esiste un campo della ricerca che sia stato colpito da un simile meteorite negli ultimi dieci anni. Dal 2006 ad oggi la fisica ha più o meno confermato le sue leggi, le ricerche in medicina o in chimica si sono mosse in continuità. L’economia invece è stata raggiunta da un triplo choc: un’accelerazione violenta di internet; l’ascesa dell’Asia; e la crisi peggiore dagli anni Trenta in Occidente, il fallimento di migliaia di banche, 20 milioni di disoccupati in più.
È un mondo irriconoscibile, e in buona parte non previsto dagli economisti che dominavano la classifica dieci anni fa. Si può dunque immaginare che dieci anni più tardi le idee riflettano questi terremoti e producano una gerarchia profondamente mutata. Per capire se è così, ho tentato di comparare i nomi nella lista Ideas RePEc dei duecento economisti più influenti del dicembre del 2006 a quella dei duecento più influenti un mese fa.
Be’, mi sbagliavo. I più influenti di dieci anni fa restano tali oggi. Fra loro ci sono autentici geni, molti. Ma sei degli attuali primi dieci economisti al mondo erano già nella top ten nel 2006, altri due erano ai posti rispettivamente undici e tredici e gli ultimi due si trovavano al numero trenta e 32 del ranking. Alberto Alesina di Harvard, editorialista del «Corriere», è un raro caso di uno studioso fuori dal ranking ufficiale dieci anni fa e oggi presente nella trentaduesima posizione.
Non solo la classifica dei migliori giocatori di tennis nel frattempo è cambiata molto di più, lo è anche ciò che accade nella realtà dell’economia. Tra i dieci uomini più ricchi del mondo del 2006 secondo «Forbes», solo due — Bill Gates e Warren Buffett — restano nella lista oggi. Fra le imprese a più alto valore di mercato, solo tre — Exxon, General Electric e Microsoft — figurano nella top ten nel 2006 e nel 2015.
Si direbbe che le idee degli economisti siano più persistenti di ciò che essi studiano. Fra i primi trenta più influenti di oggi, solo uno non era in classifica dieci anni fa. Fra i primi cento, solo 14 non erano dove sono oggi e appena due sono entrati nella selezione scalando oltre duecento posizioni. Una stabilità notevole, per la gerarchia di una disciplina così competitiva e per una fase di tale instabilità da mettere in discussione anche la teoria. Dei primi duecento economisti più influenti il mese scorso, appena un quarto dei nomi è entrato in classifica o ha scalato almeno duecento posizioni in dieci anni.
Il primo al mondo è Andrei Shleifer, un russo-americano la cui posizione conferma che ogni gerarchia di influenza è a-morale (non immorale). Per lui l’Università di Harvard ha pagato una multa di 28 milioni di dollari, quando emerse che sua moglie speculava sul debito della Russia proprio mentre Shleifer stesso guidava il gruppo di consulenti di Harvard che, su mandato del governo americano, aiutava la transizione di Mosca dopo il comunismo.
Harvard non lo ha licenziato, ma non è questo che colpisce. Impressiona piuttosto in che misura i grandi economisti sembrino il gruppo più chiuso e omogeneo del mondo. Sono praticamente tutti maschi bianchi attorno ai sessant’anni. Nei primi duecento posti le donne sono appena il 2% (erano l’1% dieci anni fa). Il primo economista con la pelle di un colore diverso dal bianco è l’indiano Raghuram Rajan, al posto 43, e in tutto se ne trovano appena altri sette (nessun nero) fra i duecento più influenti. L’intero miracolo asiatico dell’ultimo decennio, tre quarti della crescita mondiale, è rappresentato quasi solo da un cinese (Shang-Jin Wei) e da un australiano nato in Giappone (Michael McAleer).
Su un punto tutti questi studiosi sarebbero d’accordo, se vedessero una simile persistenza in qualunque altra graduatoria: una mobilità sociale così bassa rivela malessere, scarsa creatività, bassa produttività, un mercato chiuso. Luigi Zingales della Booth School of Business dell’Università di Chicago, uno di quelli che si sono imposti nella Top 100 di prepotenza in questi anni, non è d’accordo: «Le idee hanno un ciclo di vita lungo — osserva —. Anche Karl Marx continua a essere citato». È d’accordo con lui Luigi Guiso, dell’Istituto Einaudi di Roma, secondo economista basato in Italia presente in graduatoria (il primo è Guido Tabellini della Bocconi): «La gerarchia delle idee somiglia a quella della ricchezza materiale, ha una forte capacità di resistere».
Ben Bernanke, l’ex presidente della Fed, dà però un’altra spiegazione nelle sue memorie The Courage to Act : a Princeton ogni professore cercava di far studiare agli allievi ciò che confermava le proprie idee, racconta, per prolungare il proprio successo. Se non eri d’accordo, o avevi una proposta originale, rischiavi di trovarti fuori.