domenica 11 ottobre 2015

Corriere La Lettura 11.10.15
Alla Russia serve un re
Parla il regista Nikita Mikhalkov «Il liberalismo non fa per noi»
intervista di Paolo Valentino


«Io non sento alcuno squilibrio tra il passato e l’oggi. È appena uscito un libro che raccoglie le mie interviste in 40 anni. Lo temevo, pensavo a chissà cosa potevo aver detto nel 1966. Poi ho capito con soddisfazione che non rinuncio a una sola parola di allora. Sottoscrivo tutto anche oggi. Sono sempre stato un uomo russo e mi sono sempre percepito come tale. Non un sovietico o uno della Russia, ma proprio russo. È vero, il mondo è cambiato, ma il mio perno è rimasto lo stesso».
Il 21 ottobre Nikita Mikhalkov festeggerà il suo settantesimo compleanno. Il regista premio Oscar, autore di film memorabili come Sole ingannatore e Oci Ciornie , ha la stessa età della vittoria nella Seconda guerra mondiale, l’evento che più di ogni altro ha definito la storia e l’identità dell’Unione Sovietica e poi della Russia. E nessuno più di lui ha incarnato le svolte brusche e le contraddizioni di questi sette decenni. Aristocratico per nascita, uomo dell’establishment per definizione e vocazione, cineasta di classe mondiale amato e riverito in Occidente, maître à penser della nuova Russia di Vladimir Putin, Mikhalkov si vuole aedo della «rinascita dell’autocoscienza nazionale» nel suo Paese.
«Sì, il mondo è cambiato — dice, ricevendo “la Lettura” nel suo ufficio zeppo di cimeli e fotografie nel cuore antico di Mosca —. L’Europa era un sogno dorato per l’uomo sovietico. Là, da qualche parte, dimorava una promessa. Poi le porte si sono spalancate e abbiamo potuto vederla, l’Europa. Ci siamo messi a viaggiare: Roma, Vienna, Parigi, Londra. Ma col tempo, via via che si andavano definendo gli interessi, abbiamo capito che non tutto era così bello e ameno. E all’improvviso abbiamo scoperto che il mondo russo e quello ortodosso erano alieni per l’Europa illuminata. Ma anche l’Europa non è più quella di 40 anni fa: si è unita pensando di dar vita a un organismo giovane e invece ne è risultato un ospizio per vecchi».
Che cosa rimprovera agli europei?
«Che i loro interessi vengono al di sopra di tutto, mentre quelli della Russia restano sempre sullo sfondo. E in situazioni assolutamente evidenti si adoperano doppi standard».
Si riferisce all’Ucraina?
«Certo. Per l’Europa quanto è avvenuto laggiù è una rivoluzione democratica di liberazione. Ma per noi, per i popoli le cui radici sono intrecciate da secoli, è una tragedia, una catastrofe globale e devo constatare che in questo c’è un’enorme colpa della Russia. Pensavamo che non sarebbero scappati, con tutte le cose che ci legano. Pompiamo il gas, cantiamo canzoni, ci frequentiamo. Ci è sfuggito l’attimo 25 anni fa, quando l’Ucraina è diventata un colossale laboratorio per gli esperimenti altrui. Gli specialisti americani hanno svolto con calcolo e coerenza un lavoro capillare, in particolare sulla nuova gioventù: giornali, trasmissioni radio, programmi tv, libri di scuola, organizzazioni non governative. Il risultato lo vediamo oggi: un criminale antisemita come Bandera è un eroe e le sue bande, che infilzavano con le baionette i neonati dei contadini ucraini, sono i liberatori; un complice dei nazisti come Shukhevych è un patriota; l’Armata Rossa non ha liberato ma occupato l’Ucraina, i suoi soldati che morivano per Kiev sono i nemici. Questo è attraversare lo specchio, come Alice nel Paese delle meraviglie».
Come si esce dall’impasse in Ucraina?
«Delle due l’una. O si riconoscono i referendum a Lugansk e Donetsk come legittimi e si viene a patti con il Donbass, vuoi come separazione volontaria ovvero come coesistenza nell’ambito di una confederazione. Oppure la seconda via è lo sterminio totale del Donbass. Il conflitto porta con sé esiti imprevedibili, cui è meglio non pensare».
Perché Putin è così popolare? Cosa rappresenta per la Russia?
«Putin è un leader straordinario. Si distingue per come affronta direttamente un problema e ne parla chiaramente. È un uomo. Non vedo o quasi nei Paesi europei leader che si possono permettere di dire quello che hanno in testa senza temere quello che si possa pensare di loro. Indipendenza, chiarezza di pensiero, fedeltà alla parola data sono qualità di un vero uomo, assolutamente necessarie per un leader nazionale. Sembra strano, ma fra tutti gli statisti mondiali, chi si avvicina di più a Putin è una donna: la cancelliera tedesca Angela Merkel».
La differenza tra i due è che Putin ha qualche problema con la democrazia.
«Cosa intende per problemi con la democrazia?».
Diritti dell’opposizione, libertà di parola, accesso ai media…
«Lei li legge i nostri giornali? Chi è che non può dire qualcosa? Quanti comizi ha fatto negli ultimi tempi l’opposizione? Quante ore i suoi rappresentanti dibattono in tv? Dirò di più, non sono affatto sicuro che in molti Paesi d’Europa punti di vista così contrapposti abbiano tanto spazio. Però non bisogna confondere una sana opposizione con i liberali sfacciati, insolenti e libertini, che hanno per scopo solo la dissoluzione di ogni fragile equilibrio. Quelli la cui libertà individuale si contrappone a ogni costo agli interessi nazionali. Il liberalismo in Russia è in un modo o nell’altro la negazione dello Stato come istituzione, di ogni potere eccetto il proprio, il potere del liberale, cioè il vuoto di potere. Ma questo in Russia significa il caos, che reputo più terribile di ogni dittatura».
La democrazia non fa per la Russia?
«La democrazia liberale del Lichtenstein, della Svizzera o del Belgio non può essere applicata in un Paese con 11 fusi orari, dove bisogna volare 9 ore per andare da un capo all’altro sopra un territorio nel quale tutti parlano la stessa lingua e dove coesistono le più varie confessioni. La Russia è l’unico ponte reale tra Est e Ovest perché tutto qui è mescolato, intrecciato e nondimeno organico. Il separatismo liberale che esorta allo sfascio della Russia è la strada verso un caos mondiale. Metaforicamente parlando la Russia è una croce: la verticale del potere e l’intersecante orizzontale della cultura e dell’economia. Non a caso la monarchia plurisecolare con la considerazione della mentalità russa era l’unico metodo per governare il Paese. Mi rendo conto che le mie parole possano suonare arcaiche, ma sono stato fra i primi a chiedere un prolungamento del mandato presidenziale. La Russia ha bisogno della continuità del potere, in quanto la sua stabilità è la stabilità del mondo».
Ma la stabilità dovrà pur servire a qualcosa. Perché 25 anni dopo la fine dell’Urss non c’è ancora un modello economico che funzioni e siete sempre dipendenti dal prezzo delle materie prime?
«Perché non c’è una borghesia sana in Russia. La ricchezza non è stata guadagnata col lavoro di generazioni, ma sottratta, spesso a coloro che prima servivano la nomenklatura sovietica».
E Putin questo lo capisce? Fa qualcosa?
«Ne sono convinto, ma è costretto ad andare a zig zag, spingendo le persone che hanno i capitali a capire che la loro ricchezza deve lavorare per il Paese, non essere portata nei paradisi fiscali. Qualcuno lo comprende e lo fa, qualcun altro fugge. La corruzione è un grande problema. Putin è conscio che movimenti bruschi sono molto pericolosi in un grande Paese come la Russia. È come guidare un autocarro con cinque rimorchi».
Quanto è importante oggi l’ortodossia nell’identità russa?
«È la sua peculiarità. La Chiesa è l’unico luogo nel quale esiste la democrazia di cui mi ha chiesto prima. Lì sono tutti uguali: un presidente, un soldato, un povero, uno studente, un regista, un giornalista. Per me in Russia la Chiesa ortodossa è l’istituto della democrazia».
Esiste la russofobia e cos’è?
«È la pigrizia o la riluttanza a scrutare bene il volto del Paese. Il tempo è fratello della verità. Per conoscere una persona o un Paese, per assaporare un paesaggio, per leggere un libro ci vuole tempo. Ma non c’è voglia di spenderlo. È più facile figurarsi la Russia come una combinazione di vodka, orsi, zingari e bombe atomiche. O l’Italia come una combinazione di mafia e pastasciutta. Chi sa dove si trova il Donbass o la storia della Crimea? A chi sta a cuore il racconto dell’eroica difesa di Sebastopoli, cui partecipò Lev Tolstoj? Le fiabe vengono generate dalla paura e la paura è figlia dell’ignoranza: l’esercito, l’aggressione..».
Però l’esercito c’è davvero.
«Grazie a Dio. Se Putin non fosse venuto, l’esercito russo avrebbe potuto anche non esserci più. Stavano già riconvertendo l’industria militare, pentole e sciacquoni invece di armi. Per noi l’esercito non era solo uno strumento per condurre guerre, era parte della vita della società russa e meno male che oggi è rinato. Guardi cosa succede a chi non ha potenza sufficiente a difendersi, a cosa porta il trapianto coercitivo della democrazia in Paesi con civiltà del tutto diverse. Quanto sangue scorre da quelle parti, quali persecuzioni verso i leader di quei Paesi».
La crisi economica è un pericolo per il potere di Putin?
«La crisi è pericolosa per tutti, il terreno che può fare vacillare qualsiasi situazione. Un altro conto è quanto Putin sarà onesto davanti alla gente. Se chiarirà gli obiettivi per i quali tutti devono stringere la cinghia, spiegando che lui stesso è pronto a farlo e le difficoltà di oggi sono il prezzo per l’indipendenza e la rinascita, il popolo risponderà positivamente».
C’è qualcosa che rimpiange nella vita o di cui si pente? Abbiamo fatto la stessa domanda a Putin e ha risposto che non si pente di nulla.
«Ci sono cose che rimpiango perché mi sarebbero potute essere più utili nella vita: se avessi imparato alla perfezione sei lingue straniere, me ne potrei servire per comunicare con chiunque».
C’è un suo film al quale si sente particolarmente legato?
«Sono un uomo felice, non ricordo i miei film. Ogni volta che comincio a girarne uno, è come se fosse il primo e l’ultimo. E se non accusi il peso di quello che hai fatto, non puoi rimanerne schiacciato».
Il film che vorrebbe fare, ma non ha ancora fatto?
«Il film sulla vita e la morte dello scrittore e diplomatico russo Aleksandr Griboedov, un tema straordinariamente interessante».
Ci racconta un aneddoto divertente?
«Sono a Venezia, dove c’è un festival sui documentari industriali. Mi premiano per uno spot sulla Pasta Barilla. Cammino in Piazza San Marco e due giovani giapponesi, un ragazzo e una ragazza, mi indicano la macchina fotografica e chiedono: possiamo? Si, prego, rispondo. E mi metto in posa. Mi guardano con gli occhi sgranati, probabilmente credendomi matto: non ha capito, ci può scattare lei una foto? Geniale. Sono rimasto sbigottito, ero abituato a Mosca dove mi chiedono sempre un selfie. Poi mi sono fatto una lunga risata».
È contento dei suoi 70 anni?
«Non me ne importa più di tanto. Per me è più interessante continuare a giocare a tennis, a calcetto e a nuotare. (Mikhalkov improvvisamente si mette a parlare italiano, ndr ). Non sono un vecchio maestro, sono un hooligan».
Buon compleanno, Nikita.