Repubblica 11.10.15
Bruno Segre
“A otto anni imparai a essere invisibile e solo Olivetti riuscì a guarirmi”
colloquio con Antonio Gnoli
Della vasta famiglia dei Segre più di tutti mi incuriosisce Bruno. Un signore di 86 anni, la cui fisionomia gioviale e mite sembra uscita da una pagina dei fratelli Singer. Quando il vecchio Isaac e Israel Joshua raccontavano di quei villaggi della Cracovia — descrivendo facce e corpi che, sul limitare delle casette di legno, adempivano alla loro vita quotidiana — noi leggevamo con apprensione e dolore ciò, che dopo un po’, sarebbe accaduto. «Nulla sarebbe stato come prima», commenta Bruno Segre. «Ha mai fatto caso alla collocazione dei campi? Alcuni di essi erano in luoghi ameni. Buchenwald occupava uno spazio seminascosto su una collina che si affaccia sopra il romantico panorama della città di Weimar. Dove lo sguardo di Goethe si posò estasiato e riconoscente, i nazisti incarcerarono e cancellarono 250 mila ebrei». Segre vive a Milano in una grande casa piena di carte e di libri. Nelle stanze regna una sovrana confusione. Un archivio immenso di testimonianze e storie vi è raccolto. Coadiuvato dalla moglie, ne è il guardiano e l’interprete. Ha da poco pubblicato una serie di documenti frutto di una lunga collaborazione con Adriano Olivetti (si veda il recentissimo libro che gli ha dedicato edito da Imprimatur).
Quando ha conosciuto Adriano Olivetti?
«Nel 1955. Lavoravo alla Biblioteca della Bocconi e lessi un annuncio sulla rivista di “Comunità” che cercavano dei giovani. Avevo 25 anni. Mi presentai e una piccola commissione — composta da Geno Pampaloni, Renzo Zorzi e dallo stesso Olivetti — mi esaminò. Il primo luglio arrivai a Ivrea».
Che ambiente trovò?
«C’era un atmosfera operosa segnata da personaggi in parte noti: Paolo Volponi, Alessandro Pizzorno, Franco Ferrarotti, Ettore Sottsass. Strinsi amicizia con Luciano Gallino e in seguito con Giancarlo Buzzi. Un uomo spiritosissimo. Era una situazione fuori dagli schemi».
Come fuori dagli schemi era Olivetti.
«Totalmente. Un uomo inattuale e incompreso che non aveva nulla da spartire con il mondo in cui viviamo. Mi piacevano la sua discrezione e la timidezza. A volte veniva a sapere che i suoi operai non se la passavano bene. Interveniva, in forma anonima, aiutandoli economicamente».
Come faceva un uomo così ad essere imprenditore?
«Fu un’umanissima anomalia. Guardava alla fabbrica come il centro della comunità e il posto dove si produceva ricchezza».
Lei da che studi proveniva?
«Mi ero laureato in filosofia con Antonio Banfi. Avevo fatto una tesi sul pensiero politico di Edmund Burke, un pensatore reazionario. E poiché lavoravo ebbi poco tempo per prepararla. Arrivò il giorno della discussione».
Che accadde?
«La commissione schierata. Banfi, senatore del Pci oltre che professore, mi guardò infastidito. Poi, nel momento della discussione, cominciò a demolire il mio lavoro. Lo smontò pezzo per pezzo. Lo ascoltavo allibito. Fu un’analisi critica per me dolorosissima e sconcertante».
Come reagì?
«Lo può immaginare. Quando uscii dalla stanza mi raggiunse il correlatore Mario Dal Pra. “Sono indignato con Banfi”, mormorò. Però, a distanza di anni, sono sinceramente grato a Banfi. Quel lavoro, forse, andava distrutto. Non era all’altezza di quella scelta, di quell’occasione che mi si era presentata e che non avevo saputo affrontare».
Come elaborò l’umiliazione intellettuale?
«Il fatto che avesse sostanzialmente ragione l’ho capito molto dopo. Al momento mi sentivo depresso, schiacciato dal mezzo fallimento. E lì ha influito la mia storia personale di ebreo. Non perché mi sentissi colpito in quanto ebreo, ma perché la mia vita, già da tempo aveva affrontato durezze inaudite».
Immagino si riferisca anche alla sua famiglia.
«Beh, fa da sfondo a tutto questo. Sono figlio di Emanuele Segre, a sua volta figlio di Gabriel Segre di Torino e di Sara Osimo di Piacenza. È molto probabile che i miei nonni si conobbero attraverso un sensale di matrimoni».
Mi colpisce questo modo preciso di ricostruire i nomi di famiglia.
«È fondamentale per me. La precisione è una forma di salvezza. Mio padre nasce il 14 luglio 1889. Esattamente cento anni dopo la presa della Bastiglia. Il nome che gli fu dato da circonciso fu Camillo. Non già in onore di Cavour ma per Camille Desmoulins che chiamò il popolo francese alle armi. Il nonno Gabriel, mi dicono, era molto simpatico ma un vero inetto sul piano professionale. Commerciava in stoffe, la sua imperizia lo condusse al fallimento».
Con quali conseguenze?
«I fratelli di Sara erano ricchi droghieri. Si presero cura della nostra famiglia. Avevo cinque anni, ci trasferimmo tutti a Castel San Giovanni, non distante da Piacenza. Lì aprimmo una drogheria. Fu la nonna a occuparsi di tutto e grazie a un ritrovato benessere riuscì a mandare mio padre alla Bocconi. Nel frattempo giunse la campagna di Libia».
Che anni erano?
«Si laureò nel 1910, nell’11 fu coinvolto nella guerra italo-turca. Nel 1912 venne congedato. Nel maggio 1915 fu richiamato per la Grande Guerra e restò fino alla disfatta di Caporetto. Ferito, nel tardo autunno del 1917, tornò a casa. L’anno dopo fu inviato a Londra con l’incarico di acquistare nuovo materiale bellico. Qui conobbe mia madre
Un’inglese?
«Anglo-irlandese per la precisione: Kathleen Keegan di Dublino. Mio nonno materno — ufficiale medico dell’esercito imperiale britannico — operò come chirurgo in zone di guerra in Afghanistan e in particolare a Kandahar».
Tutto questo che c’entra con la tradizione ebraica?
«Apparentemente nulla. Ma è come una carta geografica. La si deve conoscere per comprendere chi sei e quali sono o saranno i tuoi sentimenti. Mio padre era tutt’altro che ortodosso. Se andavamo a trovare la nonna a Piacenza, comprava sempre i salumi della zona di cui era golosissimo. La nonna si rifiutava di mettere quell’indecenza suina nei piatti. A tavola il babbo apriva il pacchetto e chi lo desiderava si serviva direttamente. La nonna non voleva venir meno alla Mitzvah della Torah».
Lei rispettava i comandamenti?
«No. Mio padre mi aveva insegnato che le religioni erano un condizionamento. Poi arrivò il 1938. Frequentavo una scuola comunale. Non conoscevo nulla della tradizione ebraica. Alle spalle della maestra c’era il crocefisso e ai lati i ritratti del Re e del Duce. Per me era quella la santissima trinità. All’inizio delle lezioni i compagni recitavano il padrenostro. Io muto. Quando la maestra faceva lezione di catechismo ero esentato e dunque uscivo dall’aula. Per molto tempo la religione è stata per me quella degli altri».
Come scoprì di essere ebreo?
«Nel tardo autunno di quell’anno fui sbattuto fuori. Bandito da tutte le scuole del regno. Mi spiegarono che come ebrei non potevamo più, con la nostra presenza, inquinare la scuola. Ci venne concesso di presentarci agli esami da privatisti. Cosa che feci, prendendo lezioni da una maestra antifascista».
Nella sua testa cosa avvenne?
«Fu il disorientamento. La novità, diciamo pure la nuova condizione, fu assoluta e imprevedibile. Improvvisamente, da un giorno all’altro per i miei ex compagni di scuola divenni invisibile. Il solo amico che mi rimase fu un ragazzo svizzero col quale ogni tanto continuai a giocare. Un giorno mi fece vedere la foto della nostra classe: 1938-39. C’erano tutti, tranne io».
Cosa provò in quel momento?
«Mi sembrò una foto irreale, falsa, crudele. Vede, non ero preparato a tanto. I genitori, poi, non spiegavano niente. Il solo messaggio che appresi da loro fu: appari meno che puoi, accetta di non esserci e quando cammini striscia contro i muri. Non era facile per un bambino di 8 anni imparare questa lezione di vita. Compresi per la prima volta cosa fosse la paura».
Paura per cosa?
«Tutto divenne fonte di minaccia. Capii allora quanto fosse importante mimetizzarsi e accettare la propria solitudine. La mia è stata un’infanzia molto solitaria. Mio padre morì il 24 giugno del 1941 per una emorragia cerebrale. Lasciammo la casa dove abitavamo e ne prendemmo una più piccola. Nell’ottobre del 1942 Milano cominciò a essere pesantemente bombardata dagli inglesi. Con la mamma sfollammo sopra Bergamo Alta, a San Virgilio. Restammo lì più di un anno. Poi nel luglio del 1943 cadde Mussolini e sperammo nella ritrovata libertà. L’illusione durò 72 ore. Per noi ebrei cominciò la fase più dura. Ci rifugiammo ad Ascoli. Per nove mesi Elsa, figlia di uno scalpellino anarchico, ci ospitò. Non avevamo più nulla. Poi venne la liberazione. Tornai a scuola. Diedi gli esami per il liceo».
Si è sentito un sopravvissuto?
«Non nel senso in cui lo furono quei pochi che tornarono dai lager. La tempesta razziale si abbatté su tutti. La gran parte fu travolta, cancellata dallo sterminio. Ho avuto, se così si può dire, la fortuna di non cadere negli eccidi che, in molte parti d’Italia, i tedeschi compirono per rapina o per puro sadismo. In questo senso, forse, sono sopravvissuto anch’io».
Cosa le è rimasto?
«Lo vede, no? Anche la casa sembra conservare quelle ferite. Le vorrei raccontare perché la morte di mio padre fu per me un trauma enorme. E come, ormai vecchio, penso a lui con furiosa nostalgia».
L’ascolto.
«Un giorno mi telefonò una giovane studiosa di Torino. Mi annunciò che all’archivio centrale di Stato aveva trovato un dossier su mio padre. Un dossier? Mi meravigliai».
Cosa conteneva?
«Un esame dettagliato su mio padre, che aveva fatto domanda per essere in qualche modo “risparmiato”. Non è il termine giusto. Ma tenga conto che nelle leggi razziali c’era un comma che distingueva tra “discriminato” e “perseguitato”. Il discriminato era colui che poteva vantare benemerenze. Quando seppi questa cosa pensai al peggio».
Cioè?
«Immaginai che mio padre si fosse venduto l’anima. Poi scoprii che moltissimi, tra gli ebrei fascisti e antifascisti, fecero domanda per essere discriminati. Nella lettera disse che aveva sposato una cattolica irlandese e che il suo lavoro consisteva nella direzione di una piccola azienda che produceva acido tartarico destinato in massima parte in Germania e in Giappone. La domanda si concludeva con una professione di italianità. Piccole astuzie. Che nell’ufficio della Demo-Razza furono accolte con disprezzo e sarcasmo. Il prefetto di Milano decretò che la domanda andava rifiutata».
Cosa le fa supporre dell’importanza di questo episodio?
«Il diniego gli fu notificato il 22 giugno del 1941. Due giorni prima che morisse. Nella domanda l’unica cosa che chiedeva era che i suoi figli tornassero a scuola. Il dolore fortissimo che provò per la nostra estromissione temo abbia fatto il resto. Quando penso a questa cosa ho la sensazione di trasformarmi nel padre di mio padre».
Cosa intende dire?
«Che la sua storia, la nostra, è stata atroce e che lui l’ha patita fino a morirne. Mi metto al suo posto e penso a lui nel mio. Cosa avrei fatto per difenderlo, amarlo, proteggerlo? Ecco perché scrisse quella lettera. La morte precoce gli ha risparmiato la Shoah, il peggio».
Oggi come vive la spiritualità ebraica?
«Da laico ma con un profondo attaccamento alle radici. Ho tre figli e diversi nipoti. Una di esse una volta mi ha chiesto: nonno cosa vuol dire essere ebreo? Si avvicinava la Pasqua ebraica e attesi quel momento. Durante la Pesach c’è la lettura della Haggadah che narra l’uscita del popolo ebraico dall’Egitto. È una cosa complicata. Ma la si può rendere più semplice, dal momento che ai bambini è consentito fare domande».
Cosa rispose alla nipotina?
«Le dissi che con la Pasqua celebravamo la nostra liberazione. Una moltitudine di schiavi fu liberata in Egitto. E si diresse verso il Sinai, dove il loro leader, Mosè, ricevette le dieci parole. Mi chiese cosa erano quelle dieci parole. Risposi che non c’è libertà senza responsabilità. E la metafora di questa responsabilità è il dono delle dieci parole. Io vengo di lì, dissi. Non importa dove sei nato — io per caso sono nato a Lucerna — ma provengo da quella vicenda lontana. Ho lavorato per diverse case editrici, ho insegnato per cinque anni in Svizzera e fatto il pubblicitario in Italia. Ma la mia storia è molto, molto più lunga. E ora che sono vecchio mi sembra di vederla nella sua pienezza».
Come vive questa sua vecchiaia?
« Ho la fortuna di stare bene. Faccio yoga da 32 anni. Niente di metafisico o orientale. Ho capito che possiedo un corpo ed è importante conservarlo bene, perché l’anima che sta dentro possa esprimersi al meglio».