sabato 31 ottobre 2015

Corriere 31.10.15
Nuova strage di bimbi
Tsipras: Europa ipocrita. Berlino limita gli accessi
Doppio naufragio nell’Egeo. Non partono gli smistamenti
di Maria Serena Natale

Non sono passati neanche due mesi da quando Angela Merkel ha lanciato il suo messaggio alla Germania e all’Europa, «possiamo farcela». Ieri, nel giorno del doppio naufragio che ha ucciso quattro neonati e nove bambini, il premier greco Alexis Tsipras ha gettato la spugna, «di questa Europa mi vergogno».
Il mare s’ingrossa, con il senso d’impotenza. In 24 ore al largo di Kalymnos e Rodi sono morte almeno 22 persone nel tentativo di superare la manciata di chilometri che separa le coste turche dalle isole dell’Egeo, 144 sono state tratte in salvo da volontari e Guardia costiera. Il flusso dei profughi da Siria, Afghanistan, Iraq e Paesi africani non si è mai fermato, né diminuisce ora che cala il gelo dai Balcani. In due mesi i bambini inghiottiti dalle onde sono stati più di ottanta. Le autorità greche inseguono numeri e aggiornano bilanci. Quello del naufragio di mercoledì scorso tra Lesbo, Samo e Agathonissi è arrivato a 29 morti. I salvati sono 274. Una pesca miracolosa che restituisce salvagenti sgonfi, corpicini intirizziti dal freddo e occhi increduli. Per chi riesce a raggiungere la terraferma, nella Grecia che imbarca acqua e si aggrappa al terzo salvataggio finanziario, non ci sono risorse né strutture. Non sono pronti i centri per la registrazione, così è inceppato il meccanismo che per la Commissione Ue dovrebbe smistare sul continente 160 mila rifugiati in due anni: dalla Grecia devono partirne 66.400, ma sono tutti ancora lì. Dall’Italia sono stati trasferiti solo 86 dei 39.600 previsti; in tutta l’Unione i posti messi a disposizione finora sono 1.375, meno di un decimo del totale concordato. La Siria però brucia, dopo i bombardamenti russi stanno per arrivare i soldati americani e il Paese continua a svuotarsi.
In ordine sparso, migranti e governi. Prima i muri costruiti in Ungheria e annunciati tra Austria, Croazia e Slovenia, poi assalti ai treni, accampamenti e sfondamenti. Ieri Berlino e Vienna hanno annunciato che d’ora in poi i punti di passaggio in funzione tra i due Paesi saranno ridotti a cinque. Aperte e ricucite, frontiere come ferite.
Il premier ungherese Viktor Orbán parla di «anarchia che mette in pericolo la democrazia» e il suo ministro degli Esteri torna a chiedere di mandare l’esercito alle porte greche. Di fronte all’allarme che monta ad Atene si fa sentire anche il ministero delle Finanze tedesco, precisando che le concessioni Ue dei giorni scorsi su una maggiore flessibilità di bilancio per i Paesi in emergenza non valgono per i greci: «Siamo già stati molto generosi». I conti però non tornano neanche a Bruxelles. Gli Stati si erano impegnati a contribuire per un totale di 5,6 miliardi, ma secondo i dati appena comunicati dalla Commissione mancano ancora 2,2 miliardi.
Così in Parlamento Tsipras alza la voce. Per evitare tragedie del mare, dice, i ricollocamenti devono partire dal territorio turco. Condanna i muri e prende le distanze dalle «lacrime di coccodrillo» degli europei che non sanno gestire il dramma in corso: «I bimbi morti suscitano sempre dolore. Ma che dire di quelli vivi per le strade? Nessuno si prende cura di loro. L’Egeo non sta trascinando via solo bambini ma la civiltà dell’Europa».

Repubblica 31.10.15
Il sogno di Malala “L’Europa apra il suo cuore ai profughi”
La premio Nobel per la Pace: “I governi facciano di più. So bene quanto sia difficile partire”
di Arianna Finos

LONDRA «Questo è il momento in cui l’Europa deve mostrare al mondo che è pronta a dare grande sostegno ai rifugiati. Dire loro: “ Sappiamo cosa state soffrendo, siamo qui per sostenervi”. Non possiamo ignorarli». Quello di Malala Yousafzai è un grido di dolore di fronte alla sofferenza di chi, come lei, è dovuto fuggire dal proprio paese.
La studentessa ha lasciato il Pakistan quando, a 15 anni, i Taliban le hanno sparato in testa. E la minaccia è ancora alta: il luogo dell’incontro per parlare del documentario “Malala” del premio Oscar David Guggenheim è comunicato solo all’ultimo minuto. La premio Nobel per la pace è sorvegliata da uomini in nero: è una ragazza minuta con un velo porpora, la blusa ricamata, e alte zeppe arancioni sotto i pantaloni larghi. A 18 anni si esprime con il controllo di una leader, ma s’emoziona se le chiedi dell’amore, della scuola. Si addolora invece mentre parla dell’esodo tragico di donne e bambini in fuga, che definisce «una tragedia straziante».
Cosa pensa delle politiche europee sull’immigrazione?
«Noi dobbiamo capire una cosa: queste persone che fuggono dalla Siria e dagli altri paesi lo fanno perché ci sono guerra e sofferenza. Io posso ben capire quanto è difficile per loro partire. E come la vita e l’educazione dei bambini sia a rischio. Noi dovremmo aprire le nostre porte e i nostri cuori. Perché una cosa come questa domani potrebbe accadere a ciascuno di noi. E come vorremmo essere trattati, se fossimo noi a soffrire? Queste persone non possono più vivere nel loro paese e tutti stanno chiudendo loro le porte in faccia. E’ profondamente ingiusto».
Con la sua fondazione, il Malala fund, lei lavora con le ragazze e i bambini rifugiati.
«Cerco di dare un aiuto concreto, sul campo. Parlo con molti leader del mondo e chiedo loro di investire nella cultura, ma non tutti mi ascoltano. Mi dicono che è difficile costruire scuole. Allora ho passato il mio 18simo compleanno seduta sul pavimento di una scuola che abbiamo costruito in Libano per le giovani siriane nei campi profughi della Valle della Bekaa. Volevo dimostrare che non ci sono scuse: se una sola persona, con il sostegno delle donazioni, costruisce una scuola, perché tu governante dici che non si può fare? E ho anche voluto dire ai leader mondiali; dovete concentrarvi su questo. Investire qui, o quella dei giovani siriani sarà una generazione perduta».
Lei ha costruito anche una scuola in Pakistan.
«Nel 2014 abbiano iniziato il primo progetto su ragazzine sfruttate nel lavoro minorile. Abbiamo progetti anche in Libano e in Kenya. In Nigeria stiamo organizzando l’educazione per le studentesse sfuggite a Boko Haram. Molti le hanno intervistate ma nessuno ha chiesto loro “cosa sarà della tua educazione”. Noi le abbiamo fatte tornare a studiare, facendole sentire al sicuro».
Come si combatte l’ideologia degli estremisti?
«Per prima cosa bisogna far sentire ai bambini che non sono soli e marginalizzati, che sono rispettati a prescindere dal colore della pelle e della religione. Questa è la risposta. Bisogna lavorare di più perché ci sono bambini che continuano ad aderire ai gruppi militari. Più la gente è spaventata, emarginata, più si rifugia in questi gruppi».
In Pakistan non tutti sono dalla sua parte.
«La mia campagna è semplice: i bimbi devono andare a scuola. Non voglio che la gente mi sostenga o abbia simpatia per me, ma che sostenga la mia causa e abbia simpatia per i bambini. In Pakistan la gente non si fida dei leader, ma sono convinta che in molti abbracciano la mia causa».
Com’è cambiata la sua vita dopo il premio Nobel?
«Sento di avere molte responsabilità. Prima nessuno la considerava una questione importante. Nel 2014 il premio a due persone che si battono per i diritti dei bambini ha mostrato al mondo che si trattava di un tema importante».
Sogna di diventare il primo ministro del Pakistan?
«Voglio che ogni bambino pachistano possa andare a scuola. Ho pensato che il modo migliore per farlo fosse diventare il premier del mio paese. Ma dipenderà dal voto della gente. E, a prescindere da ogni carica, dare un futuro ai bambini è il mio scopo. Ci sono molti modi per raggiungerlo. Puoi creare una tua organizzazione, incontrare i leader del mondo, diventare tu stessa un politico. Ci sono molte scelte davanti a me. Ora sono concentrata sulla mia fondazione. Sento che è la giusta piattaforma per sostenere le ragazze come me. Io non cerco la celebrità ma voglio essere la loro voce: dire al mondo “ascoltate questa ragazza della Siria, del Pakistan, della Nigeria”. Essere anche la voce di questi bambini e bambine in fuga».

La Stampa 31.10.15
L’Italia manda più truppe in Afghanistan
Il sottosegretario Rossi alla Camera: «Compenseremo il rientro degli spagnoli»
qui
http://www.lastampa.it/2015/10/30/esteri/la-missione-italiana-in-afghanistan-prosegue-e-il-contingente-aumenta-GZnmCwxPsNplBSFabZEaFI/pagina.html

Corriere 31.10.15
Svolta di Obama, prime truppe in Siria
Cinquanta soldati Usa già inviati in zone di combattimento. In Turchia una squadriglia di F-15 Si chiude a Vienna il round di negoziati con la partecipazione dell’Iran: niente scontri e passi avanti
di Massimo Gaggi

NEW YORK Solo 50, forse meno. Ma sono i primi soldati americani impegnati in zone di combattimento in Siria, un Paese devastato da una guerra civile che dura ormai da quattro anni e che ha già fatto più di 200 mila vittime. Barack Obama, il presidente che voleva uscire dalla Casa Bianca lasciandosi alle spalle un Paese senza più guerre da combattere dopo il ritiro da Iraq e Afghanistan, è costretto a un altro passo che va nella direzione opposta: spinto dall’aggressività dello Stato islamico che sta mettendo radici in vaste aree della Siria e dell’Iraq, dall’intervento della Russia a fianco del regime di Damasco e dal fallimento dei tentativi Usa di addestrare ribelli filo-occidentali in questo Paese martoriato, il leader americano si rimangia la decisione di non rischiare più vite di soldati statunitensi schierandoli sui campi di battaglia delle guerre mediorientali.
Dapprima Obama ha cercato di combattere i terroristi dell’Isis coi raid aerei e gli attacchi mirati dei droni, ma non è bastato. Così, dopo il prolungamento della missione militare in Afghanistan contro i talebani e le prime infiltrazioni Isis e dopo l’invio di nuove truppe in Iraq (istruttori incaricati di addestrare e sostenere l’esangue esercito di Bagdad), ecco la decisione più rischiosa: l’intervento in Siria. Accompagnato dall’invio nella base turca di Incirlik di squadriglie di cacciabombardieri F-15 e aerei corazzati da attacco A-10 «Warthog», pronti a colpire i bersagli dell’Isis che verranno individuati anche grazie ai commando Usa in Siria.
Anche questa missione, dice la Casa Bianca, sarà solo di «consulenza e assistenza» ai combattenti curdi che operano nel Kurdistan siriano: una sottile striscia di territorio stretta tra la frontiera turca e la città di Raqqa, la capitale del Califfato. Ma già qualche giorno il New York Times aveva sostenuto, in un editoriale firmato dal board dei direttori, che chiamare «istruttori» i militari Usa mandati in zona di guerra era fuorviante all’inizio di questo conflitto ed è assurdo oggi che i combattimenti si sono intensificati ovunque con gli Usa sempre più esposti.
Del resto il Pentagono usa un linguaggio molto più crudo della Casa Bianca quando parla di «forze combattenti». Saranno pochi uomini, certo, ma si tratterà di volontari delle forze speciali: uomini abituati a condurre le missioni operative più rischiose che, oltre ad aiutare i curdi nell’addestramento e nel reperimenti di armi, li assisteranno nelle loro offensive con l’obiettivo esplicito di far avanzare il fronte fino a cercare di riconquistare Raqqa, il cuore dello Stato Islamico.
Un vero salto di qualità questo intervento deciso da Obama perché, mentre in Afghanistan e Iraq gli Stati Uniti si sono mossi su richiesta dei governi locali, in Siria i soldati americani andranno a sostenere un esercito, quello curdo, che combatte tanto contro l’Isis quanto contro il regime di Damasco, delegittimato dai crimini commessi da Assad contro il suo stesso popolo, ma ancora formalmente al potere. E puntellato dall’intervento militare russo in Siria.
Una situazione molto pericolosa, quindi, per le truppe scelte che saranno impegnate in queste operazioni (si sta verificando la possibilità di evacuarli a bordo di elicotteri corazzati in caso di emergenza) anche perché questi soldati rischieranno di ritrovarsi contro truppe di Assad appoggiate dai russi. Washington e Mosca su trincee opposte in Siria ma sedute attorno allo stesso tavolo a Vienna dove si cercano soluzioni per la crisi siriana, per la prima volta anche con la partecipazione dell’Iran.
Muro contro muro in Medio Oriente mentre a Vienna i ministri degli Esteri dei due Paesi, Kerry e Lavrov, tengono una conferenza stampa congiunta: un paradosso di questa crisi. Non è il pri mo e non sarà l’ultimo.

Repubblica 31.10.15
Un’altra avventura dopo Vietnam e Iraq in America torna l’incubo dell’escalation
di Vittorio Zucconi

WASHINGTON UN piccolo passo per i militari, ma un grande balzo nel vuoto per la nazione. Gli Stati Uniti scendono in prima persona nel cratere della guerra in Siria. Quei «meno di 50 soldati» delle Forze Speciali che metterano i loro stivali, a nome e per conto del governo Usa, nella polvere attorno alla città caposaldo dell’Is, Raqqa, per ordine di Barack Obama, sono tatticamente ben poca cosa, fra le migliaia di combattenti che si massacrano sotto le più diverse bandiere nel crogiolo arabo. Ma sono il primo gradino di un’altra scalata verso l’ignoto.
Ancora una volta quella Repubblica che il suo creatore e primo presidente, George Washington, aveva esortato a limitare al minimo ogni alleanza militare e ogni legame politico con il resto del mondo nel suo discorso di addio nel 1797, si scopre risucchiata irresistibilmente nel gorgo di avventure militari che sa di non poter controllare e, soprattutto, non sa come finire.
Dalla “Dottrina Monroe” che nel 1823 proclamò il diritto americano a intervenire nella propria sfera continentale di interessi, all’intervento decisivo nelle due Grandi Guerre mondiali, alla Corea, al Vietnam, alla spedizione punitiva in Afghanistan, alle “Bush Follies” in Iraq fino a questo piccolo grande dispiegamento di “consiglieri e assistenti” nella Siria settentrionale, il vortice della realtà internazionale, la spinta di un idealismo interventista spesso invocato per nascondere il cinismo degli interessi, e la inarrestabile dinamica dei nuovi, micro conflitti del XXI secolo ha portato una nazione istintivamente e storicamente isolazionista alla contraddizione dell’interventismo globale e continuo.
Sembra impossibile ricordare oggi, mentre i soldati americani, dunque non “contractors”, agenti dei servizi, freelance della guerra, si preparano a rischiare la vita per ordine del Comandante in Capo accanto a curdi, ribelli cosiddetti “moderati”, bande irregolari, mercenari di fluide e incomprensibili lealtà tra Raqqa e Kobane, che due generazioni or sono, nel 1939, a pochi mesi dall’attacco giapponese a Pearl Harbour, il Congresso americano sfiorò, con un solo voto di differenza, la dissoluzione di fatto dell’Esercito. E che nel dicembre del ‘ 41 mentre i bombardieri e le aerosiluranti di Yamamoto affondavano corazzate alle Hawaii, la oggi onnipotente US Army contasse appena 100 mila uomini in uniforme, costretti ad addestrarsi con fucili di legno.
Ma anche allora, come ieri, quando il portavoce della Casa Bianca Josh Earnest si è dovuto arrampicare sul podio della sala stampa per negare l’evidenza e per convincere l’America che quei 50 non sarebbero stati inviati per combattere ma solo per «assistere e consigliare», la spirale degli interventi armati, che più tardi sarebbe stata chiamata “escalation” cominciava sempre da un’apparente riluttanza. Fu soltanto l’invasione dell’Iraq, di tutte le azioni militare americane nel mondo la più ingiustificabile, a essere accompagnata inizialmente dall’entusiasmo popolare e le conseguenze sono ancora visibili.
Entusiasmo che sicuramente manca per questa microescalation della presenza Usa, «cerotto su una ferita sanguinante», secondo Frederich Hof del Consiglio Atlantico, nel cuore più nero della lunga mezzaluna araba dall’Oceano Indiano all’Oceano Atlantico e spiega le dimensioni quantitative di questa spedizione. Nessuno dei due partiti maggiori, certamente non i Repubblicani che ripetono nei loro dibattita il mantra, anch’esso falso, dell’isolazionismo, non i Democratici, guidati da quella Hillary Clinton che sovraintese all’intervento in Libia per assecondare Sarkozy, come lo stesso Obama, ha alcun appetito per una vera guerra campale in Siria. Da qui, il compromesso, fra i militari che avevano disegnato piani più ambiziosi di operazione e il presidente, sconvolto dal pensiero di finire il proprio mandato con una riedizone in scala tascabile dell’escalation di Bush in Iraq o di Johnson in Vietnam che da oltre un anno, dal suo discorso alla nazione del settembre 2014, aveva promesso di non spedire stivali americani sul terreno.
Il difetto evidente di questa microspedizione che è comunque una chiara svolta, è di avere tutte le caratteristiche di un intervento americano diretto senza promettere, e certamente senza garantire, alcun successo. Quei soldati per quanto superad-destrati, superarmati, basati ancora ufficialmente nella base di Erbil, in territorio curdo, non lanceranno assalti sulle “Colline degli Hamburger” come nei mattatoi vietnamiti, ma potranno morire, anche soltanto difendendosi. Già in una operazione di salvataggio di ostaggi, la scorsa settimana, un sergente americano è stato ucciso.
Ma l’illusione di restare fuori almeno dalla Siria, tenendosi ad alta quota come gli aerei lanciamissili, è finita con l’intervento di Putin che ha demolito la titubanza di Obama. È una buona ragione strategica, quella che ha spinto alla decisione di inviare il micro corpo di spedizione, è una comprensibile scelta politica purché i comandi e i dirigenti politici russi e americani riescano a “deconflittualizzare” (è l’ultima parola di moda nello slang dei think tank a Washington) la pericolosissima presenza contemporanea di forze armate delle due nazioni nello stesso cortile. Ma ci sono sempre state buone ragioni politiche e militari per salire i gradini della “escalation”, prima di precipitare nel vuoto dalla scala.
Anche oggi la spirale dell’intervento armato comincia con un’apparente riluttanza Nessun entusiasmo tra repubblicani e democratici, eppure il cambiamento è chiaro

Corriere 31.10.15
Fine del duello destra-sinistra, ora lo scontro è fra populismi
Addio ai partiti. Con il crollo del Muro di Berlino non è caduto solo il comunismo ma è entrata in crisi anche la socialdemocrazia
E sul terreno del movimento operaio sono nati i movimenti antisistema
L’asse del confronto politico ruota attorno alla contrapposizione alto-basso
di Paolo Franchi

Ventisei anni fa, di questi giorni, cadeva il Muro di Berlino. Cambiava, non finiva, la storia. In Italia e in Europa, per cominciare, cambiava, e forse cominciava a finire, quella della sinistra. Molti pensarono (in Italia, a dire il vero, non troppi) che il lungo duello che l’aveva segnata si fosse concluso con il trionfo dei socialdemocratici; che fosse giusto così; e che occorresse trarne in fretta le conseguenze. Anche chi scrive la vedeva in questi termini, e non se ne pente. Quindi gli spiace non poco, tanto tempo dopo, dare qualche ragione a Fausto Bertinotti. Il quale, in una conversazione con Carlo Formenti ( Rosso di sera , Jaca Book), sostiene che la caduta del comunismo si è portata appresso quella della socialdemocrazia: simul stabunt, simul cadent .
Ciò che non era vero nel 1989 lo è nel 2015? Almeno in parte, sì. Perché magari non è morta come il suo storico antagonista, la socialdemocrazia, ma di sicuro è malata grave. E non si intravedono segni di miglioramento. Né per una socialdemocrazia per così dire classica, quella, letteralmente non riproducibile, che si incarnava nella vecchia Spd, nella dichiarazione di Bad Godesberg (1959), nel rifiuto della lotta di classe, nell’accettazione del modello di economia sociale di mercato, nella cogestione, mantenendo però il suo radicamento sociale. Né per le socialdemocrazie di tipo per così dire innovativo che, sull’onda del successo di Tony Blair e del blairismo, hanno battuto strade radicalmente diverse da quelle tradizionali del movimento operaio anche nelle sue componenti più moderate, più neoliberali che neosocialiste. È vero, in Italia, dopo l’Ottantanove, le cose sono andate inizialmente alla rovescia rispetto al resto del mondo, i socialisti in rotta, i postcomunisti a un passo dal potere. Ma le considerazioni di cui sopra hanno comunque parecchio da spartire anche con la semi estinzione delle componenti a vario titolo «socialdemocratiche» del Pd.
La lunga e spesso drammatica contesa tra socialismo democratico e comunismo ebbe per terreno di gioco, nell’Europa occidentale, la sinistra, in primo luogo quella parte fondamentale della sinistra che, per gli uni e per gli altri, si chiamava, ed effettivamente era, il movimento operaio. A partire dal 1989 questo terreno di gioco è diventato prima molto pesante, poi impraticabile. Di più. La stessa antitesi sinistra-destra spiega ben poco di quel che avviene in Italia e anche in Europa. Forse perché la sinistra si è lasciata letteralmente e consapevolmente risucchiare dalla destra «mercatista», come sostiene Bertinotti. Più probabilmente perché né la prima né la seconda, almeno per come le abbiamo conosciute, hanno più molto filo da tessere. Questo mondo non è più il loro mondo, anche se non è detto che sia un mondo migliore.
Per anni e anni, mentre da noi dottamente si disquisiva su un’ipotetica democrazia dell’alternanza tra una sinistra e una destra di stampo «europeo» che, guarda caso, non hanno mai preso corpo, in Europa e contro l’Europa (con la solitaria, significativa eccezione della Germania dove a tenere la barra ha provveduto però la Cdu) hanno accumulato forze sempre maggiori quei nuovi populismi di cui la nostra Lega era stata l’antesignana. Anche quando sono nati a destra, i loro exploit li hanno avuti e li hanno mietendo voti nell’elettorato popolare della sinistra, il più colpito dalla crisi, dalle politiche di austerità, dall’immigrazione, spesso in nome della difesa strenua di uno Stato sociale sì, ma non per lo straniero. E qualcosa significherà anche quel che va capitando nell’Europa dell’Est.
Non sono certo tutti la stessa cosa, non hanno tutti lo stesso segno, i partiti e i movimenti che, con un po’ di pigrizia intellettuale, chiamiamo populisti. Ma tutti hanno concorso e concorrono a spostare l’asse dello scontro politico, che, soprattutto ma non solo nell’Europa mediterranea, ruota sempre più (anche qui Bertinotti qualche ragione ce l’ha) attorno alla contrapposizione tra il «basso» e l’«alto», tra la cosiddetta gente comune con i suoi problemi e i poteri tradizionali con i loro privilegi, sempre meno attorno alla coppia destra-sinistra. E tutti hanno concorso e concorrono a modellare pure i comportamenti dell’avversario. Qui l’Italia gioca ancora una volta in anticipo, e può persino ambire ad esportare, in tutto o in parte, il suo modello. Governanti e oppositori, che trovano in fondo la loro legittimazione nella crisi della democrazia rappresentativa novecentesca, si regolano di conseguenza. I primi seminando ottimismo, i secondi annunciando l’apocalisse. Entrambi rivolgendosi direttamente al popolo degli elettori e additando (con successo) partiti e sindacati come un intralcio al cambiamento, se non come un inganno. Con tutte le loro colpe, verrebbe da dire: poveri socialdemocratici, e persino poveri comunisti. Tutto avrebbero immaginato, ma non che il loro duello andasse a finire così.

il manifesto 31.10.15
Il trionfo dei comitati d’affari
Una partitocrazia senza partiti, dei quali a ben guardare non è rimasto che il peggio: il potere pressoché assoluto delle oligarchie e dei cerchi magici
di Alberto Burgio

Lo scontro frontale tra il sindaco della capitale e il suo partito è giunto all’ultimo atto. Non si sentiva il bisogno di quest’altra trista vicenda. La politica italiana, la democrazia italiana, i cittadini italiani e in particolare i romani non se lo meritano. Ma, giunte le cose al punto in cui stanno, l’urto finale è inevitabile. Proviamo almeno a ricavarne una lezione.
Non più tardi di qualche mese fa – lo scorso giugno – il Pd difendeva Marino a spada tratta. «È un baluardo della legalità e chi dice che si deve dimettere inconsapevolmente sostiene le posizioni di quelli che lo hanno percepito come ostacolo ai loro disegni. L’interesse di Roma è che Marino resti sindaco». Così parlava il vice di Renzi al Nazareno, non proprio l’ultimo venuto. Qualche giorno fa lo stesso Guerini se n’è uscito dicendo che «non esiste che Marino ci ripensi»: se ne deve andare, punto e basta.
Ha cambiato idea radicalmente anche Matteo Orfini, che su Marino aveva resistito persino a Renzi e che ora è sceso in campo per organizzare le dimissioni in massa dei consiglieri del Pd. Utilizzando, pare, un nobile argomento, degno dei momenti più alti della storia della Repubblica: chi oggi disobbedisce all’ordine di dimettersi si può scordare di essere rieletto in Campidoglio. Il commissario Orfini è coerente. Come si sa e si vede, si batte anima e corpo per il rinnovamento.
Quanto al presidente del Consiglio, meglio tacere. Marino non fa parte dei suoi fedeli né dei suoi famuli e tende per di più a muoversi in autonomia su uno scenario non propriamente periferico. Renzi gliel’ha giurata sin da prima dell’estate per conquistarne lo scalpo.
Tutto questo è – va detto senza remore – vergognoso, oltre che stupido. Non si tratta qui di difendere in blocco l’operato del sindaco, per molti versi molto discutibile. Ma il modo in cui il partito che due anni fa lo ha candidato alla poltrona di primo cittadino della capitale ha preteso ora di liquidarlo senza che ad alcuno sia concesso di comprendere le vere ragioni di tanto accanimento è semplicemente indegno di un paese civile. E ben difficilmente porterà buon frutto alla città oltre che agli stessi registi dell’operazione, per i quali evidentemente l’autonomia delle istituzioni locali e della cittadinanza vale zero.
Per lungo tempo hanno imperversato in Italia infuocate polemiche sulla partitocrazia. Si imputava ai partiti di occupare le istituzioni e di cercare di mettere le mani su tutti i luoghi di potere che riusciva loro di raggiungere. Non erano certo accuse pretestuose o infondate. Ma i partiti nella prima Repubblica costituivano anche snodi cruciali della partecipazione democratica. Svolgevano le funzioni vitali di alfabetizzazione politica e di orientamento culturale di massa che la Costituzione repubblicana attribuisce loro.
Poi è venuto il terremoto di Tangentopoli, si è adottato il modello del partito leggero, ha trionfato la più spinta personalizzazione della politica. I partiti di massa, radicati nel tessuto sociale del paese, sono stati rapidamente smantellati. E il discorso sulla partitocrazia è passato di moda, come se ogni problema fosse stato risolto.
I partiti si sono trasformati in comitati elettorali, in organizzatori di opinione, in strutture rarefatte comandate da gruppi sempre più ristretti, da vere e proprie oligarchie. Non soltanto a destra, dove il partito-azienda del padrone realizza coerentemente una concezione condivisa della società. Lo stesso è avvenuto nel campo delle forze democratiche. Che non hanno introiettato soltanto la lettura egemone della modernizzazione neoliberale, ma anche la concezione autoritaria, post-democratica, della politica e dell’amministrazione.
Nessuno parla più di partitocrazia, evidentemente ai maggiori opinionisti questa situazione garba. Si capisce. Ma di certo alla regressione oligarchica dei partiti non hanno corrisposto una rinuncia al potere né – come si vede – uno stile più sobrio nell’esercitarlo. Al contrario.
Se per tanti versi il renzismo ci appare quotidianamente l’espressione matura della torsione tecnocratica e affaristica della politica, la vicenda della defenestrazione del sindaco di Roma organizzata dal Pd rappresenta a sua volta il trionfo della partitocrazia peggiore e più insidiosa. Una partitocrazia senza partiti, dei quali a ben guardare non è rimasto che il peggio: il potere pressoché assoluto delle oligarchie, dei cerchi magici, dei comitati d’affare. E il conseguente trionfo delle clientele politiche e del trasformismo.

il manifesto 31.10.15
Dalla democrazia vuota alla democrazia piena
Testi. Dalla vitalità storica della ragione democratica derivano conseguenze concrete, politiche e sociali. È l’importante analisi di tre autori italiani che a vario titolo affrontano il tema in tre nuovi libri rivelativi: Marco Revelli con «Dentro e contro», Raffaele Simone, nel suo «Come la democrazia fallisce» e Geminello Preterossi con «Ciò che resta della democrazia»
di Carlo Galli

La bibliografia internazionale sulla crisi della democrazia, ormai sterminata, si arricchisce ora di tre volumi italiani, di differente impostazione e a vario titolo rivelativi.
Marco Revelli in un agile testo (Dentro e contro, Laterza 2015, pp. 144, 14 euro) ripercorre la storia di passione della legislatura in corso, dalla non-vittoria del Pd al governo quirinalizio delle crisi politiche che l’hanno scandita, dalla progressiva perdita di centralità del Parlamento all’insediarsi, con Renzi, del populismo al potere, assediato a sua volta dal populismo esterno del M5S e impegnato, al tempo stesso, a lottare (ahimé, vittoriosamente) contro il lavoro, in esecuzione della filosofia economica dell’euro.
Raffaele Simone, invece, nel suo Come la democrazia fallisce (Garzanti 2015, pp. 216, 17 euro), opera un’analisi a ritroso di più lungo periodo, e mostra la controfattualità della democrazia, il suo costituire un dover-essere, un artificio fondato sulla negazione di paradigmi naturali del pensiero umano (come il principio di diseguaglianza, o quello del ricorso alla forza) e anche le contraddizioni che la innervano (fra le quali i paradossi dell’uguaglianza e il peso del nesso sovranità/rappresentanza, per cui il popolo sovrano si spossessa della propria sovranità quando dà vita all’istituto rappresentativo).
Sotto il peso di queste contraddizioni la democrazia crolla, impedendo l’esercizio virtuoso del civismo e della partecipazione, che ne dovrebbe essere il fine, e trasformandosi nel regime della apatia politica e della continua richiesta da parte dei privati di benefici che il sistema pubblico non può più elargire, con il conseguente scatenamento di una amorale logica individualistica di breve periodo che si disinteressa della politica democratica.
A queste diverse fenomenologie ed eziologie della crisi della democrazia si aggiunge ora il testo impegnativo e ambizioso di Geminello Preterossi, Ciò che resta della democrazia (Laterza 2015, pp. 188, 20 euro), di taglio espressamente filosofico-politico. È un tentativo di individuare una radice di energia politica per la democrazia in crisi, che concede poco a molte analisi superficiali e consolatorie, e che nondimeno ha una sua severa positività (categorie come ottimismo e pessimismo sono del tutto fuori luogo quando si fa analisi teorica).
Il libro si muove fra Schmitt e Hegel, fra Habermas e Laclau, fra Hobbes e Böckenförde, fra Blumenberg e Butler, solo per citare alcuni degli autori con i quali Preterossi si confronta.
La tesi metodologica di fondo è che non si può parlare di democrazia senza parlare del progetto moderno, dello statuto della ragione che lo domina, delle categorie che lo scandiscono — soggetto, Stato, nazione, popolo, diritti -, e del loro rapporto originario con il pensiero religioso, cioè della secolarizzazione.
Dal punto di vista sostantivo, poi, la tesi principale è che nessuno dei concetti o delle categorie della democrazia (ma in realtà della filosofia politica moderna) può essere utilizzato in modo semplice, astratto, disincarnato. Questa è una critica rivolta alla scienza politica, che opera con schemi formali vuoti, ma soprattutto al decisionismo (e Preterossi ha in mente proprio Schmitt, non le sue caricature), dal quale può anche scaturire una ‘decisione per la democrazia’, ma col risultato che si tratterrebbe di una democrazia infondata, incapace di giustificarsi e di legittimarsi.
Lo stesso ‘vuoto’ di contenuti potrebbe valere per le moderne teorie dei diritti, o per l’impresa volta a costruire il soggetto alternativo al potere, il popolo — il riferimento a Laclau è evidente -. Il nichilismo democratico ha in sé la debolezza dell’artificialismo moderno ed è in fondo la manifestazione di quel pathos della tabula rasa con cui Hobbes inaugurò la ragione politica moderna, potente ma contraddittoria.
L’ambizione di Preterossi è più complessa: pensare la democrazia, con i suoi concetti e le sue categorie, come un processo che trae i suoi contenuti fuori da sé, da un’eccedenza logica e storica, e che li filtra e li trasforma nel proprio divenire.
Dalla democrazia vuota alla democrazia piena, quindi; piena non di statici ‘fondamenti’ (che sarebbe una soluzione reazionaria, tipica del fondamentalismo occidentalista) ma di vita plurale in movimento. Una vita che trae energia da un resto non razionale e che lo rielabora continuamente nella propria immanenza aperta alla trascendenza, traducendolo nella lingua democratica: lingua viva se e quando non si chiude nei gerghi tecnici ma si lascia attraversare dalla ricchezza originaria che la connota. Una traduzione che quindi ha un’origine e un resto, entrambi vitali. Lo Stato, la nazione, il soggetto, i protagonisti della ragione moderna, sono politici proprio perché sono ‘universali particolari’, perché non si risolvono nella ragione astratta ma si nutrono di concretezza storica e producono concretezza progettuale. Perché si nutrono di un ethos comune, di credenze collettive, di simboli, di riti.
È chiaro qui un forte riferimento a Hegel e alla potenza del negativo che è la radice della mediazione, alla soggettività che non è un dato ma una costruzione politica attraverso il confronto e il conflitto: il passaggio dall’Io al Noi non è il contratto ma lo costruzione del soggetto attraverso la negatività; fra la religione e la laicità non c’è un salto ma una rielaborazione; dall’autorità ai diritti si transita non per la deduzione dall’Io astratto ma per una lotta politica. Insomma, la democrazia funziona se incorpora un’eccedenza storica, simbolica, religiosa, come motore della propria vita; è la questione che Schmitt si era posto con la teologia politica e che oggi si pone l’ultimo Habermas che riflette sulla religione e sulla politica per andare oltre la democrazia come comunicazione discorsiva, e per arricchirla attingendo la risorsa di senso del sacro.
Nel discutere in modo differenziato queste e altre posizioni Preterossi ci dice che la democrazia non è fatta solo di concetti e di norme ma vive di cultura politica, popolare e di élite; che non è solo immediatezza, ma anche mediazione; che la sua autolegittimazione giuridica non è sospesa nel vuoto ma si nutre di storia e di trascendenza reinterpretate, e rese progettualmente normative per il futuro; che non è chiusa in sé ma si apre a un resto che è “ciò che resta” quando concetti e istituzioni sono stati colonizzati e travolti da poteri non democratici.
Dalla vitalità storica della ragione democratica così interpretata derivano conseguenze concrete: ad esempio, che i diritti sociali non sono alternativi a quelli politici e civili (la lesione degli uni non è compensabile con l’aumento degli altri). E deriva soprattutto la consapevolezza che la lotta contro la democrazia impolitica, contro la tecnocrazia, contro l’individualismo, non è vinta col ricorso alla democrazia identitaria ma con l’attivazione di soggettività complesse, individuali e collettive, in un incrocio di genealogia e di dialettica.

La Stampa 31.10.15
L’Osservatore Romano e i vescovi: uno-due micidiale contro Ignazio
Bagnasco: “A Roma serve un’amministrazione all’altezza”
di Giacomo Galeazzi

A 5 giorni dalla «Lettera alla città» in cui il Vicariato chiederà un cambio di classe dirigente nella capitale, ieri doppia stoccata a Ignazio Marino dalla Santa Sede. Prima il leader Cei, poi l’Osservatore Romano. Uno-due micidiale.
L’emergenza del Giubileo
Il malumore e la preoccupazione nei sacri palazzi sono diventati esplicita denuncia. Nelle ultime settimane tra le due sponde del Tevere hanno pesato le troppe incertezze sull’Anno Santo. E l’impressione del «bene comune trascurato». Vani i tentativi di Marino di ricucire con le gerarchie ecclesiastiche. «Roma ha bisogno di un’amministrazione, della guida che merita, è una città che merita moltissimo, specie in vista del Giubileo alle porte- avverte Angelo Bagnasco a Radio Vaticana-. Ci auguriamo che Roma possa procedere a testa alta e con grande efficienza». Rincara la dose l’Osservatore Romano.
«Sta assumendo contorni di farsa la vicenda legata alle dimissioni: resta il danno, anche di immagine, a una città abituata nella storia a vederne di tutti i colori, ma raramente esposta a simili vicende». E «non esiste più in aula una maggioranza disposta a sostenerlo», mentre «è confermato che Marino è indagato per peculato nella vicenda degli scontrini». Un macigno.
L’affondo dei vescovi
Per il quotidiano dei vescovi, Avvenire ritirare le dimissioni è stata «la mossa disperata e ardita di un sindaco narciso, troppo pieno di sè e rimasto senza mezza giunta: uno scenario mai visto per la capitale». E adesso sistemare mobilità e accoglienza è una corsa contro il tempo.
Da giorni il cardinale vicario Agostino Vallini getta acqua sul fuoco. «Roma sarà pronta per l’8 dicembre, sono fiducioso: c’è al lavoro il comitato di coordinamento guidato dall’arcivescovo Rino Fisichella, in contatto con comune, regione, prefettura e governo per affrontare i temi concreti che emergono», osserva Vallini. «Fisichella dice di non essere preoccupato: ci rendiamo conto della situazione, ma Roma è capace di fare miracoli». Il segretario di Stato vaticano, Pietro Parolin era intervenuto sulle dimissioni: «Non credo che mettano a rischio i lavori per il Giubileo, si può andare avanti con una certa serenità». Per la sicurezza, dicono in Curia, «il referente è il Viminale, non cambia nulla».
Distanza dal Campidoglio
Il gelo tra il comune e la Chiesa risale alla trascrizione in Campidoglio un anno fa, con tanto di cerimonia pubblica, delle nozze gay celebrate all’estero. Una distanza accentuata dalla presenza, ritenuta «inopportuna», di Marino all’incontro tra il Papa e le famiglie negli Usa. L’espressione decisa del Pontefice («Non l’ho invitato io, chiaro?») suonava già come un addio senza neanche la stretta di mano. Per rendere ancora più chiaro l’avviso di sfratto sono arrivate ieri le stoccate del capo dei vescovi e dei quotidiani della Santa Sede e della Cei. Game over.

il manifesto 31.10.15
Campidoglio
La testa del marziano col patto del Tritone
Comune sciolto con le dimissioni di 26 consiglieri, grazie all’accordo stipulato al Nazareno con l’imprenditore Alfio Marchini
L’addio di Ignazio Marino davanti ai media di mezzo mondo col discorso che avrebbe voluto tenere in consiglio comunale
di Eleonora Martini ROMA

«Ho chiesto ostinatamente di poter intervenire in Assemblea capitolina, mi è stato vietato. Chiedo ancora perché». Quando alle 18:30 Ignazio Marino si presenta davanti ai media di mezzo mondo riuniti per ascoltare le parole che non ha potuto pronunciare in Consiglio comunale, non è più sindaco di Roma da 20 minuti.
Al piano superiore di Palazzo Senatorio, dopo ore di attesa, è finalmente arrivato il ventiseiesimo consigliere che ha firmato la fine della giunta Marino permettendo così al partito renziano di bypassare l’Aula Giulio Cesare. Per avere la testa del marziano ne occorrevanno 25, di firme da protocollare, ma quella in surplus è la più importante, sugella il patto del Tritone: è di Alfio Marchini, l’uomo che permetterà al Pd di evitare il tonfo elettorale della prossima primavera e a Matteo Renzi di far nascere davvero il partito della nazione.
Marino ha deciso di affrontare da solo (in sala neppure la fedelissima Alessandra Cattoi), emozionato e teso, l’incontro con la stampa: «Auspicavo che la crisi politica che si era aperta potesse chiudersi in Aula con un dibattito chiaro e trasparente. Si è preferito andare dal notaio: segno di una politica che discute e decide fuori dalle sedi istituzionali, riducendo gli eletti a meri soggetti che ratificano decisioni prese altrove. Prendo atto che i consiglieri hanno preferito sottomettersi e dimettersi pur di evitare il confronto pubblico».
Recita il discorso che «avrei voluto tenere davanti all’Assemblea». Ringrazia cittadini, assessori e consiglieri, elenca tutti i traguardi conseguiti dalla giunta che fu di centrosinistra fino a luglio e da quel partito che «ha condiviso tutte le scelte che ora improvvisamente non vanno più bene»: assestamento del debito lasciato dalla precedente amministrazione di Alemanno, smantellamento di Parentopoli, chiusura della discarica di Malagrotta, «che forse qualcuno oggi vuole riaprire», una «nuova visione strategica della mobilità», «un nuovo assetto societario e industriale dell’Atac», il blocco al consumo del suolo, la «rigenerazione urbanistica diffusa sul territorio», la fine dello «scandalo dei residence».
Continua a elencare, Marino, fino a: «Abbiamo anche allargato — e io ne sono orgoglioso — i diritti per tutte e per tutti». È un punto importante e lui lo sottolinea, perché a nessuno sfugge la puntualità vaticana palesatasi anche ieri. E riceve l’applauso dei consiglieri di Sel e della sua lista civica, arrivati ad ascoltarlo.
L’ex sindaco spiega che era sua intenzione portare in Assemblea la notizia dell’avviso di garanzia ricevuto nell’ambito dell’inchiesta sugli “scontrini”: «Un atto dovuto da parte della procura, alla quale io credo di aver spiegato bene le mie ragioni e la mia trasparenza». Ma riunire il Consiglio era fuori dell’orizzonte renzian-orfiniano: «Quando ho ritirato le dimissioni, ne ho fatto richiesta alla presidente d’Aula, Valeria Baglio», ma si era prospettata solo «la possibilità di comunicazioni in Aula, mentre io averi voluto un vero dibattito». «Avrei accettato la sfiducia a viso aperto e avrei stretto la mano a ciascun consigliere, ma avrei anche chiesto loro di continuare a servire le istituzioni e non a servirsi delle istituzioni».
Marino riconosce di aver commesso errori, «ma l’unico chirurgo che non sbaglia è quello che non entra mai in camera operatoria», dice. E poi, l’“impolitico” attacca a testa bassa i principini della politica: «Questo partito mi ha deluso per il comportamento dei suoi dirigenti perché ha rinunciato alla democrazia tradendo ciò che ha nel suo dna. Come può un partito che si definisce democratico ridursi ad andare dal notaio? Questo vuol dire concepire la politica come qualcosa che si vende o si compra».
Era stato un notaio, infatti, convocato ieri pomeriggio nella sede dei gruppi consiliari di Via del Tritone, a preparare il testo delle dimissioni di gruppo e i documenti necessari per far firmare i 19 consiglieri dem e i sei “barellieri” pronti a sacrificare il loro mandato sull’altare dell’accordo politico stretto con Alfio Marchini, tra Palazzo Chigi e il Nazareno. A soccorrere il Pd sono arrivati due eletti nelle liste di maggioranza — Svetlana Celli della Lista civica Marino e Daniele Parrucci di Centro democratico — e quattro consiglieri di opposizione: Roberto Cantiani del Pdl, Alessandro Onorato della Lista Marchini, Ignazio Cozzoli e Francesca Barbato dei Conservatori riformisti. Oltre al “papa straniero” ma romanissimo, l’imprenditore senza partito che mette d’accordo il centrodestra alfaniano e il Pd renziano. Non un mero conteggio algebrico, ma una vera operazione politica che rinsalda il patto di maggioranza che sostiene il governo Renzi. Un motivo in più per non perdere tempo davanti agli eletti dal popolo.
Un pagina nera che ferisce l’uomo, figlio — volente o nolente — di quel Pd che ora lo ha tradito. «Quando ad accoltellarti è un familiare ti chiedi se è un gesto inconsulto o premeditato. Me lo sto chiedendo», dice. Rapporti turbolenti con Renzi? «Assolutamente no, anche perché — risponde sorridendo — nell’ultimo anno con il segretario non ha avuto alcun rapporto». Poi il sorriso si spegne: «Chi mi ha accoltellato ha 26 nomi e cognomi, e mi pare un unico mandante».

il manifesto 31.10.15
Il tempo dei podestà
La rottamazione degli elettori. La gestione dei fondi del Giubileo per allestire il nuovo blocco sociale verso le prossime elezioni
di Norma Rangeri

La giornata dei lunghi coltelli è finita nel modo in cui era prevedibile che finisse: rottamando il sindaco — ormai ex — Marino. Ma al tempo stesso a Roma è stata rottamata la democrazia perché un’ombra scura, pesante è calata ieri sulla capitale. Con un atto politico grave, e perfino grottesco, è stata colpita e affondata l’amministrazione della città che ora sarà governata da una squadra di commissari: del Giubileo, del Comune, del Pd. Qualcuno già li chiama i nuovi podestà. Con il primo podestà d’Italia che abita a palazzo Chigi.
Possiamo esprimere i giudizi politici che vogliamo — in parte negativi come abbiamo scritto ieri — su Marino, ma il modo scelto per mandarlo a casa rivela l’escalation dirigistica e centralistica che sta colpendo il paese fin dalle sue fondamenta costituzionali.
Come diciannove piccoli indiani, i consiglieri del Pd romano, a colpi di firme con notaio al seguito (che pena) e con l’aiutino di Alfio Marchini e di altri consiglieri raccattati alla spicciolata evitando gli impresentabili di Alemanno (che disastro politico), hanno sciolto il consiglio comunale. Così un partito che a Roma conta qualche migliaio di iscritti ha mandato a casa un sindaco eletto da più di seicentomila cittadini. E senza neppure l’ombra di una discussione pubblica nell’aula solenne del Campidoglio.
È un inedito nella nostra pur malconcia repubblica: non solo un esempio perfetto di azzeramento della democrazia per via burocratica, ma di schizofrenia politica con un partito che fa fuori il suo candidato per una storia di scontrini (sui quali farà chiarezza l’indagine della magistratura). Altro che riportare la crisi romana dentro l’aula Giulio Cesare.
Le firme dal notaio chiudono l’esperienza della sindacatura di Ignazio Marino come era persino difficile immaginare, e aprono la fase della grande abbuffata giubilare sotto il controllo del capo del governo, per interposto commissario. Naturalmente con la supervisione dello stato Vaticano. Non a caso, oltre all’avviso di garanzia della procura romana, la giornata ha regalato al sindaco il benservito del capo dei vescovi. Il cardinale Bagnasco ci informa di essere molto preoccupato per le sorti della capitale, dice che «Roma ha bisogno di un’amministrazione, della guida che merita specialmente in vista del Giubileo»: Bagnasco può stare tranquillo, il governo del commissario sarà di suo gradimento, lo stato italiano farà un ottimo lavoro al servizio e all’ombra del cupolone, nessun «diritto incivile» turberà la processione giubilare.
Siamo certi che Renzi sarà soddisfatto per l’esito della vicenda visto che può manovrare le briglie come più gli conviene con l’aiuto dei poteri che lo sostengono. Come segretario del Pd purifica il partito fino a togliere di mezzo i sindaci che non gli sono mai piaciuti o che non gli piacciono più. Come presidente del consiglio li sostituisce con nuovi dream-team prefettizi da gestire con il ministero degli interni. I parlamentari dissidenti li ha già epurati (è arrivato a sostituirne dieci tutti in una volta da una commissione parlamentare), ora con le prossime elezioni amministrative tocca ai primi cittadini. Dopo aver ricostruito un blocco sociale con i soldi del Giubileo per tirare a lucido la città, sarà uno scherzo chiamare al Campidoglio un candidato che nemmeno avrà bisogno del marchio ammaccato del Pd.
Ma è proprio nel suo partito che la vicenda romana rischia di trasformarsi in un boomerang, perché essere riusciti a azzerare Marino mettendo da parte i suoi principi (si chiama pur sempre partito democratico), come il rispetto delle elementari regole per l’appunto democratiche, è una vittoria di oggi che può contribuire domani ad affossare la sua storia, la sua pur sbiadita identità.
Di fronte a quanto sta avvenendo, stupisce, con qualche eccezione che conferma la regola, il silenzio/assenso della cosiddetta minoranza del Pd. Forse perché il virus dell’autodistruzione del partito l’ha contagiata. O forse perché spera di poter trarre qualche minimo vantaggio futuro. Come se Renzi e minoranza non si rendessero conto dell’emorragia di consensi che ha già colpito il Pd (come è accaduto nelle ultime elezioni regionali). Per tutto questo la prossima campagna elettorale a Roma carica di responsabilità chi pensa di costruire un fronte democratico e di sinistra largo e convincente per quei romani che non vogliono rinunciare all’esercizio del voto.

Corriere 31.10.15
Michela Di Biase, la prima a firmare: avremmo dovuto mandarlo via prima
intervista di Alessandro Capponi

ROMA Ignazio Marino, proprio ora, sta dicendo che voi consiglieri l’avete accoltellato.
«Falso, il suo è stato un suicidio».
Chiede di capire quali errori ha commesso.
«Facile, vada in strada e lo domandi ai romani, vedrà quante risposte. Autobus, pulizia, decoro: un sindaco si deve occupare di tutta la città, non solo del Colosseo. Semplicemente, non ha mai capito Roma e la città non ha mai capito lui. Gli scontrini? Non è quello il problema, semmai lo è mentire: anche a quei dirigenti Pd che l’altra sera lo avevano accolto in casa».
Michela Di Biase, 35 anni, moglie del ministro Dario Franceschini: dieci anni di impegno politico nel popoloso quartiere Alessandrino, alla periferia est di Roma. È stata la prima a firmare le dimissioni. Fu lei a definire Marino «il più grande gaffeur d’Italia». Risponde al telefono proprio mentre Marino è in conferenza stampa.
Marino dice che avete ucciso una squadra.
«Una squadra? Non ha mai fatto squadra, ha preferito dividere, chiudersi, parlare solo con pochi, nessuno dei quali romano. Non ha convolto il Consiglio, mai dialogato, ha chiuso i Fori da solo...».
Dice di essere deluso dal Pd.
«Il pd un errore può averlo commesso: forse, già da un po’, avremmo dovuto mandarlo via».
I cittadini cosa ricorderanno di Marino?
«Credo che per i romani Marino sia già il passato».
Sui social per i consiglieri Pd ci sono insulti.
«Rispetto le piazze, dietro ai social si nascondono in tanti. Noi abbiamo agito da classe dirigente, abbiamo rinunciato all’incarico e scelto per il bene della città. Ora pensiamo al Giubileo, a migliorare Roma, a ricostruire un clima di fiducia: lo meritano i romani, qui c’è solamente bisogno di buona politica. Insomma, bisogna voltare subito pagina...».

Corriere 31.10.15
L’esito finale di scelte pasticciate
Roma e il caso Marino, dalle primarie al notaio: fallimento da non ripetere
di Sergio Rizzo
qui
http://www.corriere.it/opinioni/15_ottobre_31/roma-primarie-notaio-pd-marino-sindaco-889ab196-7f97-11e5-8b57-f1b8d18d1f0e.shtml

Il Sole 31.10.15
Il premier tenta l'effetto Expo
di Lina Palmerini
qui
http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2015-10-31/il-premier-tenta-effetto-expo-100346.shtml?uuid=ACuH00QB

La Stampa 31.10.15
Marino ora guarda a sinistra di Renzi: solo lì può trovare sponde per un futuro politico
Dopo la decadenza si parla già di una ricandidatura. L’ex sindaco non esclude l’ipotesi
di Francesco Maesano
qui
http://www.lastampa.it/2015/10/30/italia/politica/marino-ora-guarda-a-sinistra-di-renzi-solo-l-pu-trovare-sponde-per-un-futuro-politico-hFUyOay3ZQetac1NDjgAMN/pagina.html

La Stampa 31.10.15
Se la politica si maschera da antipolitica
di Giovanni Orsina
qui
http://www.lastampa.it/2015/10/31/cultura/opinioni/editoriali/se-la-politica-si-maschera-da-antipolitica-8e8qcqnaD0wHPNdGpACkwK/pagina.html

La Stampa 31.10.15
La scommessa romana del premier e il rischio della vendetta
di Marcello Sorgi
qui
http://www.lastampa.it/2015/10/31/cultura/opinioni/editoriali/la-scommessa-romana-del-premier-u5FoHRPRa5EC6FkfTIq5XI/pagina.html

Repubblica 31.10.15
Roma,l’anno zero della sinistra
di Stefano Folli

NELL’EPILOGO amaro della vicenda Marino il vulnus alla democrazia c’entra poco o nulla. Non abbiamo assistito a un golpe contro il sindaco che si dipinge novello Allende, dopo essere stato Che Guevara tre giorni prima. La realtà è meno eroica: Marino esce di scena per la sua incompetenza e i suoi reiterati errori. Di sicuro il Pd, sballottato e confuso, non è in grado di organizzare colpi di Stato.
NON È nemmeno sicuro che a Roma riesca a sopravvivere all’attuale sfacelo. Quindi nelle parole dell’ex sindaco il richiamo virtuoso ma retorico alle regole della democrazia assomiglia all’appello ai valori patriottici fatto da certi personaggi della storia finiti in un vicolo cieco, ormai a corto di altri argomenti.
Risulta chiaro, infatti, che il primo a evitare l’aula consiliare nelle lunghe settimane della crisi è stato l’ex sindaco, che ne avrebbe avuto tutte le opportunità. Viceversa, il desiderio tardivo di un dibattito chiarificatore è stato piuttosto l’estremo tentativo di guadagnare tempo e di gettare altro fango sul Pd. Che si sarebbe trovato di fronte alla drammatica alternativa: votare le mozioni di sfiducia insieme alle opposizioni, specie quella di destra, oppure piegarsi e rimettere sul trono Marino. In un caso come nell’altro la definitiva mortificazione pubblica del partito renziano era assicurata e con essa la vendetta del sindaco.
L’espediente delle dimissioni dei 26 è in sé desolante ed esprime tutto il vuoto politico in cui annaspa il centrosinistra romano. Ma giunti agli ultimi cento metri della corsa sarebbe stato peggio accettare il percorso indicato da Marino, finendo per pagare un prezzo politico persino superiore a quello che il Pd sta già pagando. Adesso invece il dado è tratto e comincia un’altra storia, in cui le incognite e le difficoltà sono senz’altro ancora più insondabili e gravose. In effetti la rimozione del sindaco costituiva, sì, una pagina senza precedenti, ma chiara nella sua dinamica. Di conseguenza, le polemiche sollevate rientravano nella prevedibilità dello scontro di potere. Adesso è tutta un’altra vicenda. Non si tratta solo di dimenticare Marino — sarebbe il meno — bensì di restituire alla città disastrata un senso, un’identità. E di farlo rispettando le scadenze e gli impegni del Giubileo alle porte. In un certo senso, Roma è all’anno zero, come la Germania di Rossellini, e non basta certo il trionfalismo dell’ex sindaco per cambiare le carte in tavola.
I fatti dicono che chiunque voglia ricostruire il centrosinistra, e provare a impedire che in Campidoglio si accomodi fra pochi mesi un sindaco a cinque stelle, ha bisogno di condizioni eccezionali che al momento non ci sono. Quelle che si vedono sono solo le macerie nel campo del Pd, dove nessuno è innocente e tutti d’ora in poi dovranno rimboccarsi le maniche. Lo stesso Renzi, che fin qui si è defilato, adesso è atteso a una prova non banale di leadership. Anche perché le decisioni dovranno essere in linea con la gravità della crisi, che non riguarda solo un sindaco inadeguato, ma investe la mancanza di credibilità di una classe dirigente locale. Ammesso che quando si parla della capitale d’Italia il termine “ locale” non sia riduttivo.
Renzi — e non altri — è chiamato a compiere scelte senza precedenti, rese tali dai colpevoli ritardi con cui egli stesso ha affrontato il caso Marino. È evidente che la prima mossa dovrà essere la nomina di un commissario inappuntabile, probabilmente un prefetto al di sopra delle parti. Ma subito dopo si porrà il problema di individuare il nome del candidato sindaco da far ratificare poi attraverso le “primarie”, l’istituto che fin qui non ha dato una splendida prova di sé. L’unica decisione che renderebbe competitiva la corsa elettorale e metterebbe in qualche difficoltà i Cinque Stelle è l’abbandono delle sigle partitiche. Il candidato renziano al Campidoglio dovrebbe porsi alla testa di una lista di convergenza civica in cui si sono fuse le vecchie sigle del centrosinistra, al termine di un sentiero purificatore capace di eliminare tutti i maneggioni e i profittatori della politica. Forse non è ancora troppo tardi.

Repubblica 31.10.15
Matteo Orfini
“Ho fatto degli errori e non so se resterò mai litigato col premier”
intervista di Tommaso Ciriaco

ROMA «Il balletto di Marino è stato da irresponsabili. “ Mi dimetto, anzi no, anzi sì”: neanche in una sit com...». Matteo Orfini è stravolto. «Ma ho dormito, la notte scorsa. Sa, non sono un tipo ansioso». Da commissario del Pd romano ha attraversato l’inferno. E la sua poltrona ha traballato.
Traballa ancora, Orfini? Di fronte allo stallo ha offerto le dimissioni da commissario?
«Non c’è stato alcuno stallo».
Sette ore in una stanza con mezzo consiglio comunale...
«Cercavamo solo le 26 firme».
Quindi va avanti?
«Sarei il più felice del mondo se potessi occuparmi del mio lavoro precedente, ma mi è stato chiesto di andare avanti. Comunque la scelta che non spetta a me, ma a Renzi e alla direzione Pd».
In ogni caso per quanto le riguarda continua?
«Continuerò a lavorare per il risanamento del Pd e di Roma».
Dia un voto alla sua gestione.
«Non spetta a me. Ho guardato all’interesse dei romani, non al mio. Le ho provate tutte, ma non sono riuscito a evitare gli errori di Marino. Ecco, questo è stato un mio limite».
Per Roma ha litigato con Renzi. Il premier non l’ha difesa.
«Non ho litigato. Chiedeteglielo, confermerà. Mi ha scelto come commissario. Ho agito in piena autonomia. Sono un dirigente politico, ogni responsabilità è mia e non ho bisogno che se le assumano altri».
Non ha tenuto Marino in sella, a dispetto del premier?
«Da romano amo questa città. Il ruolo di commissario può solo danneggiarmi, ma come potevo non dare una mano? Per qualcuno ho voluto sostenere Marino troppo a lungo, per altri troppo poco... È come un rapporto di coppia: quando non funziona, ci provi per i figli. Poi magari capisci che non puoi andare avanti. Quanto al governo, ha messo a disposizione il meglio per Roma».
Renzi non voleva chiudere la partita a luglio?
«Renzi ha sempre chiesto a Marino un salto di qualità. Ho provato a farglielo fare, ma è stato inutile a causa degli errori del sindaco e a una serie di bugie».
Lo descrive come un bugiardo seriale, Orfini?
«Diciamo che dal momento di difficoltà più critica in poi le bugie si sono moltiplicate, sì. Uno strumento di difesa psicologica comprensibile, ma politicamente inaccettabile. Quando si fallisce, ognuno ha un pezzo di responsabilità».
E avete fatto una brutta figura mondiale, non le pare?
«Guardi che il balletto l’ha fatto Marino. Il commissariamento risale a un anno fa, con Mafia capitale. C’erano circoli infeudati da capibastone che guerreggiavano tra loro. Abbiamo salvato Roma dallo scioglimento per mafia. Ma chi è affezionato a un Pd di caminetti oggi è arrabbiato».
Vuole dire che la sinistra Pd preferiva un partito opaco? «Dico che mi amareggia chi utilizza Roma per uno scontro interno. Chi ha gestito il partito e non si è accorto di nulla, chi poteva intervenire e non l‘ha fatto».
Marino dice: avete sfuggito il confronto in Aula.
«Falso. Gli abbiamo proposto di andare in Aula, a patto di non ritirare prima le dimissioni. Ma niente, voleva azzerare il timer».
E voi a trattare con i consiglieri d’opposizione, vero?
«Sciocchezze, non abbiamo promesso nulla. Anzi, i consiglieri del Pd hanno dimostrato di non essere attaccati alla poltrona, a differenza di Marino che li accusa in modo indecente. Voglio ringraziare i nostri eletti».
Se vuole può ringraziare anche Marchini e i fittiani.
«No, perché la scelta determinante è stata quella del Pd».
Ma che interesse avevano ad agevolarvi?
«Non so, è stato un fatto tecnico. Conta il coraggio del Pd».
Per Marino c’è un mandante: Renzi. E 26 “accoltellatori”.
«Non ha senso cercare a Palazzo Chigi le ragioni della sconfitta: quella di Marino è una narrazione autoassolutoria».
Si candiderà contro il Pd?
« Farà le sue scelte. A noi spetta costruire una proposta vincente».
Sel vi ha lasciati soli. Conseguenza in vista del voto?
«Sel ha cambiato posizione tre volte al giorno, ma penso che si debba correre assieme».

La Stampa 31.10.15
Roma
Il M5S può sfondare
Marchini scalpita a destra
di Ugo Magri

Se nella Capitale si votasse domani, il candidato di Renzi verrebbe eliminato al primo turno. È una previsione su cui i sondaggisti concordano. Però le elezioni si terranno tra sei mesi. Il Campidoglio nel frattempo è stato commissariato e dall’8 dicembre in poi l’attenzione si concentrerà tutta sul Giubileo. Se il neo commissario Tronca si rivelerà in gamba, capace di accogliere i pellegrini senza penalizzare troppo i romani, è possibile che Marino finisca nel dimenticatoio. A quel punto Renzi sarà in grado di estrarre dal cilindro una candidatura di spessore che, se fosse proposta adesso, verrebbe accolta tra le risate. Insomma: la strategia del premier, l’unica possibile, consiste nel guadagnare tempo. A meno che non abbia ragione Marino, il quale sospetta un piano diabolico di Renzi: far vincere a Roma un grillino per dimostrare che i Cinque stelle non sanno governare... Sono patemi che non sfiorano il M5S. La consultazione della base si svolgerà ai primi di gennaio, e la corsa per il Campidoglio pare limitata a uno dei 4 consiglieri comunali uscenti, con qualche chance in più per De Vito e la Raggi. Di Battista farebbe scintille, ma per lui ci vorrebbe una deroga speciale in quanto è già deputato. Chiunque venga messo in campo da Grillo avrà la semi-certezza di arrivare al ballottaggio.
E la destra? Berlusconi punta forte su Marchini, figura indipendente che guida una lista civica. L’uomo ci starebbe, tra loro i contatti sono diretti e frequenti. Ma sussistono un paio di difficoltà. La prima si chiama Meloni, leader dei Fratelli d’Italia, che nutre ambizioni in proprio, però è incerta se correre o meno il rischio di una brutta figura e comunque vuole tagliare la strada a Marchini (secondo lei troppo di sinistra). L’altro ostacolo è di quelli quasi insuperabili perché confligge con la natura espansiva del Cav, con la sua incapacità di trattenersi: Alfio teme l’«abbraccio mortale» di Berlusconi. Se Silvio lo appoggia con troppa foga, Marchini è perduto.

Corriere 31.10.15
Grillo scommette sulla vittoria. E spunta il nome di Imposimato
Il leader punge il Pd sulla data del voto. Ma i tempi per la scelta del candidato, aperta alla società civile, saranno dilatati
di Emanuele Buzzi

MILANO Un candidato per vincere: il messaggio è chiaro, ma la strada è ancora lunga. E le suggestioni sono diverse. La partita dei Cinque Stelle per il Campidoglio sta per aprirsi. Il blitz romano di Gianroberto Casaleggio e il successivo summit dello stratega con Beppe Grillo sono serviti per mettere a punto la strategia. Anzitutto, nessuna ansia. I tempi di selezione saranno dilatati. «Il confronto sarà allargato quanto più possibile: non solo gli attivisti duri e puri, ma anche altre facce», dicono nel Movimento. Tradotto: gli incontri con gli attivisti per selezionare il candidato sindaco avranno più fasi e difficilmente si concluderanno, come previsto inizialmente, entro dicembre.
L’altro punto fermo è che non ci sarà nessun homo novus in lizza: «Il candidato sarà scelto tra chi fa parte del Movimento», spiegano esponenti pentastellati. Ma le maglie saranno molto più larghe. Un modo per attrarre le attenzioni (e i voti) anche della cosiddetta società civile, verso cui ci sarebbero spiragli e aperture. C’è chi si lascia sfuggire anche qualche indizio sull’identikit del possibile candidato: «Una figura di alto profilo, forse un avvocato o un giudice, che sia apprezzato dalla base, non abbia problemi a superare delle selezioni e offra una immagine di garanzia e solidità». L’identikit è quello di Ferdinando Imposimato, vincitore delle «Quirinarie», spesso in prima fila nelle battaglie dei Cinque Stelle. La scelta, però, non è così scontata, le sensibilità all’interno della galassia M5S sono molteplici: non è ancora tramontata l’ipotesi di indicare la consigliera uscente Virginia Raggi e non è neppure esclusa una «sorpresa» da svelare al momento dei primi incontri tra meet up.
Intanto, sui social network e sul blog, Grillo dà il via alla campagna elettorale. Prima posta l’immagine di un sondaggio che dà i Cinque Stelle al 33% a Roma, poi — in un intervento successivo — punge: «Una domanda per il Pd: quando si vota a Roma?». Il tema Comuni e comunali rimane preponderante: Roberto Fico annuncia via Facebook che il comune di Quarto, il primo amministrato dal M5S in Campania, uscirà dall’Anci, l’associazione nazionale comuni italiani. Il deputato campano — spiegando le motivazioni della scelta — punta l’indice sulla «reale convenienza e opportunità di restare a far parte di un’associazione che dal 2011, cioè dopo l’accordo concluso dalla precedente giunta, a Quarto non ha prodotto alcun progetto utile, alcun servizio e alcun ritorno economico tangibile per la comunità». Altri enti guidati dai pentastellati sarebbero in procinto di seguire le orme di Quarto. Non tutti però. Alcuni, come Parma, sono propensi a rimanere all’interno dell’Anci. Intanto, sul fronte sindaci, si continua a lavorare per il summit degli amministratori locali saltato in estate e rimandato, e poi rinviato ancora, alla kermesse di Imola. Al confronto prenderà parte Luigi Di Maio, che ha il ruolo di referente per gli enti locali ed è in realtà il «mediatore» tra le diverse anime. L’appuntamento dovrebbe tenersi a Roma, la data ipotizzata al momento è quella del 12 dicembre.

Corriere 31.10.15
Pd
La sinistra chiede il congresso. Il leader: penso a cose serie
Beatrice Lorenzin candidata a Roma con il sostegno dem? No Matteo Orfini
63,9 la percentuale di voti ottenuta da Ignazio Marino al ballottaggio alle Comunali contro Gianni Alemanno nel giugno 2013
Il segretario lascia a Orfini la gestione della difficile partita delle urne
di Maria Teresa Meli

ROMA «Quando si ricoprono certi ruoli è necessario essere leali e responsabili, comunque, per quanto mi riguarda, il capitolo Marino è archiviato, se lui se ne vuole andare spargendo fango, faccia pure, io mi occupo di cose serie»: Matteo Renzi non ne può più di questa vicenda romana e vuole porre fine a tutta questa storia.
Ma è ovvio che gli strascichi della polemica sul sindaco dimissionato non si sopiranno nel giro di ventiquattr’ore. Sul campo restano molte macerie e più di un ferito. Il commissario Matteo Orfini, che è riuscito alla fine a ottenere le dimissioni di 26 consiglieri comunali, per il momento resta al suo posto. Sarà lui a gestire il Pd romano di qui alle elezioni. Il che significa che farà (insieme al segretario, ovvio) le liste per le amministrative. Ma vuol dire anche, come sottolineava qualche renziano capitolino, che se il Partito democratico andrà male alle elezioni, ci sarà un capro espiatorio da mettere sul banco degli imputati.
Insomma, ancora una volta Orfini deve affrontare una missione quasi impossibile. Ma il premier su questo è stato chiaro più volte. Lui della Roma politica non si vuole occupare. «Ci sono delle situazioni che fanno veramente schifo», ha confidato ai collaboratori.
Renzi è invece pronto a mandare in porto «nel migliore dei modi» l’operazione Giubileo. Per farla breve, lui intende mettere la faccia sul tentativo di ricostruzione della Capitale, con il commissario, il dream team e il prefetto Gabrielli. Mentre si tiene rigorosamente lontano dalle beghe del partito capitolino, che è dilaniato. E diviso.
Una fetta del Pd romano vorrebbe infatti le dimissioni di Orfini da commissario, accusandolo di aver gestito al peggio tutta la «vicenda Marino».
Ma il presidente «democrat», come si è detto, resta al suo posto per volere di Renzi. Il quale continua ostinatamente a non seguire i consigli di chi, anche tra i suoi, lo invita a metter mano al partito, non solo nella Capitale. Già, perché ormai, soprattutto in alcune aree del Paese, il Pd fa fatica a tenere il passo del suo segretario. Quello che spinge il premier a non occuparsi del Pd, a non farne una formazione politica più strutturata, come chiedono in diversi, è la sua idea di «partito non liquido, ma liquidissimo», come ebbe a dire una volta, scherzando, ma non troppo.
Per Renzi il Pd è incarnato dai suoi amministratori locali, dai governanti, dagli elettori, da quanti andranno a formare i «comitati del sì» al referendum consultivo sulla riforma costituzionale. È chiaro che se questa è la sua visione, finirà sempre per scontrarsi con quella, diametralmente opposta, della minoranza.
Minoranza che, proprio dagli accadimenti romani, trae spunto per una nuova battaglia contro il leader. Adesso, la richiesta degli oppositori interni di Renzi è quella di un congresso nazionale straordinario. Infatti, si imputa al premier e non solo a Orfini, la decisione di coinvolgere anche consiglieri che provengono dal centrodestra per riuscire a defenestrare Marino.
«Renzi — spiega il bersaniano Nico Stumpo — ha vinto il congresso scorso sulla base di questo slogan: “Mai più con la destra”. Evidentemente per lui le cose sono cambiate, ora pensa al Partito della Nazione, vuole fare del Partito democratico un enorme Udeur e allora bisogna tornare alle assise nazionali. Saremo noi a impugnare il suo slogan “mai più con la destra”». Dunque, si profilano nuove tensioni nel Pd, dopo la caduta di Marino. Il presidente del Consiglio, però, fa mostra di non impensierirsene troppo: «Io mi occupo di cose serie, concrete», è il suo ormai abituale ritornello.

Repubblica 31.10.15
Napolitano: "Io e il Pci di Berlinguer, quel sogno riformista oggi parli a tutta la società"
Il presidente emerito della Repubblica sul ruolo del leader comunista, le sfide a sinistra e il 'partito della nazione'. "Inutile avere un dna sbiadito"
intervista di Simonetta Fiori
qui
http://www.repubblica.it/politica/2015/10/31/news/giorgio_napolitano_il_presidente_emerito_della_repubblica_sul_ruolo_del_leader_comunista_le_sfide_a_sinistra_e_il_part-126285613/?ref=HREC1-6

Corriere 31.10.15
De Luca e le scuse mancate a Bindi
Come un guappo di cartone che prima mostra il petto e poi si eclissa, ieri Vincenzo De Luca non ha chiesto scusa alla Bindi, benché a chiederglielo fosse stata la ministra Boschi, ma ha negato le allusioni che tutti, ma proprio tutti, avevamo colto nelle sue recenti esternazioni. Nello studio di Lilly Gruber, De Luca aveva detto due cose: che la Bindi doveva dolersi «della sua stessa esistenza»; e che era «impresentabile da tutti i punti di vista». Ora, impettito come Crozza, ha spiegato che di esistenza politica parlava. Ci mancherebbe! E che i punti di vista, anche quelli, erano da intendersi politicamente. Il tutto condito con l’ennesima tirata, anche ieri, contro «la teatralità e il fariseismo che spesso in Italia si accoppiano». Facile, a questo punto, prevedere le prossime mosse. Miguel Gotor, il parlamentare Pd che lo ha accusato di volgarità? «Credevo fosse un tanguero», ha detto compiaciuto De Luca. Sarcasmo caricaturale, si dirà. Macché. Semmai un complimento. Vuoi mettere con Mussolini che tacciava i parlamentari socialisti di «impotenza senile con fenomeni di atassia locomotrice?».
Post Scriptum: sia chiaro, «guappo» qui è inteso nel senso di gentiluomo, di eroe romantico.

Il Sole 31.10.15
Mario Draghi
L’intervista a metà mandatoINTERVISTA. a metÀ mandato
Il Presidente della Bce indica le priorità e rivendica: il rischio di frammentazione dell’Eurozona è quasi sparito
“In quattro anni è cambiato tutto”
Draghi: faremo tutto il necessario per centrare il nostro obiettivo di inflazione a medio termine
intervista di Roberto Napoletano e Alessandro Merli

Ricorda il novembre del 2011, presidente Draghi? I tassi alle stelle, nessuno al mondo vuole comprare un titolo Italia, i Bot a sei mesi scambiati sul secondario all’8% con quelli a dieci anni sopra il 7. Che cosa le viene in mente, oggi? «Che è cambiato tutto, proprio tutto», risposta secca. In quei giorni, Mario Draghi diventa presidente della Banca centrale europea. Il Sole 24 Ore titola “Fate Presto” a caratteri cubitali, perché sono a rischio il risparmio e il lavoro degli italiani. Se oggi quel risparmio è salvo e i tassi d’interesse sono scesi verticalmente, a volte sotto zero, il merito è della Bce.
«Faremo tutto il necessario», ripete oggi Mario Draghi. Una frase che i mercati finanziari di tutto il mondo hanno imparato a rispettare. Lo disse tre anni fa, quando l’unione monetaria rischiava di saltare. Lo riafferma ora, in una lunga intervista con Il Sole 24 Ore - la prima a un giornale italiano dal suo arrivo alla presidenza della Banca centrale europea, quattro anni domani - per ribadire che la Bce prenderà tutte le azioni necessarie per portare l’inflazione vicino al 2% e favorire così la ripresa ancora fragile. Farà la sua parte e la farà fino in fondo, continuerà a ridurre il prezzo da pagare per le riforme che cambiano in profondità, non quelle di facciata. Saranno le riforme buone, poi, a rendere la ripresa da ciclica a strutturale e sono tutte nelle mani degli esecutivi nazionali.
Presidente Draghi, la settimana scorsa a Malta ha sottolineato i rischi al ribasso sia per la crescita sia per l’inflazione e in particolare ha insistito sugli sviluppi nei mercati emergenti. Anche negli Stati Uniti gli ultimi dati mostrano una crescita in netta frenata. Può quantificare i rischi per la crescita nell’eurozona?
Indubbiamente, le condizioni delle economie nel resto del mondo si sono rivelate più deboli rispetto a pochi mesi fa, in particolare nei mercati emergenti, con l’eccezione dell’India. Le previsioni di crescita mondiale sono state riviste al ribasso. Probabilmente il rallentamento non è transitorio. Per dare un’idea di quanto sono importanti questi mercati, ricordo che essi valgono il 60% del prodotto mondiale e che dal 2000 tre quarti della crescita mondiale sono dovuti a loro. La metà delle esportazioni dell’area euro va in questi mercati. Sicuramente vi sono dunque rischi al ribasso, sia per la crescita sia per l’inflazione, anche per il possibile rallentamento degli Stati Uniti, di cui bisogna capir bene le cause. La crisi ha causato un forte ribasso del reddito. Rialzarlo dipende da noi. Ciò richiede che si realizzino le riforme strutturali necessarie per aumentare la partecipazione della forza lavoro e la produttività. Nell’area dell’euro ci sono ancora almeno 20 milioni di disoccupati, molti di loro giovani, che occorre riportare nel mercato del lavoro. È un potenziale enorme.
A Malta si è detto anche «meno ottimista» per quanto riguarda le prospettive di inflazione. In base agli ultimi dati, il profilo dell'inflazione partirà da un punto più basso da quello che ci si aspettava anche solo a settembre, come si vedrà dalle vostre proiezioni macroeconomiche di dicembre. È ancora realistico a questo punto parlare di inflazione all’1,7% a fine 2017?
Farei una distinzione tra le previsioni del prossimo periodo e quelle di medio-lungo termine. Per quanto riguarda i prossimi mesi, il fattore che conta di più sarà il prezzo dei prodotti energetici. Prevediamo che l’inflazione resti vicino allo zero, anche negativa, almeno fino all’inizio del 2016. Dopo, l’effetto del forte declino dei prezzi del petrolio che si è avuto tra la fine del 2014 e la fine di quest’anno scomparirà dalla variazione dell’indice dei prezzi a distanza di un anno. Ciò porterà a un aumento puramente meccanico dell’inflazione.
Che cosa avverrà a medio termine?
A partire da metà del prossimo anno fino a tutto il 2017, grazie anche all’effetto ritardato del deprezzamento del cambio, prevediamo che l’inflazione aumenti gradualmente. Ma ciò che è importante osservare oggi è che già con le previsioni di settembre abbiamo ribassato le nostre aspettative di inflazione per il 2017 rispetto a quanto ci attendevamo a marzo quando abbiamo iniziato gli acquisti di 60 miliardi di euro di titoli pubblici ogni mese. Ci vorrà quindi più tempo di quanto previsto a marzo per tornare alla stabilità dei prezzi. Una buona notizia ci viene dalle aspettative di inflazione di medio termine che, dopo essere scese a settembre, sono oggi tornate a un livello superiore all’1,7%, non lontano dal nostro obiettivo di inflazione. Queste cifre vanno comunque prese con cautela perché queste aspettative hanno sempre mostrato una certa volatilità.
Lei ha sempre detto che questo risultato dipende dalla completa attuazione della vostra politica monetaria e ha aggiunto, in varie occasioni, che c’è una flessibilità nel vostro programma di acquisto di titoli per quello che riguarda dimensioni, durata e composizione. Ha detto anche «il 3 dicembre riesamineremo questi aspetti». I mercati hanno acquisito questa data come il giorno decisivo per la decisione della Bce. È un’interpretazione giusta? Avete cominciato a considerare i meriti relativi di queste tre opzioni, che possono avere effetti diversi? Pensate di utilizzarle contemporaneamente?
Se ci convinciamo che il nostro obiettivo di inflazione a medio termine è a rischio, intraprenderemo tutte le azioni necessarie. Stiamo intanto valutando se il cambiamento nello scenario sottostante è transitorio o meno. Dopo la riunione di Malta, abbiamo inoltre chiesto a tutti i comitati competenti e allo staff della Bce di preparare per la riunione di dicembre delle analisi sull’efficacia relativa delle varie opzioni disponibili. Su queste basi decideremo. Vedremo se un ulteriore stimolo è necessario. La questione è aperta. I programmi che abbiamo costruito hanno tutti la caratteristica di poter essere utilizzati con la necessaria flessibilità.
Per la prima volta però lei ha anche fatto riferimento alla possibile riduzione del tasso dei depositi delle banche presso la Bce e ha detto che «le cose sono cambiate» da quando avevate detto che -0,20% è il limite minimo. Vuole spiegare che cosa è cambiato?
Le circostanze sulla base delle quali fu presa la decisione di abbassare il tasso al livello attuale erano proprie di un quadro macroeconomico che è ormai mutato. Sono cambiati il prezzo del petrolio e il tasso di cambio, direi che è cambiata la situazione economica globale. Il tasso d’interesse sui depositi può tornare ad essere uno degli strumenti da utilizzare. Abbiamo ora in proposito un anno in più di esperienza. Abbiamo visto che i mercati monetari si sono adattati in maniera assolutamente tranquilla, fluida, al nuovo tasso d’interesse deciso un anno fa; altri Paesi hanno portato il tasso a livelli negativi, assai più negativi del nostro. Il livello minimo del tasso d’interesse sui depositi è un vincolo tecnico e come tale può essere cambiato quando le circostanze mutano. Il principale test della credibilità di una banca centrale è – l’ho detto altre volte - la capacità di raggiungere i propri obiettivi, non riguarda gli strumenti.
Vede il taglio del tasso sui depositi come uno strumento che può essere utilizzato contemporaneamente alle modifiche del Qe?
Direi che è prematuro fare questa valutazione.
Sempre a Malta, ha parlato anche di «altri strumenti di politica monetaria». Che cosa aveva in mente?
Sarebbe oggi prematuro limitare il menù di strumenti oggetto di analisi da parte dei comitati competenti e dello staff della Bce. Il menu già disponibile è comunque imponente, basti pensare a quello che è stato fatto negli ultimi tre anni. È però prematuro dire che in ogni caso “il catalogo è questo” e che non vi sia altro.
Alla luce dei risultati ottenuti, pensa oggi che vi siate mossi troppo tardi con il Qe?
Io direi che complessivamente il consiglio si è mosso sulla base delle informazioni via via disponibili. Per quanto riguarda il disegno delle politiche, la marcia verso il Qe comincia con un discorso di Parigi a Sciences Po nel marzo 2014, continua con il discorso di Amsterdam dell’aprile dello stesso anno e si completa a Jackson Hole in agosto. In particolare, ad Amsterdam, si afferma che in presenza di un sostanziale deterioramento del quadro macroeconomico sulle prospettive d’inflazione a medio termine, l’acquisto di titoli pubblici può essere giustificato. Man mano che si sono verificate queste condizioni, abbiamo agito coerentemente con quel piano.
Ma con ritardo, o no?
Nell’insieme non direi che abbiamo agito con ritardo: abbiamo tenuto conto delle informazioni che si rendevano disponibili e contestualmente predisposto il quadro concettuale che ha condotto a quelle decisioni. Si tenga anche conto che nel caso dell’Unione monetaria le decisioni erano rese ancora più complesse perché bisognava valutare l’importanza relativa, per il calo dell’inflazione, dei riaggiustamenti di carattere strutturale nei Paesi che più necessitavano di ritrovare competitività, della caduta del prezzo del petrolio, e del vigoroso apprezzamento del tasso di cambio nel corso del 2013. Direi, in sintesi, che ciò che emerge da questa esperienza è che il framework di politica monetaria, reattivo fino alla fine del 2012, diventa proattivo con i discorsi cui ho accennato.
Lei ha parlato prima di quadro macroeconomico globale che cambia. Il vicepresidente della Federal Reserve, Stanley Fischer, ha detto che la Fed tiene oggi molto più conto di fattori internazionali di quanto non facesse fino a qualche anno fa. Questo è vero anche della Bce? E il ritardo nell’avviare il rialzo dei tassi da parte della Fed influenza in qualche modo le vostre decisioni, pur tenendo conto che il cambio non è un policy target?
Come dicevo, le circostanze esterne, le ipotesi sottostanti le nostre previsioni, contano perché influenzano le aspettative d’inflazione, dunque il profilo del ritorno verso la stabilità dei prezzi e del tasso di crescita. Fa parte del set informativo che noi, come gli altri policy maker, utilizziamo per prendere le nostre decisioni. Per quanto riguarda la Fed, no, non c’è un legame diretto tra quello che facciamo noi e quello che fanno loro. Entrambe le banche centrali hanno un loro mandato definito nella giurisdizione nella quale operano, quindi loro negli Stati Uniti e noi nell’Eurozona.
A Lima, Presidente, ha detto che i Paesi ad alto debito devono essere preparati per il giorno in cui subiranno l'impatto di rendimenti più alti. Al tempo stesso, tali Paesi soffrono però anche del fatto che l'inflazione è molto bassa e complica il rientro dal debito. Non è questo un rischio ancora più grave? In Europa il rialzo dei rendimenti non è imminente, mentre l'inflazione troppo bassa già si fa sentire.
L’inflazione bassa ha due effetti. Il primo è negativo perché rende più difficile la riduzione del debito. Il secondo è positivo perché abbassa i tassi di interesse sul debito stesso. Il sentiero su cui deve muoversi la politica fiscale è stretto, ma è l’unico disponibile: da un lato assicurare la sostenibilità del debito, dall’altro sostenere la crescita. Se i risparmi in conto interessi vengono utilizzati per la spesa corrente, aumenta il rischio che il debito torni a essere insostenibile quando i tassi d’interesse aumenteranno. È l’ideale se invece vengono spesi per investimenti pubblici il cui tasso di rendimento è tale da ripagare gli interessi quando questi cresceranno. Si sostiene la crescita oggi, ma non si destabilizzano i conti pubblici futuri quando i tassi saranno più alti. Ovviamente non è semplice, perché - come sappiamo - non sono tanti gli investimenti pubblici con un tasso di rendimento elevato.
Proprio in materia di politica fiscale, c’è molta discussione in Europa a livello politico. Lei è stato uno dei primi a usare l’espressione fiscal compact nel dibattito europeo. Ritiene adesso, guardando indietro, che il grado di restrizione dei bilanci nell’Eurozona è stato troppo forte dopo la crisi, insomma c’è stato un eccesso di austerità che ha rallentato la ripresa nell’Eurozona?
Innanzitutto, ci sono Paesi che non hanno spazio per un’espansione di bilancio, in base alle regole che ci siamo dati. In secondo luogo, dove ciò è possibile, il bilancio deve poter espandersi senza pregiudicare la sostenibilità del debito. I Paesi ad alto debito hanno meno margini per fare questo. Ma lo spazio fiscale non è un dato di natura, si può ampliare, anche un Paese ad alto debito lo può fare. Come? Realizzando le riforme strutturali che fanno crescere il prodotto potenziale, il tasso di partecipazione, la produttività, tutti fattori che aumentano sostanzialmente il potenziale per le future entrate fiscali. Aumentando permanentemente il gettito si accrescono le possibilità di rimborso del debito domani e nello stesso tempo si creano le condizioni per un’espansione del bilancio oggi. Le riforme strutturali non sono popolari, perché implicano un prezzo oggi per benefici che si materializzeranno in futuro, ma se l’impegno del governo è reale e le riforme sono credibili, i benefici si materializzano più rapidamente, e tra questi c’è anche lo spazio fiscale.
Quale è stato l’impatto della vostra politica monetaria sull'Italia, in particolare sul credito e quindi indirettamente sulla ripresa che finalmente sta arrivando?
L’impatto della politica monetaria della Bce è chiaramente visibile nel costo dei prestiti bancari alle imprese e alle famiglie. Dall’annuncio delle misure di espansione creditizia del giugno 2014, in base ad un indice composito che misura il costo dei prestiti, questo è diminuito di 120 punti base per le imprese e di 80 punti base per le famiglie. Lo spread sovrano sui titoli decennali tra Italia e Germania, è sceso da 160 punti base all’inizio del giugno 2014 – per non parlare dei 600-700 punti base del 2012 - a circa 100 oggi. Il tasso d’interesse sui titoli a 2 anni italiani è vicino a zero, era superiore al 5 percento. Anche lo spread tra i mutui di oltre 1 milione di euro e quelli di piccola dimensione, fino a 250.000 euro, è diminuito. Effetti positivi si sono avuti anche sui volumi di credito. La nostra Bank Lending Survey mostra analoghi andamenti. Nell’insieme, l’attitudine delle banche italiane nei confronti dell’erogazione del credito è cambiata, è più aperta, e continua a migliorare.
In Italia è iniziata la ripresa. Lei ha auspicato che questa ripresa «da ciclica diventi strutturale» attraverso le riforme. Ci sono aree, per quanto riguarda l’Italia, di maggiore urgenza d'intervento da parte del Governo?
Queste sono scelte politiche, che vanno lasciate completamente nelle mani dei governi. Il menu delle riforme strutturali è ben noto. Ne ho parlato in molti discorsi in passato. Le scelte sono poi nelle mani dell’autorità politica eletta dai cittadini. Ma non credo che ci sia disaccordo sulla necessità delle riforme.
Domani compie quattro anni dal suo insediamento alla presidenza della Bce. È il momento di fare una riflessione su un periodo denso di avvenimenti. Cominciato con un taglio dei tassi alla prima riunione di consiglio da lei presieduta.
E un altro alla seconda!
Poi con il lancio delle Ltro per finanziare le banche e tutta una serie di decisioni senza precedenti. Quali sono stati i momenti cruciali di questo quadriennio?
Certamente sono stati anni abbastanza densi, che hanno visto cambiamenti profondi nella struttura della politica monetaria. In questi anni è stata introdotta una varietà di nuovi strumenti in una situazione che era essa stessa straordinaria. A parte i sette tagli dei tassi d’interesse, siamo stati la prima banca centrale che ha azzerato il tasso sui depositi e poi lo ha portato in terreno negativo, che ha per la prima volta introdotto le Ltro con prestiti alle banche a tre anni. Poi le Tltro, e i nuovi programmi di acquisti di covered bond e Abs, infine l’acquisto di titoli sovrani nel marzo 2015. Ciò ha permesso di superare il maggior pericolo per l’unione monetaria: la frammentazione. Nell’agosto 2012, con l’introduzione dell’Omt si è affrontato per la prima volta il rischio di ridenominazione dell’euro e la frammentazione di tutto il sistema bancario e finanziario nella zona dell’euro. Decisione questa convalidata della Corte di giustizia europea nel giugno di quest’anno. Per scongiurare questo pericolo è stato anche necessario procedere a un altro cambiamento strutturale, con la creazione dell’unione bancaria e la concentrazione dei poteri di vigilanza nella Bce. Creare l’unione bancaria, quindi lo Ssm, e condurre nello stesso tempo una valutazione approfondita delle banche è stata un’impresa straordinaria, per la quale io sono profondamente grato a tutti coloro che vi hanno contribuito. Tra l’altro, molti sono italiani e la Banca d’Italia è stata una delle protagoniste di questo cambiamento. Poi c’è stato l’ulteriore ruolo della Bce, nel contribuire al disegno dell’Unione monetaria nel lungo periodo, manifestatosi con il cosiddetto Rapporto dei presidenti. Anche questo è stato importante. È aumentato anche il grado di trasparenza delle nostre decisioni, decidendo per la prima volta di pubblicare le minute delle nostre riunioni.
Vorremmo soffermarci sul suo famoso discorso di Londra, quando disse che la Bce avrebbe fatto tutto il necessario, “whatever it takes”, per salvaguardare l'euro, discorso che ebbe un impatto enorme sui mercati. Ci tolga una curiosità: allora si aspettava un impatto di questo genere o lo pronunciò quasi come un'ultima carta, in un momento in cui la situazione si stava deteriorando molto rapidamente? Ritiene che, da allora, il rischio di rottura dell'euro sia definitivamente tramontato?
È chiaro che allora quel discorso presentava un quadro informativo che restituiva la gravità della situazione, sicuramente. Da allora le cose sono nell’insieme migliorate. Il rischio di frammentazione e di ridenominazione è diminuito di molto, se non sparito. C’è da dire che i Paesi hanno reagito anche loro, avviando un percorso di riforme strutturali e guadagnando credibilità nella politica fiscale. Molto è stato fatto, ma molto resta da fare anche in relazione al futuro assetto dell’Unione europea. Dobbiamo essere in grado di poter proporre ai cittadini dell’Unione europea, dell’area dell’euro, un percorso futuro. Abbiamo tentato di farlo con il Rapporto dei 5 presidenti. Non dico che debba essere seguito integralmente, ma quella mi pare la prospettiva che potrebbe essere fatta propria anche dai nostri leader, dai nostri governi, anche perché l’orizzonte non è sgombro da nuvole. Basta aprire i giornali per vederlo.
La crisi greca, però, ha determinato una rottura della fiducia reciproca nell’area euro, un danno grave.
Non direi. In fondo la fiducia è stata recuperata bene, in primis dal Governo greco che oggi dialoga con le istituzioni europee in un clima di grande collaborazione. Il processo di ricapitalizzazione delle banche comincerà a breve, non appena saranno pubblicati gli elementi della nostra valutazione (oggi per chi legge ndr). Quindi non credo che sia rimasto un fondo di sfiducia. Certo è stato un altro test molto difficile che l’Unione monetaria ha però saputo affrontare e superare. È presto per dire una parola definitiva ma se noi oggi confrontiamo il dialogo attuale con il Governo greco con quello di cinque o sei mesi fa, vediamo una grossa differenza.
Il consiglio della Bce è pronto ad aumentare lo stimolo monetario se ce ne sarà necessità. I suoi critici sostengono che questo attenua l'incentivo a fare le riforme.
Penso che questo non sia corretto, per una serie di motivi. Prima di tutto, se osserviamo la scansione temporale delle principali riforme strutturali realizzate nell’area dell’euro negli ultimi cinque anni, emerge che essa non si correla con il livello dei tassi sul debito pubblico dei Paesi in questione. Le riforme del mercato del lavoro, per esempio, sono state attuate sia in Spagna che in Italia quando i tassi d’interesse erano già molto bassi e questo vale anche in altri casi. Secondo, le riforme strutturali spaziano su un campo molto vasto. Non credo ad esempio che la riforma del sistema giudiziario abbia a che vedere con l’andamento dei tassi d’interesse. In terzo luogo, l’esperienza recente mostra che, anche quando i tassi d’interesse sono alti perché la credibilità fiscale di un Paese è minacciata, non per questo aumenta la propensione dei Governi a compiere le riforme.
Come si combinano riforme strutturali e bassi tassi d’interesse?
Si completano a vicenda: per fare le riforme strutturali bisogna pagare un prezzo ora per avere un beneficio domani; i bassi tassi d’interesse sostanzialmente attenuano il prezzo che bisogna pagare oggi. Vi è semmai un rapporto di complementarietà. Poi appunto ci sono anche ragioni più specifiche, bassi tassi d’interesse assicurano che l’investimento, i benefici dall’investimento e dall’occupazione si materializzino più rapidamente. Le riforme strutturali riducono l’incertezza sulle prospettive macroeconomiche e microeconomiche. Quindi è il contrario, più che vederci un aumento dell’azzardo morale, vedo un rapporto di complementarietà, di incentivo. Ma non bisognerebbe mai ridursi a dover attuare il risanamento del bilancio pubblico quando le condizioni di mercato sono divenute disperate. L’esperienza di questi anni mostra che in queste circostanze i Governi spesso compiono errori nel disegno di politiche economiche, aumentano drasticamente le imposte e diminuiscono gli investimenti pubblici senza ridurre sostanzialmente la spesa corrente e rimandando le riforme strutturali che hanno bisogno di un consenso sociale. In tal modo esasperano gli effetti recessivi degli alti tassi di interesse e rendono più lenta la discesa del rapporto tra il debito pubblico e il prodotto interno lordo. In conclusione, nell’area dell’euro, normalmente i mercati non influenzano la propensione dei Governi a realizzare le riforme strutturali; quando ciò succede, perché i Governi hanno troppo a lungo ritardato le riforme, e per il precipitare delle condizioni generali, l’azione di politica economica che ne risulta non è favorevole alla crescita.
L’unione bancaria può essere considerata completa senza un sistema comune di assicurazione dei depositi, al quale si oppongono alcuni Paesi?
L’unione bancaria va completata. Su questo c’è stato un accordo, sia sulla costituzione di un sistema di assicurazione dei depositi, sia su un Single Resolution Fund (per finanziare gli interventi sulle banche in crisi ndr). Queste cose vanno fatte, anche perché in questo modo uno dei problemi che ha caratterizzato la crisi, il nesso bidirezionale tra banche e Stati sovrani, viene attenuato.
Parlando della Grecia, lei ha riconosciuto che, anche se metterà in atto il programma, Atene avrà bisogno di una ristrutturazione del debito. Pensa che questa debba esser fatta gradualmente, in modo da mantenere l'incentivo per il Governo greco a rispettare gli impegni?
Il debito greco è sostenibile se, prima di tutto, il Governo adempie agli obblighi del programma che ha sottoscritto, assumendosi la responsabilità, la ”titolarità”, del programma. Secondo, la sostenibilità del debito richiede un suo alleggerimento; che quest’ultimo deve essere di entità tale da togliere ogni dubbio sulla futura sostenibilità del debito stesso, una volta che la prima condizione si sia verificata. Che tipo di “debt relief” fare, come calibrarlo in maniera tale che gli incentivi ad adempiere al programma non vengano stravolti, sono decisioni dei Paesi membri, di coloro cioè sui cui bilanci si ripercuote questa decisione. Su ciò la Bce non ha niente da dire.
Questi quattro anni sono stati molto stressanti per tutti, immaginiamo per lei ancora di più visto il suo livello di responsabilità. Ci può dire che cosa l'ha aiutata a superare i momenti più difficili?
La forza delle convinzioni e la certezza o la speranza che le decisioni che prendiamo attenuino la sofferenza degli europei che hanno subito le conseguenze della crisi.

La Stampa 31.10.15
Un nuovo giallo tra le mura del Vaticano
Violato il computer del revisore generale dei conti vaticani
La Gendarmeria sta indagando. E intanto arrivano due libri con i documenti sulla gestione delle finanze della Santa Sede
Andrea Tornielli
qui
http://vaticaninsider.lastampa.it/vaticano/dettaglio-articolo/articolo/vaticano-vatican-vaticano-sicurezza-security-seguridad-44361/

Corriere 31.10.15
Esce il 12 gennaio il primo libro intervista di papa Francesco

S’intitola Il nome di Dio è Misericordia ed è il primo libro intervista di papa Francesco. Uscirà in contemporanea mondiale il 12 gennaio 2016, in occasione del Giubileo. Il volume, una conversazione con il giornalista e saggista Andrea Tornielli, sarà edito in Italia da Piemme. «Per la prima volta, in un volume intervista a sua firma, Francesco si rivolge a ogni uomo e donna del pianeta in un dialogo semplice, intimo e personale», fa sapere la casa editrice. Il tema della misericordia è al centro del libro, in cui il Pontefice presenta le ragioni di un Anno Santo straordinario da lui fortemente voluto, «parlando a tutte le anime — dentro e fuori la Chiesa — che cercano un senso alla vita, una strada di pace e di riconciliazione, una cura alle ferite fisiche e spirituali». Il libro è una «sintesi del magistero e del pontificato» di Francesco, conclude l’editore. E uscirà in altri quattordici Paesi: negli Stati Uniti (per Penguin Random House), nel Regno Unito (Macmillan), in Francia (Robert Laffont), in Germania (Bertelsmann – Kösel), in Spagna(Planeta), Portogallo (Planeta), Olanda (The House of Books), Norvegia (Pantagruel), Polonia (Znak), Romania (Editura Trei), Croazia (Verbum), Slovacchia (Fortuna), Slovenia (Družina) e Lituania (Baltos lankos). (s.ba.)

La Stampa 31.10.15
Tragedia in Cisgiordania, bimbo di otto mesi soffocato dai lacrimogeni
A denunciare l’episodio, avvenuto nei pressi di Betlemme, è l’agenzia palestinese Maan. Due morti anche in un villaggio vicino a Ramallah
qui
http://www.lastampa.it/2015/10/30/esteri/tragedia-in-palestina-bimbo-di-otto-mesi-soffocato-dai-lacrimogeni-AY6Pyer2Jy4vaSbPlEEk7I/pagina.html

La Stampa 31.10.15
“Gentili passeggeri, stiamo per atterrare in Palestina”: scoppia il caso su un volo Iberia
L’annuncio prima della discesa su Tel Aviv innesca vivaci proteste in cabina e sui media
di Maurizio Molinari
qui
http://www.lastampa.it/2015/10/30/esteri/gentili-passeggeri-stiamo-per-atterrare-in-palestina-scoppia-il-caso-su-un-volo-iberia-YAKAknN9hKzWMF6lqvL0AK/pagina.html

La Stampa 31.10.15
Turchia
“La libertà di stampa dev’essere rispettata”
Lettera aperta al presidente turco di 50 direttori di giornali internazionali
qui
http://www.lastampa.it/2015/10/31/esteri/la-libert-di-stampa-devessere-rispettata-ufoGQExDKX5SlUysbRax8J/pagina.html

La Stampa 31.10.15
Il premier Davutoglu “Commissariare i media è legale”
di Marta Ottaviani

Domani in Turchia si vota e il premier, Ahmet Davutoglu, tenta di placare le polemiche e respinge con forza le accuse secondo le quali il suo governo islamico-moderato e il presidente della Repubblica, Recep Tayyip Erdogan, abbiano fatto pressioni perché venga limitata la libertà di stampa nel Paese. Parlando del commissariamento del gruppo editoriale Koza Ipek, messo in amministrazione controllata dalla magistratura lunedì scorso, Davutoglu ha detto che si tratta di una procedura «assolutamente legale», ma ha anche aggiunto: «Voglio essere chiaro su questo punto: si tratta di una decisione presa dai giudici, il governo ne è completamente estraneo». Il primo ministro ha poi tranquillizzato il popolo turco, smentendo il vice premier Mehmet Ali Sahin, che due giorni fa aveva ipotizzato una terza elezione in caso di risultato poco chiaro. «La Turchia non tornerà a votare – ha detto Davutoglu -. Il Paese non reggerebbe le urne per la terza volta consecutiva».
La paura dei brogli
Toni smussati anche per il presidente Erdogan, che ha garantito il rispetto del volere del popolo, ma ha auspicato un governo formato da un solo partito, ossia il suo.
Intanto gli analisti hanno previsto un’affluenza record, dall’86 al 91%, e in Turchia cresce il timore di brogli. Domani l’opposizione mobiliterà 65mila persone per controllare che ai seggi non ci siano irregolarità. L’allarme è scattato dopo che Fuat Avni, l’utente Twitter «gola profonda» di Ankara, che da tempo anticipa le mosse del governo, ha predetto che non saranno elezioni trasparenti.

Repubblica 31.10.15
Turchia
Il presidente cerca una rivincita dopo aver perso la maggioranza assoluta a giugno. Domani ai seggi ci sarà un’affluenza record, ma il paese è arroventato da spaccature e odio. Che in un Medio Oriente in subbuglio mettono in allarme anche l’Occidente
Nella Turchia al voto è il giorno della collera Dalla sfida di Erdogan un’ombra sull’Europa
di Bernardo Valli

In questo momento Ankara ha un’importanza particolare perché ospita due milioni di profughi e perché nell’area rappresenta una sorta di diga per il nostro continente. Gli alleati Nato auspicano la stabilità, ma una conferma al potere del partito dell’attuale leader potrebbe avere un prezzo alto sul terreno delle libertàdemocratiche

ISTANBUL I TURCHI andranno a votare in massa. A casa dovrebbero restare soltanto i malati gravi e i vecchi paralizzati dagli anni. Si prevede infatti che l’affluenza sfiori il novanta per cento. Se il pronostico degli esperti è esatto sarà battuto un record mondiale di partecipazione democratica. L’atmosfera non è tuttavia quella di un paese che va alle urne per compiere il puntuale rito di una società libera. Le elezioni di domani sono una sfida che avviene nella collera. C’è odio nell’aria. Il sangue dei recenti attentati, a Suruç e ad Ankara, è nelle memorie. Le provocazioni del potere hanno arroventato vecchie rivalità e sollecitano una risposta, che può essere una rivincita. Il voto appare in questo caso uno scontro che non si limita alle urne. L’esito di domenica, sulla cui regolarità non mancano gli scettici, sembra destinato ad approfondire la spaccatura nella società. Gli alleati della Nato, che non erano ostili a un eventuale ingresso della Turchia nell’Unione Europea, hanno numerosi motivi di essere perplessi: se l’auspicata stabilità dipende dalla permanenza di Recep Tayyip Erdogan al potere, il prezzo, sul terreno delle libertà democratiche, è piuttosto alto. In questo momento il paese ha un’importanza particolare anche perché ospita due milioni di profughi che possono riversarsi sull’Europa. Inoltre, nel Medio Oriente in preda a convulsioni, la Turchia resta, nonostante le attuali debolezze, qualcosa di simile a una diga per il nostro continente. Insomma, il suo voto di domani ci riguarda.
Il presidente, insoddisfatto del risultato delle elezioni del 7 giugno, rimanda 50 milioni di turchi nei seggi. Cinque mesi fa il suo partito (Giustizia e Sviluppo) non ha ottenuto la maggioranza assoluta come nei tredici anni precedenti e lui l’ha presa come un insulto. Il 40,86 per cento non consentiva a Ahmet Davutoglu, il suo primo ministro, di governare da solo, e non riuscendo a formare una coalizione con altri partiti, il presidente ha rispedito i turchi a votare.
Erdogan è un leader impetuoso, incline alla provocazione. Ieri mattina, quarantotto ore prima della domenica elettorale, due giornali dell’opposizione, Bugun e Millet , sono comparsi nelle edicole con vistosi titoli favorevoli al governo. Sul primo, Bugun , campeggiava una fotografia del presidente con la didascalia “la nazione in piazza”. Sul secondo, Mille t, il presidente era in automobile, accompagnato dalla scritta “Turchia un cuore solo”. Per i lettori era una beffa. Uno scippo. I due quotidiani, messi sotto controllo giudiziario dalla procura della Repubblica per avere fatto “propaganda al terrorismo”, erano diventati in un paio di giorni governativi. Dopo essere stati commissariati dalla Giustizia, si sono convertiti a Erdogan.
Il quale è allergico alla stampa e alla televisione che lo criticano. Due canali privati della tv sono stati messi a tacere dalla polizia generosa in lacrimogeni, e all’inizio d’ottobre altri sette gruppi erano stati chiusi. Secondo Tuluhan Tekelioglu, una produttrice indipendente, mille giornalisti sono stati licenziati dal 2013, dopo le manifestazioni in difesa del parco Gezi, nel cuore di Istanbul. Il 7 settembre è stata attaccata con lanci di pietre la redazione di
Hürriyet e alla testa degli aggressori c’era un deputato dell’Akp, il partito della Giustizia e dello Sviluppo. Sono presi di mira soprattutto i media del predicatore Fethullah Gülen, un miliardario residente negli Stati Uniti, un tempo stretto alleato di Erdogan e da alcuni anni severo critico della sua azione.
Tenendo le fila di una confraternita che anima numerose attività, e dispone di grandi mezzi, Fethullah Gülen è un avversario potente. E Erdogan cerca di neutralizzarlo. L a sua campagna elettorale è stata pesante. La rottura della tregua con i kurdi del Pkk fuori legge ha condotto a repressioni non solo nel sud est della Turchia, ma anche in Siria e in Iraq, dove i curdi sono una fanteria valida per la coalizione guidata dagli Stati Uniti (alla quale i turchi partecipano) ed anche per la Russia entrata di forza nel conflitto. Erdogan si trova così in una posizione scomoda nel vedere che quelli che considera in modo ossessivo i suoi nemici hanno tanti amici potenti. Ma non dando tregua ai curdi Erdogan compatta la sua base elettorale, quella un tempo soprattutto rurale, in particolare dell’Anatolia, negli ultimi anni favorita dal successo economico, fino a diventare un’estesa classe media islamica.
Nel frattempo il miracolo economico turco è finito, ed è svanita anche la forte seduzione che l’Islam “moderno” di Erdogan esercitava in Medio Oriente, nei paesi tentati dalla democrazia e ammirativi di una società musulmana più disinvolta, come appariva quella visibile nelle telenovelas realizzate a Istanbul. Tuttavia Erdogan può vantare di essere stato il promotore e la guida di quel momento fortunato. E conserva l’appoggio di quella parte della società islamica che ne ha usufruito. Non gli mancano gruppi di fedelissimi, “fino alla morte”. È perlomeno quello che proclamavano i manifestanti del 2013, scesi in piazza per respingere le accuse di corruzione contro di lui. Erano coperti da lenzuola che rappresentavano i sudari in cui i musulmani avvolgono i morti quando li seppelliscono. Era un modo per dimostrare che erano pronti a sacrificarsi per il loro capo. Adesso Erdogan promette l’ordine e con l’ordine il ritorno al successo economico. Il suo discorso sembra funzionare, poiché i sondaggi gli pronosticano per domani un aumento di voti. Dal 40 per cento di giugno potrebbe passare al 42 o anche al 47 per cento. Comunque non avrebbe la garanzia di ottenere una maggioranza assoluta in Parlamento. E lui conta invece di raggiungere un quoziente sufficiente per dare un’impronta presidenziale alla Costituzione.
L’altra parte della società, quella che si definisce laica cerca di arginare le ambizioni di Erdogan. È una popolazione spesso urbana, in cui non mancano radici borghesi assai più profonde di quelle dei nuovi benestanti dell’Anatolia contadina. Lo scontro elettorale tra questi gruppi sociali potrebbe concludersi con due frustrazioni: nel caso il presidente non raggiungesse la sperata maggioranza assoluta, e non volesse o non riuscisse a formare una coalizione per lui umiliante; e gli avversari divisi dovessero restare in balia dell’imprevedibile volontà di Erdogan, privato di una vittoria completa ma pur sempre il più forte. Ritenterebbe quest’ultimo un’altra elezione?
La Turchia laica ha come principale espressione politica il Partito repubblicano del popolo (Chp), considerato socialdemocratico e con origini kemaliste (da Kemal Atatürk). In giugno ha avuto il 25 per cento. Gli pronosticano due punti in più. Una sua alleanza con Erdogan risolverebbe il problema di una maggioranza di governo. Ma sono pochi quelli che la ritengono possibile. Un’intesa tra le due anime della Turchia non è per ora realizzabile. E il comportamento recente del presidente islamico-conservatore non la favorisce. Il socialdemocratico Sezgin Tanrikulu ha definito l’attacco a giornali e televisioni «una violazione del diritto di voto». Il Partito democratico dei popoli (Hdp), di sinistra e filocurdo, ha ottenuto il 13,12 per cento in giugno ed è entrato per la prima volta in Parlamento privando in parte il partito di Erdogan dei suffragi necessari per avere l’agognata maggioranza assoluta. E quindi è una delle cause principali della collera del presidente. Resta in teoria a quest’ultimo un’alleanza con l’estrema destra nel caso di un nuovo insuccesso domani sera. Ma sono in molti a escluderla.

Corriere 31.10.15
Erdogan si gioca il tutto per tutto
Ma rischia di perdere la scommessa
Le tv oscurate, i giornali dell’opposizione intimiditi, i curdi sotto attacco. Il presidente Erdogan sta facendo di tutto per vincere le elezioni ma rischia di mancare l’obiettivo.
di Monica Ricci Sargentini
qui
http://www.corriere.it/esteri/15_ottobre_29/erdogan-si-gioca-tutto-tutto-ma-rischia-perdere-scommessa-30c3e58e-7e55-11e5-b052-6950f62a050c.shtml

Corriere 31.10.15
Generazione anti Erdogan È il «partito dei curdi», ma lo votano anche i ragazzi di Gezi Park. Chiedono più diritti. Domenica l’Hdp può rovinare i giochi del presidente
di Elisabetta Rosaspina

ISTANBUL Il vecchio Ford Transit con la faccia di Selahattin Demirtaş incollata sulle fiancate, e la musica sparata a tutto volume dagli altoparlanti sul tettuccio, arranca per i vicoli di Tarlabasi, quartiere ad alta densità curda di Istanbul, festeggiato dai ragazzini come un tank americano a Napoli nell’ottobre del 1943: «Le parole della canzone sono un inno ai diritti delle donne e dei bambini» informa, allegro, Halit Akaj, 27 anni, pescatore prestato alla campagna elettorale, entrando nella minuscola sede di quartiere dell’Hdp, il Partito Democratico dei Popoli, che ha guastato i tredici anni di monopolio incontrastato del presidente turco, Recep Tayyip Erdogan.
Alle pareti, i ritratti di Abdullah Öcalan, il leader del Pkk condannato all’ergastolo, si mescolano alle gigantografie di Demirtaş, il presidente dell’Hdp, di Deniz Firat, reporter e combattente morta a Şengal l’anno scorso, per fermare gli uomini del Califfato, e di altre «martiri» della causa curda. Qui sì, i cuori battono per Kobane: i filmati dei combattimenti contro l’Isis scorrono sugli schermi dei telefonini come immagini sacre. «Ma non vogliamo altri morti, nè curdi nè turchi. È ora di trovare un accordo» assicura Halit.
Il tempo di un rapido rifornimento di materiale elettorale e si riparte, rumorosi e traballanti, su verso Istiklal Caddesi, il viale dell’Indipendenza, cuore dell’antico quartiere di Pera (oggi Beyoglu), in una corsa contro il tempo per convincere gli indecisi a scegliere domani, nel segreto dell’urna, il volto nuovo della politica, l’avvocato della pace Demirtaş, il solo bastone tra le ruote del Sultano.
La Turchia va alle elezioni anticipate, con le ferite ancora aperte di tre attentati in meno di sei mesi: il 5 giugno a Diyarbakir, 4 morti; il 20 luglio a Suruc, 33 morti; il 10 ottobre ad Ankara, 102 morti. Con i sigilli ancora applicati a tivù e quotidiani d’opposizione. Con i giornalisti in carcere o sotto la minaccia di finirci per sempre, come Can Dundar, il direttore di Cumhuriyet , sgomberato ieri per un allarme bomba. Con un Paese diviso e spaventato dalle bandiere nere dell’Isis poco oltre il confine sud-orientale. Con due milioni di profughi siriani e molti altri in arrivo.
Ma è una partita a due, quella che si giocherà domani, tra il partito islamico, l’Akp, del presidente Erdogan e l’Hdp di Demirtaş. «I curdi votano per Hdp, il partito. I turchi votano per Selahattin Demirtaş, il leader»: Can ha 22 anni e nemmeno una goccia di sangue curdo nelle vene, ma come responsabile giovanile della piccola e agguerrita formazione traccia l’identikit del suo elettorato. «Puntiamo a passare da 80 a 110 deputati — si sbilancia questo giovane studente di Sociologia, originario di Bayburt —. Le stragi hanno danneggiato soltanto Erdogan. I giovani che hanno sostenuto Demirtaş il 7 giugno non cambieranno il loro voto per paura. Dopo Gezi Park qualcosa è cambiato».
Nel parco di piazza Taksim, quasi due anni e mezzo fa, opponendosi alle ruspe che volevano spianare gli alberi per far posto a un centro commerciale, e ai gas lacrimogeni della polizia, si è formata una generazione che non si lascia più intimidire: «Anche se venivamo da ideologie e partiti diversi, io per esempio dai socialisti, abbiamo occupato, dormito, resistito insieme. Molti dei nostri genitori votano il partito kemalista, perché diffidano ancora di un partito filo-curdo. Ma i giovani sono stufi del grigiore e della burocrazia del potere» promette Can. A pochi metri da lui il suo coetaneo turco Özgur, studente di Storia della Scienza, fa volontariato come soldatino semplice, dritto e immobile con la pettorina dell’Hdp e nella mano alzata una copia del giornale di partito, come gli strilloni di una volta. «A Gezi Park abbiamo vissuto la spaccatura irreversibile tra una mentalità sciovinista e lo spirito di fratellanza e uguaglianza. E io ho capito che cosa voglio fare da grande — ride —. La rivoluzione!». Sorridono, poco distanti, gli occhi della diciannovenne Zehra, incorniciati da un velo leopardato: «Sto con Hdp perché non c’è partito mıgliore in Turchia per una donna, per la difesa dei diritti e dell’uguaglianza. E se porto il velo è per mia libera scelta». Il segreto secondo Ayşe Erdem, co-presidente del partito a Istanbul, è che «Hdp non si occupa delle donne ma è un partito di donne».
Anche Dilan, 24 anni, trova che simpatizzare per l’Hdp sia facile: «È un tetto sotto il quale si ritrovano tutte le etnie e, quando avremo vinto, troveremo i responsabili di tutte queste stragi». Era a Suruc il giorno dell’attentato, Dilan, che studia per diventare infermiera: «Sono arrivata subito dopo. Un amico mi è morto fra le braccia. Volevo tagliare i suoi pantaloni per curarlo. Mi ha detto: no, non ho un altro paio. Gli ho risposto: se riesco a salvarti te ne compro altri dieci. Non ci sono riuscita». Ora distribuisce volantini a Istanbul anche per lui.

La Stampa 31.10.15
Così la Merkel corteggia Erdogan
Ue più vicina se frena i migranti
La road map della Cancelliera: bilaterale a novembre e incontri fra ministri
Berlino vuole più controlli e lotta agli scafisti, la Turchia l’adesione rapida
di Tonia Mastrobuoni

Angela Merkel non ama l’enorme scrivania che troneggia nel suo ufficio, comprata dal suo predecessore, Gerhard Schroeder. È troppo grande, ha ammesso una volta. La cancelliera ha gusti semplici: indossa lo stesso completo in infinite variazioni cromatiche da anni e non trova nulla di male nel mettere due volte lo stesso vestito per il sacro appuntamento mondano dei cicli wagneriani di Bayreuth. Figuriamoci come si sarà sentita quando Recep Tayyip Erdogan l’ha fatta sedere su un obbrobrio kitsch come l’enorme poltrona dorata del palazzo di Yildiz, due settimane fa. Il messaggio del presidente turco era chiaro: incurante dei suggerimenti del cerimoniale tedesco e dell’evidente disagio della cancelliera, si è goduto il suo momento Canossa.
Come a Canossa
Dopo anni di gelo sull’ipotesi di un ingresso della Turchia nella Ue, la crisi in Siria e il ruolo di primo piano assunto da Ankara dal punto di vista militare ma anche della complicata gestione dei profughi, hanno costretto Merkel ad andare da Erdogan a capo chino, offrendogli un’accelerazione sul negoziato di adesione. Il presidente turco affronta domani un’elezioni cruciale con la consapevolezza di avere il coltello dalla parte del manico. E a Berlino, Merkel ha già messo in moto la sua macchina da guerra organizzativa per facilitare il negoziato. Ma gli astri che dovranno favorirlo - soprattutto la complessa perorazione della causa turca tra partner molto più riluttanti di lei - non saranno semplici da allineare, se il presidente turco si lascerà andare ad altri rigurgiti autoritari come il recente blitz alla rivista Noktet. Un episodio che è stato commentato con molta irritazione a Berlino.
Dietro le quinte, i due Paesi hanno messo su una squadra di funzionari ministeriali che si stanno incontrando riservatamente ad Ankara e a Berlino per cominciare ad analizzare i dettagli dell’adesione alla Ue (anche se Merkel ha respinto, per ora, la richiesta di Erdogan di incontri ministeriali bilaterali periodici, come avviene con molti Paesi). In vista del G20 di Antalya, a metà novembre, la cancelliera ha già chiesto ad Erdogan un bilaterale a margine con il premier che scaturirà dalle urne, racconta una fonte diplomatica. I tedeschi hanno fatto anche in modo che il consueto «progress report» di Bruxelles sullo Stato dell’arte della Turchia ai fini di un ingresso nella Ue, sia diffuso dopo le elezioni «per non alterare Erdogan» spiega la fonte. Al solito, il rapporto non è molto lusinghiero. Ma l’idea è di arrivare già a dicembre aprendo capitoli di discussione ufficiali. Cominciando dai meno spinosi come l’unione economica, ma Ankara punta velocemente al riconoscimento del proprio Paese tra quelli «sicuri», un passo che la avvicinerebbe molto alla Ue. Prima di ciò, Merkel tenterà anche di incassare qualcosa.
Il fronte africano
La cancelliera affronta un momento disastroso, nel suo Paese, causa emergenza profughi. Ma la sua idea è molto chiara: è impossibile, anche dal punto di vista del diritto internazionale, fissare un limite ai profughi. Quello che si può fare, è gestire meglio le frontiere esterne e confrontarsi coi Paesi di origine. Merkel chiederà a Erdogan qualche intervento vistoso contro gli scafisti e in prospettiva punta a un accordo perché anche Ankara introduca qualche forma di registrazione dei rifugiati. Soldi gliene ha già fatti avere dalla Ue. Ma al vertice europeo di metà novembre a Malta con i Paesi africani, Merkel si porterà appresso tutti i pesi massimi della cancelleria: sintomo della volontà di ottenere risultati concreti. L’idea è che se alcuni Paesi africani non accettano di siglare accordi di riammissione dei migranti, la Ue metta in discussione le politiche per lo sviluppo.

Corriere 31.10,15
Il destino di Angela
Gli alleati l’hanno stretta nell’angolo: ha un piano? Merkel rischia la leadership
di Danilo Taino

BERLINO Di tanto in tanto capita che Angela Merkel si presenti al mondo con il sorriso di una bambina contenta. È successo anche durante il viaggio in Cina dei giorni scorsi, quando ha fatto sapere che Pechino invierà due panda giganti allo zoo di Berlino. È questo che molti tedeschi vorrebbero sempre dalla cancelliera: una tranquilla diplomazia del panda. Invece, da un paio di mesi si trovano una leader che li agita, che apre le porte ai profughi e ricorda che la Germania non può starsene, come se fosse una Svizzera, ai margini della politica internazionale, anzi deve sapere sporcarsi le mani.
Quando, lo scorso 4 settembre, per la prima volta ha pronunciato la frase che poi è diventata il suo mantra — Wir können das schaffen , Possiamo farcela — Frau Merkel ha inaugurato una nuova fase per la Germania e per l’Europa: garantire asilo a tutti coloro che fuggono dalle guerre è un dovere morale, ma che un capo di governo lo dicesse in modo così esplicito non era mai successo. In quel momento, la cancelliera ha disegnato davanti a sé due strade: quella del trionfo, se riuscirà a gestire e integrare l’enorme flusso, e quella del fallimento.
Oggi, due mesi dopo, la gran parte degli osservatori scommette sulla seconda: le pressioni interne e quelle esterne sono diventate formidabili e fanno dire che forse non ce la farà. Non è detto che finisca così: lei dice di avere un piano, in parte lo sta attuando. Ma è un piano da acrobata. Al momento, di certo c’è che il destino di Angela Merkel è cambiato quel 4 settembre: e con esso le prospettive della Germania e dell’Europa.
Durante il weekend, la cancelliera incontrerà i partner di governo, cioè la sua Cdu, la Csu di Horst Seehofer, la Spd di Sigmar Gabriel. I colloqui di emergenza nascono dall’ultimatum lanciato da Seehofer, ministro presidente della Baviera, il Land di confine con l’Austria in cui stanno arrivando migliaia di profughi al giorno. La minaccia del leader conservatore è di ricorrere alla corte costituzionale chiedendo di potere imporre lui misure straordinarie di controllo alle frontiere in quanto il governo di Berlino non avrebbe difeso i confini. In alternativa, circola l’ipotesi (finora smentita) che la Csu ritiri i suoi tre ministri dal governo di Grosse Koalition. In ambedue i casi, gravi crisi istituzionali e di governo e anche una rottura politica tra gli alleati storici Cdu e Csu.
Un compromesso sembra possibile. Nessuno vuole davvero rompere nel pieno dell’emergenza e, in genere, in Germania chi crea instabilità viene punito dagli elettori. In qualche modo, la signora Merkel dovrà però trovare un punto di accordo. In parte per aiutare la Baviera che è in una situazione molto difficile: lo potrà fare mandando aiuti e magari denaro. Ma dovrà anche dare l’idea di fare qualcosa per rallentare il flusso di rifugiati: l’opinione pubblica dà segni di nervosismo; il problema è che i partner socialdemocratici della Spd sono contrari a creare zone speciali. Un compromesso almeno momentaneo probabilmente si troverà. Il piano Merkel, se c’è, sarà però bene che dia risultati organizzativi in fretta. Il ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble, un peso massimo della Cdu, appoggia l’apertura della cancelliera: «Abbiamo salvato un pezzo dell’onore dell’Europa — ha detto —. Abbiamo evitato il caos». Ma sottolinea che sul piano organizzativo la situazione è drammatica.
Sul versante internazionale tutto è ancora più complicato, per Frau Merkel. «Per risolvere l’emergenza — diceva due sere fa un diplomatico, a Berlino — la cancelliera sta andando a letto con i dittatori». Cioè chiede l’aiuto di Putin, che tre giorni fa ha ricevuto il vicecancelliere Gabriel; apre a una soluzione in Siria che non esclude la permanenza al potere di Assad; concede a Erdogan tutto ciò che finora aveva negato alla Turchia; chiede ai cinesi di far pressioni su Mosca affinché aiuti a risolvere la crisi siriana. Con l’obiettivo di rallentare il fiume dei profughi che arriva dal Medio Oriente. Secondo il diplomatico, non può fare altro. Questa politica estera dettata dall’emergenza e da una certa disperazione è però destinata a cambiare il quadro delle relazioni internazionali della Germania e dell’Europa, dove le critiche all’apertura di fine estate, inoltre, sono sempre più forti. E dove — bisogna dire — pochi leader stanno dando sostegno a Berlino.
Trionfo o fallimento. E un po’ di Panda-Diplomatie .

il manifesto 31.10.15
La decadenza socialdemocratica
Germania. Il limite «tedesco» della Spd nel capire il rapporto tra redistribuzione e conflitto
di Paolo Borioni

dente prestazione della sinistra europea di fronte alla crisi e all’austerità, la Spd è spesso presa ad esempio in quanto «la più classica socialdemocrazia». Quindi, il partito tedesco passa per la riprova di un destino inevitabile di tutte le socialdemocrazie come fenomeno storico. In realtà la Spd non è necessariamente rappresentativa della storia e del pensiero socialdemocratico europeo. Le incapacità nel proporre ed attuare politiche di domanda che bilancino il grande surplus di export dipendono non solo dalle dottrine economiche dominanti e dalla forza esportatrice tedesca.
In realtà, differenza fra altre socialdemocrazie e Spd è proprio che essa non è quasi mai potuto o saputo realizzare l’importanza strategica, per la propria forza, del salario e della sua piena espansione. Ciò perché ai tempi di Weimar le politiche della domanda non erano ancora egemoni, e poi venne Hitler, mentre gli scandinavi arrivarono all’espansione interna autonomamente, conoscendo ben poco Keynes. In seguito, la Spd fu al governo solo pochi anni utili a praticare la domanda come elemento fondante della propria forza (e identità): più o meno dal 1970 al 1973, anno in cui l’espansione dei salari cominciò, in un contesto già ideologicamente ostile come quello tedesco, ad essere difficile per via della «stagflazione» di quegli anni. Invece, gli scandinavi poterono per decenni usare i due elementi interconnessi: da un lato la forza organizzata del movimento operaio e la critica al sistema, che imponevano di competere con più innovazione che sfruttamento, dall’altro un’espansione che distribuiva verso il basso i frutti di tutto questo.
Questa redistribuzione rafforzava consenso e piena occupazione, così che poi si poteva con energia tornare a costringere gli imprenditori a politiche, relazioni industriali e investimenti «virtuose». La Spd ha praticato molto la prima parte, per esempio conquistando e poi allargando la Mitbestimmung ancora nel 1976, ma ottenendo meno egemonia del possibile perché praticava in modo incompleto l’altro elemento fondante della socialdemocrazia europea. Ancora di più questo è avvenuto in epoca Euro, coi suoi parametri costrittivi (che per esempio prima di adattarvisi anche troppo bene gli scandinavi avevano tentato di ammorbidire), da cui le riforme di precarizzanti di Schröder: i dati dimostrano che da lì origina il ridimensionamento Spd verso il 25%. Sull’attualità questo si ripercuote molto: la giustissima conquista del salario minimo stenta a produrre effetti di consenso per la Spd. Si pensa sia dovuto all’idea di stigma che vi si associa, che impedisce di renderlo un discorso politico espansivo. Ora, il salario minimo è inteso in Germania, giustamente, come base minima di ogni contratto sindacale, armonizzando legge sui minimi e negoziato.
Ma evidentemente, vista la storia, occorre tempo e fiducia affinché i potenziali (e spesso ex) elettori socialdemocratici credano che ciò porti ad una vera e durevole espansione delle paghe, con tutto ciò che segue per la Spd (consenso), la Germania (crescita interna) e la Ue (evitare la catastrofe). Ma il tempo manca, mentre la possibile evoluzione della Spd e del quadro politico tedesco suggeriscono che solo dinanzi allo spettro di una definitiva decadenza verso lo status di «partito minore» (e spesso ignorato) di coalizione della Cdu i socialdemocratici tedeschi potrebbero rivolgersi alla Linke, accogliendo le prediche degli economisti sindacali Dgb, in favore di una crescita nell’eguaglianza dei redditi da lavoro, in Germania ed in Europa. I tempi dell’evoluzione politica sono insomma quelli complessi dei conflitti profondi, non purtroppo quelli della urgenza europea.

Repubblica 31.10.15
Che cosa ereditiamo dalla lingua di Cicerone:il primato della parola, la centralità del tempo e la nobiltà dell’agire per il bene comune
Ode civile al latino, padre della politica
di Ivano Dionigi

Pubblichiamo parte della lezione di congedo pronunciata ieri sera a Bologna da Ivano Dionigi che dopo sei anni lascia la carica di rettore dell’università di Bologna. La lezione del latino è il titolo del suo intervento, pronunciato come saluto alla città. Oltreché all’università Dionigi è professore ordinario di letteratura latina e presidente della Pontificia Accademia della Latinità L’immagine di questa pagina è un particolare da Il giovane Cicerone che legge (1464) di Vincenzo Foppa

Il latino mi ha insegnato che la parola, il “verbum”, è materia prima: come la pietra, il carbone, il ferro; alla parola tutto è possibile, ammoniva Gorgia: “spegnere la paura, eliminare la sofferenza, alimentare la gioia, accrescere la compassione”. La parola “educa”, “affascina”, “convince”: i tre compiti che le affida la retorica classica. Lingua in apparenza familiare, il latino è caratterizzato da parole cariche di una pluralità di sensi, come al centro di un campo magnetico: chi saprebbe tradurre con una parola sola voci come otium, dignitas, pietas ?
Lingua duttile ma severa, impegnativa e impegnata, che determina le sorti della politica, della res publica : quando si affermano “i più bravi parlatori”, i comunicatori da quattro soldi, i demagoghi, allora è la rovina. Ce lo insegna Cicerone: «Quando vedo la crisi della nostra repubblica, constato che non piccola è la parte di rovina procurata dagli uomini più bravi a usare le parole ( disertissimi homines )».
Il disertus , l’abile parlatore, contrapposto all’ eloquens , “colui che parla bene, per bene, in modo etico”, distinto dal loquens , “colui che parla”: tutta la differenza — non solo linguistica ma anche etica e politica — sta in quel fonema e — che perfeziona e nobilita l’azione del parlare. Come vedere il grande nel piccolo: anche questo è un dono del latino.
Noi oggi abbiamo bisogno — non meno dell’ecologia ambientale ?di una ecologia linguistica, che ci faccia riscoprire la differenza tra vocaboli e parole portatrici di senso e di verità, alle quali pertanto — al pari delle persone — non si può torcere il collo. Pensiamo alla parola “competere” che nella sua origine di cum-petere non ha nulla di sgomitante, muscolare, darwiniano, bensì significa “dirigersi insieme nella stessa direzione”, “correre insieme verso la stessa meta”. Una delle cause principali della volgarità attuale è l’incuria delle parole; e parlare scorrettamente — diceva Platone — non solo è una cosa brutta in sé, ma fa male anche all’anima. Noi scontiamo una quotidiana Babele linguistica dove le parole-vocabolo smarriscono la loro capacità e identità comunicativa. Abitudine antica, questa, se pensiamo all’atto di accusa di un personaggio dell’ Agricola di Tacito contro la voracità imperialistica dei Romani: «Il depredare, il massacrare e il rapinare con falsi nomi li chiamano “ impero” ( imperium ), e dove fanno il deserto lo chiamano “pace” (pax)».
Il latino mi ha insegnato la centralità del tempo. A Roma tutto è nel segno del “qui e ora” ( hic et nunc ) e “nel segno del tempo” ( sub specie temporis)”: una temporalità che impronta l’arte nella sua cifra descrittiva, il diritto nella sua genesi ed evoluzione collettiva, la religione nel suo legame con i ritmi delle stagioni e con le tappe della vita, il destino stesso di Roma bipartito tra il prima e il dopo della sua fondazione ( ante e post urbem conditam ).
Ma è nella lingua che la dimensione del tempo risulta più evidente e convincente: lingua verbale, la latina, perché tutta incentrata sul verbo, «angelo del movimento che dà spinta alla frase», come lo definiva Baudelaire. Lo vediamo nella sintassi: la maledetta consecutio temporum di memoria ginnasiale non è forse la più conclamata applicazione di questa ferrea legge del tempo? D’altra parte, alla frase gerarchica di Cicerone, espressione e riflesso dell’equilibrata età repubblicana in cui i vari ordines si coniugavano in pur difficile convivenza, subentrerà la sententia di Seneca, vale a dire la frase breve, staccata, acuminata, tutta costruita su antitesi e simmetria: segno della frattura che si era creata con la fine della Repubblica.
Questo acuto senso del tempo era connaturato a un popolo che faceva della “tradizione” la propria religione principale: perché, secondo il felice aforisma di Gustav Mahler, «la tradizione è la salvaguardia del fuoco, non l’adorazione delle ceneri». Una civiltà, quella romana, che, grazie a questo culto e a questa forza del servare , rispetterà e assimilerà tutte le altre civiltà conquistate dalle aquile imperiali.
Noi siamo naturaliter storia e memoria, e natura non facit saltus .
Chi stacca la spina della storia e della memoria ha una sola alternativa: essere ignorante o suicida.
Il latino mi ha insegnato la nobiltà della politica. La lingua latina manifesta il carattere pragmatico di quel popolo che definiva la rivoluzione con res novae (“avvenimenti inauditi”) e la storia con
res gestae (“opere compiute). Tra tutte le espressioni in cui ricorre la frequentissima e latinissima parola res , quella che mi ha dato sempre più a pensare è res publica : “la cosa pubblica, la proprietà comune, il patrimonio di tutti”.
Questa res publica esige come primo valore la virtus , che non significa “virtù”: significa “impegno”; quell’“impegno” che trova il suo esercizio più compiuto nel “governo della città” ( gubernatio civitatis ).
Roma segna inequivocabilmente il primato della politica sulla vita dell’individuo. L’uomo romano è prima di tutto cittadino, civis ; il suo modello è Enea, il quale subordina e sacrifica le esigenze personali, l’amore per Didone, alla vocazione politica, la fondazione di Roma.
E questa virtus del civis verrà ricompensata, perché la politica rappresenta l’espressione più nobile dell’uomo. Lo apprendiamo nel ciceroniano Sogno di Scipione , dove si dice che a tutti coloro che avranno esercitato l’arte della politica a favore della patria e del bene comune è assicurato un posto in cielo.
Ma questo latino riguarda solo il filologo classico, o tutti noi?
Il latino non è né un reperto archeologico, né uno status symbol , né un mestiere per pochi sopravvissuti; e neppure una materia; il latino è un problema, in senso etimologico; è una sorta di “pietra di inciampo” che riguarda tutti noi: non solo perché matrice della nostra lingua, non solo perché segno della cultura della nostra Europa che ha ininterrottamente parlato latino fino a tutto l’Ottocento per il tramite della Chiesa, dell’Impero e della Scienza,? maanche perché strumento e veicolo della trasmissione e dell’eredità del sapere di Atene e Gerusalemme: della sapienza classica e giudaico-cristiana. Come dire: la lingua latina oggi non ci appartiene, ma noi apparteniamo ad essa.
De nobis fabula narratur : questo racconto parla di noi.

il manifesto 31.10.15
Gli spettri burloni di un filosofo
«Il fantasma e il desiderio» di Giulio Giorello, edito per Mondadori
Una raccolta di brevi storie perturbanti, narrate da una voce scettica
di Enrico Terrinoni

«Un colpo secco contro gli infissi. La finestra si era chiusa con un rumore sordo. Folate radenti sfioravano il volto di Roberta come dita spettrali. Lei balzò dalla vasca, schizzando sul tappeto persiano. Poi un silenzio quieto, anche se fin troppo avvolgente, tornò a confondersi di aromi speziati e baluginii di candela». È il prologo a una delle scene più coinvolgenti di una storia di fantasmi sui generis, composta, non da un consumato scrittore di ghost stories o da un letterato, come ve ne sono, troppo incline a sirene spiritualiste, ma da un filosofo, un razionalista, un matematico.
Il fantasma e il desiderio, di Giulio Giorello (Mondadori, pp. 103, euro 18) è una raccolta di brevi e intense storie dalle suggestioni perturbanti, ma narrate da una voce «moderatamente scettica». Lo spiega bene l’autore nell’epilogo: possiamo introdurre le «finzioni» in due modi: secondo quello del «vero credente» o dello «scettico moderato». Questo perché «uno scetticismo più radicale impedirebbe la sospensione dell’incredulità che permette qualsiasi finzione ’ben fondata’». Giorello sceglie la seconda strada.
Il libro ci accompagna, con lo sguardo di un filosofo non chino alle superstizioni che aleggiano su tanta produzione cosiddetta «gotica» o «neo-gotica», lungo i sentieri di racconti che però sono radicati in quel vasto marasma di folklore, leggende, e mitologie da cui traggono linfa le storie del terrore. E se ci accompagna come un ospite onesto è proprio per via di quel «distacco ironico» da una materia che, per sua natura, fa appello al mondo dell’indicibile e dell’invisibile; o in altre parole, alla nostra sopita coscienza del non detto.
I racconti di Giorello, che dall’Irlanda a lui cara derivano più d’uno spunto, sono tratteggiati a fil di penna, e sempre al limitare tra tre dimensioni: quella del resoconto del «fantastico», direbbe Todorov, quella dell’ironia di un narratore discosto, e infine, quella del lettore a cui è richiesto un seppur momentaneo cedimento alla credulità.
È la lezione di uno dei modelli dichiarati di Giorello, in questo genere, quel «Montie» Rhodes James la cui opera completa uscì in Italia per le cure del compianto e geniale Malcolm Skey. James fu un abilissimo costruttore di storie situate immancabilmente sulla sfumata soglia tra il reale e il percepito, tra l’esistente e l’immaginato.
Da uno squisito racconto ispirato all’epistolario, che ha per protagonista Spinoza alle prese con le apparizioni di presenze sfuggenti, ci si muove per atmosfere più recenti tra le guglie di una cattedrale dove angeli di marmo si mostrano capricciosamente gelosi e interferiscono con le vicende degli umani. E poi, passando per «umili magioni» in cui il vecchio trucco del doppio s’incardina in trame che da artistiche mostrano vivide tinte allucinatorie, si arriva alla vera perla del libro, Le foglie della Sibilla. È un racconto ambientato in Scozia in cui campeggiano un letterato di Belfast e un matematico milanese seguace di Cantor, che tra birre e whiskey in un pub di St Andrews si dichiara «autore di una delle teorie matematiche più profonde che siano mai state concepite da mente umana», una teoria in grado di bloccare «la risalita degli infiniti dall’abisso».
In questo racconto, e nel libro, lo sguardo ironico e disincantato dello scienziato si colora di ammiccamenti alla sfera di un occultum, che dalle trite e obsolete periferie dello pseudo-spirituale, riesce pacatamente a tornare al suo significato etimologico di celato, nascosto, e dunque, invisibile, ma solo perché non visto. Gli spettri burloni di un filosofo

il manifesto 31.10.15
L’oscuro oggetto del desiderio e l’analista
di Sarantis Thanopulos

Può l’analista gestire il proprio lavoro senza mai sentirsi toccato nel suo modo più personale di essere e entrare in crisi? La domanda è stata posta al «Colloquio» organizzato il weekend scorso dal Centro di Psicoanalisi di Palermo e avente come tema il «controtransfert».
Il controtransfert è la reazione dell’analista al “ transfert” del paziente. Il transfert è la tendenza universale a trasferire nelle relazioni significative della vita aspetti conflittuali rimossi della propria infanzia nella speranza che possano essere risolti. Anche il controtransfert ha carattere universale: ci relazioniamo con le persone a cui siamo affettivamente legate, accettando, inconsciamente, di abitare, in parte, la scena della loro storia obliata.
L’analisi è impostata in modo da facilitare lo sviluppo di entrambe le correnti, che sono fatte della stessa materia del sogno, il luogo in cui i vissuti rimossi tornano alla vita. Attraverso la comprensione del posto che inconsciamente occupa, di volta in volta, nella storia del paziente, che torna al presente, l’analista può accedere alla natura più profonda della domanda che gli è rivolta. Ciò gli consente anche la riparazione delle aree di una propria cecità nei confronti della relazione, l’elaborazione della riluttanza ad affrontare questioni che attivano i propri conflitti inconsci.
L’analista è impegnato in modo più diretto quando incontra il paziente a partire dal proprio desiderio e mette in discussione il proprio modo di essere nel mondo. L’analisi riceve dalla madre del paziente in eredità il modo in cui lei l’ha accolto. La madre accoglie il bambino in due modi opposti. Per certi aspetti proietta su di lui parti irrisolte di sé e, affidandogli un ruolo messianico, rimanda al futuro, in modo consolatorio, l’incontro con l’inconsueto.
Nella direzione opposta, il nuovo arrivato attiva in lei il desiderio di rimettersi in gioco, accettando le perturbazioni necessarie di cui è foriero il cambiamento. Più la madre (sostenuta dal padre) riesce a mantenersi nella seconda prospettiva, più il bambino è vivo e desiderabile e la madre gode della riapertura dei propri confini con la vita.
L’analista deve farsi carico di situazioni in cui la madre non è riuscita a far sentire il figlio pienamente autorizzato a essere vivo per conto suo. Nelle condizioni più drammatiche il paziente lotta per evadere dalla prigionia di uno sguardo esterno alla sua soggettività, che ha preconfezionato la sua posizione nel mondo. Non può farlo se non destabilizza l’assetto dell’analista, obbligandolo a uscire dal suo centro di gravità, a esporsi, rischiare. L’analista è in difficoltà: la persona che cura si è posta fuori dall’obnubilamento della propria esistenza e non vuole essere interpretata, ma vista come se fosse arrivata al mondo per la prima volta.
La domanda del paziente, inevitabilmente contraddittoria e confusa, disorienta. L’analista rischia una crisi perturbante d’identità, la confusione dei propri interessi con quelli dell’altro (il caso di Jung con la Spielrein). Tuttavia, questa è per lui l’opportunità di andare oltre la paura che oscura il nostro oggetto di desiderio, al punto di fare dell’oscurità la cosa desiderata.
Scoprire che l’irriducibile differenza dell’altro, percepita come minaccia di destabilizzazione della propria identità (il fondamento della paura), è per costui l’unica possibilità di sentirsi vivo. Chi è veramente vivo non ci minaccia, il pericolo viene dalla non vita che invade la vita. Liberare la vita dalla morte, attraversando una crisi delle proprie vedute, è la vocazione di fondo dell’analista.

La Stampa 31.10.15
“La mia Parigi tra senape e anice”
I racconti inediti di Paolo Conte
Arriva il libro che raccoglie 30 anni di “parole”. Con diverse sorprese e alcuni inediti, che qui, in parte, anticipiamo
qui
http://www.lastampa.it/2015/10/31/spettacoli/i-racconti-inediti-di-paolo-conte-GNZqWia7ocYXnjpPlhLePL/pagina.html

Corriere 31.10.15
Kazakistan: i misteriosi segni sul terreno che si vedono solo dallo spazio
qui
http://www.corriere.it/foto-gallery/scienze_e_tecnologie/15_ottobre_30/kazakistan-misteriosi-segni-terreno-che-si-vedono-solo-spazio-c6d0bd66-7f10-11e5-882e-dcc202b27802.shtml

Corriere 31.10.15
Lo studio su «Science»
Quei «buchi» tra i neuroni che il cervello riempie di ricordi Al microscopio Le proteine e gli zuccheri fanno spazio alle nuove informazioni
di Edoardo Boncinelli

Per quanto possa sembrare strano, noi non conosciamo ancora quasi niente su dove e come sono conservati i nostri ricordi, che costituiscono per noi un patrimonio inestimabile. Sappiamo che prima si fissano per breve tempo in un organo chiamato ippocampo, dove durano per secondi o minuti. Una parte di quelli si fissano poi per sempre o quasi, e costituiscono il tesoro delle nostre conoscenze. È di questo secondo tipo di ricordi, detti a lungo termine, che non conosciamo la sede e il meccanismo di immagazzinamento, anche se tutti siamo conviti che ciò avvenga nella nostra corteccia cerebrale e consista essenzialmente nell’allacciamento di nuovi contatti, detti «sinapsi» fra una specifica cellula nervosa, neurone, e tutte le altre. Ma come si formano questi nuovi contatti nervosi? Forse cominciamo a capirlo. La rivista Science pubblica una notizia estremamente interessante, ripresa da una comunicazione al Congresso Mondiale di Neuroscienze in corso negli Stati Uniti. I neuroni sono normalmente circondati da una fitta rete di molecole, prevalentemente proteine e zuccheri, che fu già notata alla fine dell’Ottocento dal nostro Camillo Golgi, ma di cui ignoravamo assolutamente la funzione, al punto di ritenerla un fenomeno irrilevante. Ebbene, si osserva oggi che intorno a una cellula nervosa che sta fissando un ricordo si viene a creare una sorta di buco in questa fitta rete. Il neurone che sta per immagazzinare un ricordo, attraverso la formazione di nuovi contatti, si viene a trovare rela-tivamente libero dalla rete di proteine e zuccheri che lo circondava fino a un attimo prima, e che continua a circon-dare tutti gli altri neuroni! La notizia appare clamorosa per l’importanza dell’argomento e per l’abbondanza delle indicazioni sperimentali, seppure indi-rette, che appaiono sostenerla. Intanto la rete di proteine e zuccheri che circonda i neuroni, detta Pnn, che sta per perineneuronal network , è piuttosto stabile, 180 minuti in media, che rappresenta un’eternità per un topo, l’animale nel quale sono condotti gli esperimenti in oggetto, mentre per esempio le proteine che si trovano all’interno dei singoli neuroni vengono sostituite ogni poche ore. L’evidenza più diretta viene dalle osservazioni micro-scopiche: intorno al neurone che si pre-sume stia per immagazzinare un ricordo a lungo termine si osserva una tempora-nea rarefazione della rete Pnn, un vero e proprio buco. Se si impedisce la forma-zione di un buco, si pregiudica l’appren-dimento del ricordo in oggetto, mentre se si distrugge un buco già formato, si cancella il corrispondente ricordo, per esempio negativo. Altera-zioni della rete si osservano in alcuni pazienti schizofrenici. La formazione dei buchi è rallentata nei problemi di apprendi-mento e esaltata nella creazione di ricordi allucinatori indotti dall’uso di certe droghe. Se tutto questo verrà confermato, si tratterà di un enorme avanza-mento della conoscenza e di un indubitabile aiuto nel tratta-mento dei problemi della memoria, tanto ridotta che esasperata.