venerdì 30 ottobre 2015

SULLA STAMPA DI VENERDI 30 OTTOBRE 2015:

GRANDI IDEE NUOVE
LA SEDICENTE NUOVA SINISTRA?

"UNIRE SINISTRA E CATTOLICI!!!
E VAI !!!
 Il Fatto 30.10.15
Ulivismi. “Unire sinistra e cattolici”
“Contro Renzi-Verdini-Cicchitto” D’Alema e la scissione Pd:
“Contro Verdini e Cicchitto dobbiamo rifare la sinistra”
“È frattura profonda col nostro elettorato. Serve reagire e riavviare un discorso anche coi cattolici in sofferenza”. Altre spine: Franceschini e Orlando
Stefano Fassina: “C’è già un pezzo importante che ha scelto di andar via, altri lo faranno: li stiamo incontrando per fare un nuovo partito”
di Giampiero Calapà e Wanda Marra

qui
 
Il Fatto 30.10.15
Mercanti al Nazareno
Il ruolo del costruttore Pessina, editore dell’Unità
Un ufficio nella sede del Pd per trattare affari e appalti
I proprietari del giornale renziano, usano la stanza del tesoriere democratico Bonifazi al largo del Nazareno come ufficio per i loro appuntamenti romani
di Marco Lillo

qui

 
il manifesto 30.10.15
Gli immigrati ci regalano 3 miliardi
Dossier Idos. Non sono quelli della flessibilità Ue, ma la differenza tra entrate fiscali e previdenziali assicurate dai "nuovi italiani" e le spese sostenute per loro dal nostro Paese
di Antonio Sciotto


Rappresentano quasi il 10% della popolazione italiana: gli immigrati hanno raggiunto ormai una ragguardevole dimensione numerica nel nostro Paese: secondo il dossier Idos 2015, infatti, l’Italia è uno dei grandi paesi europei di immigrazione, con 5.014.000 stranieri residenti alla fine del 2014 (incremento di 92 mila unità rispetto all’anno precedente), mentre i cittadini italiani all’estero, aumentati di 150 mila unità, sono 4.637.000.
I dati emergono dal Dossier statistico Immigrazione 2015, a cura dell’Idos in collaborazione con Confronti e Unar: il rapporto spiega che l’incidenza degli immigrati sulla popolazione residente (8,2%) continua a essere superiore al valore medio europeo (6,2%). Inoltre, il Dossier ha stimato in 5.421.000 persone la presenza straniera regolare complessiva, includendovi anche i soggiornanti non comunitari in attesa di registrazione anagrafica.
Gli stranieri residenti in Italia per oltre la metà sono cittadini di un paese europeo (oltre 2,6 milioni) e per poco meno del 30% provengono da un paese della Ue (1,5 milioni). La collettività più numerosa è quella romena (1.131.839), seguita dai cittadini dell’Albania (490.483), del Marocco (449.058), della Cina (265.820) e dell’Ucraina (226.060).
Ma l’arrivo degli immigrati nel nostro Paese rappresenta un costo o un beneficio? Sicuramente il costo c’è, come è ovvio, ma poi facendo i calcoli risulta molto più alto il beneficio: secondo una stima riportata nel Dossier, le entrate fiscali e previdenziali ricollegabili ai lavoratori immigrati sono state nel 2013 pari a 16,6 miliardi di euro, mentre il totale delle uscite sostenute nei loro confronti è stato di 13,5 miliardi. Il saldo quindi è positivo di 3,1 miliardi di euro: che poi, pensandoci bene, è più o meno la cifra in maggior «flessibilità» sul deficit che dovrebbe concederci la Ue proprio a causa della cosiddetta «emergenza migranti». A ben vedere, quindi, 3 miliardi e rotti, grazie alla presenza degli stranieri, in cassa li mettiamo già.
Ancora, nel 2013 il contributo al Pil nazionale assicurato dagli occupati stranieri è stato di 123.072 miliardi di euro (l’8,8% del totale). In particolare, essi versano in media 7–8 miliardi di contributi l’anno ma, non riuscendo tutti a maturare il diritto alla pensione, l’Inps ha stimato che abbiano lasciato nelle casse previdenziali oltre 3 miliardi improduttivi di prestazioni. Attualmente, i cittadini non comunitari beneficiari di pensioni previdenziali per invalidità, vecchiaia e superstiti sono 35.740 (lo 0,2% di tutti i beneficiari), mentre i titolari di pensioni assistenziali sono 51.361 (l’1,4% del totale).
A livello abitativo, la morosità incolpevole ha motivato nel 2014 il 90% delle richieste di sfratto in Italia, coinvolgendo molte famiglie immigrate. I costi d’affitto nelle aree metropolitane, dove gli immigrati sono più numerosi, risultano decisamente più alti: molti capifamiglia stranieri hanno trovato un rimedio alle peggiorate condizioni di vita nel rimandare temporaneamente la moglie e i figli nel paese di origine. D’altra parte, complici la crisi occupazionale e le restrizioni nella concessione dei mutui, l’affitto resta la scelta maggioritaria per le famiglie di immigrati (62,8%), seguito dall’acquisto della casa (19,1%).
Altro dato interessante, i cittadini stranieri sembrano più “virtuosi” degli italiani, almeno dal punto di vista penale. Secondo il Dossier Idos, infatti, nel periodo 2004–2013 le denunce penali verso italiani sono aumentate del 28% mentre quelle a carico di stranieri sono diminuite del 6,2%. Al 30 giugno 2015, i detenuti nelle 198 carceri italiani erano 52.754, di cui 17.207 stranieri, cioè il 32,6% del totale, in calo del 4% rispetto a cinque anni fa. Nel contesto di una diminuzione globale della popolazione detenuta, sottolinea il dossier, gli straneri sono diminuiti in misura maggiore rispetto agli italiani.
Nel 2014 gli stranieri intercettati in condizione irregolare sono stati 30.906 (dati del ministero dell’Interno) e di essi il 50,9% è stato effettivamente rimpatriato (15.726). Gli arrivi via mare di profughi e altri migranti sono stati oltre 170 mila. Le richieste di asilo sono state 64.625 nel 2014 e 30.535 nei primi sei mesi del 2015.
Lo studio offre anche uno spettro delle religioni: gli immigrati cristiani sono quasi 2 milioni e 700mila e i musulmani più di 1 milione e 600mila (meno numerose le altre comunità religiose).
L’Idos ha passato allo scanner anche il sistema di accoglienza italiano per i richiedenti e i titolari di protezione internazionale: comprende 4 Centri di primo soccorso e accoglienza (Cpsa); 10 di accoglienza per richiedenti asilo (Cara) e di accoglienza (Cda); la rete Sprar (Sistema di protezione per rifugiati e richiedenti asilo) e le strutture di accoglienza temporanea (Cas). In particolare, le persone accolte dalla rete Sprar sono passate da 7.823 nel 2012 a 22.961 nel 2014, mentre a giugno 2015 la rete accoglieva solo il 25% dei 78 mila richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale, il 62% dei quali stava in strutture di accoglienza temporanea.

il manifesto 30.10.15
L’ambiente inquinato degli stati d’Europa
Cambiamento possibile. L’immigrazione e il cambiamento climatico saranno i temi centrali del confronto politico per i prossimi decenni
Le prospettive puramente nazionali o istituzionali sono del tutto insufficienti ad intaccare questi problemi
di Guido Viale


Due temi oggi centrali, apparentemente distinti, andrebbero invece connessi in modo diretto.
Primo, la COP 21 di Parigi, forse ultima occasione per un’inversione di rotta sul riscaldamento globale che rischia di rendere irreversibili i cambiamenti climatici già in corso. A questa minaccia abbiamo da tempo contrapposto il programma di una conversione ecologica, sulle tracce di Alex Langer e, ora, anche dell’enciclica Laudato si’ e del libro Una rivoluzione ci salverà dove Naomi Klein spiega che abbandonare i combustibili fossili richiede un sovvertimento radicale degli assetti produttivi e sociali; per questo le destre conservatrici, e non solo loro, sono ferocemente negazioniste. L’aggressione alle risorse della terra si lega alla povertà e alle diseguaglianze del pianeta: sia nei rapporti tra Global North e Global South, sia all’interno di ogni singolo paese: ciò che unisce in un unico obiettivo giustizia sociale e giustizia ambientale.
Secondo, i profughi. La distinzione tra profughi di guerra e migranti economici, su cui i governi dell’Ue stanno costruendo le loro politiche di difesa da questa presunta invasione di nuovi «barbari», non ha alcun fondamento: entrambi sono in realtà «profughi ambientali», perché all’origine delle condizioni che li hanno costretti a fuggire dai loro paesi, cosa che nessuno fa mai volentieri, c’è una insostenibilità provocata dai cambiamenti climatici, dal saccheggio delle risorse locali, dalla penuria di acqua, dall’inquinamento dei suoli, tutti fenomeni in larga parte prodotti dall’economia del Global North. Il problema occuperà tutto lo spazio del discorso politico e del conflitto nei prossimi anni. E, nel tentativo di scaricarsene a vicenda l’onere, sta dividendo tra loro i governi dell’Unione europea che avevano invece trovato l’unanimità nel far pagare alla Grecia la sua ribellione contro l’austerità. L’Ue, non come istituzione, e neanche nei suoi confini, bensì come ambito di un processo sociale, culturale e politico che abbraccia insieme all’Europa tutto lo spazio geografico e politico coinvolto da questi flussi, deve restare un punto di riferimento irrinunciabile per una prospettiva politica che, rinchiusa a livello nazionale, non ha alcuna possibilità di affermarsi.
Coloro che si sono riuniti per affermare un loro posizionamento riassunto nelle formule «No all’euro, No all’UE, No alla Nato» (declinate in termini di sovranità nazionale, anche con lo slogan «Fuori l’Italia dalla Nato», che lascia da parte l’Europa) si sono dimenticati dei profughi. Nella loro prospettiva a fronteggiare i flussi presenti e futuri, sia con i respingimenti che con l’accoglienza, resterebbero solo gli unici due punti di approdo di questo esodo: Italia e Grecia. Ma mentre l’Europa nel suo complesso avrebbe le risorse per farvi fronte, l’Italia, con una recuperata sovranità — posto che la cosa abbia senso e sia realizzabile – ne rimarrebbe schiacciata: il che forse rientra tra le opzioni della governance europea, non tra le nostre.
Quei flussi migratori stanno però creando una frattura sociale, culturale e politica anche all’interno di ogni paese: tra una componente maggioritaria, ma non ancora vincente, di razzisti, che vorrebbero sbarazzarsi del problema con le spicce, e una componente solidale, oggi minoritaria, ma tutt’altro che insignificante (come lo è invece la maggior parte della sinistra europea).
Tra loro i governi dell’Europa si barcamenano: dopo aver aizzato il loro elettorato, per fidelizzarlo, contro i popoli fannulloni e parassiti che sarebbero all’origine della crisi economica, si rendono ora conto che quel tema gli sta sfuggendo di mano e viene ripreso, in funzione anti-migranti, da forze ben più capaci di loro di metterlo a frutto.
Se per fermare quei flussi bastasse adottare misure molto dure, come barriere, respingimenti, esternalizzazione dei campi, esclusione sociale e carcerazione, probabilmente avrebbero già vinto i nostri antagonisti. Ma le cose non stanno così.
Innanzitutto quei profughi e migranti sono già, per molti versi, cittadini europei, perché si sentono tali: vedono nell’Europa la zona forte di un’area molto più vasta, quella dove si manifestano gli effetti dei processi – guerre, dittature, devastazioni, cambiamenti climatici – che li hanno costretti a fuggire.
Pensano all’Europa come a un loro diritto: un sentire che li pone in aperto conflitto con i governi dell’Unione, che di quel diritto non ne vogliono sapere. Per questo sono una componente fondamentale del proletariato europeo che esige un cambiamento di rotta fuori e dentro i confini dell’Unione.
Poi, sigillare la «fortezza Europa» non è semplice: significa addossarsi la responsabilità di una strage continua e crescente che sconfina con una politica di sterminio pianificata e organizzata: un processo già in corso da tempo e taciuto nel suo svolgimento quotidiano. Ma quanti sanno che i morti nei deserti, durante la traversata verso i porti di imbarco, sono più numerosi degli annegati nel Mediterraneo?
Terzo: la chiusura delle frontiere non può che tradursi in feroce irrigidimento degli assetti politici interni: repressione, autoritarismo, disciplinamento e limitazione delle libertà; a complemento delle politiche di austerità.
Infine, in una prospettiva di militarizzazione sociale non c’è spazio per la conversione ecologica e la lotta contro i cambiamenti climatici. Ma il deterioramento di clima e ambiente procederà comunque, trovando la fortezza Europa sempre più impreparata sia in termini di mitigazione che di adattamento.
Per questo accoglienza, inclusione e inserimento sociale e lavorativo dei profughi si innestano sui programmi di conversione ecologica: attraverso diversi passaggi: occorre prendere atto che i confini dell’Europa non coincidono né con quelli dell’euro, né con quelli dell’Unione o della Nato, ma abbracciano tutti i paesi da cui provengono i flussi maggiori di migranti: Medio Oriente, Maghreb, Africa subsahariana.
Occorre saper vedere nei profughi che raggiungono l’Europa, o che sono già insediati in essa, ma anche in quelli malamente accampati ai suoi confini, i referenti – grazie anche ai rapporti che continuano a intrattenere con le loro comunità di origine – di un’alternativa sociale alle forze oggi impegnate nelle guerre, nel sostegno alle dittature e nelle devastazioni dei territori che li hanno costretti a fuggire. Non c’è partigiano della pace migliore di chi fugge dalla guerra; né sostenitore della rinascita del proprio paese più convinto di chi ha subito le conseguenze del suo degrado.
Dobbiamo vedere nell’inserimento lavorativo dei profughi una componente irrinunciabile della loro inclusione sociale e politica. Per questo occorrono milioni di nuovi posti di lavoro, un’abitazione decente e un’assistenza adeguata sia per loro che per i cittadini europei che ne sono privi. Non bisogna alimentare l’idea che ai profughi siano destinate più risorse di quelle dedicate ai cittadini europei in difficoltà.
La conversione ecologica e, ovviamente, la fine delle politiche di austerità possono rendere effettivo questo obiettivo. I settori in cui è essenziale intervenire sono noti: fonti rinnovabili, efficienza energetica, agricoltura e industria di piccola taglia, ecologiche e di prossimità, gestione dei rifiuti, mobilità sostenibile, edilizia e salvaguardia del territorio. Oltre agli ambiti trasversali: cultura, istruzione, salute, ricerca.
L’establishment europeo non ha né la cultura, né l’esperienza, né gli strumenti per affrontare un compito del genere; ha anzi dimostrato di non volere accogliere né includere neanche milioni di cittadini europei a cui continua a sottrarre lavoro, reddito, casa, istruzione, assistenza sanitaria, pensioni.
Meno che mai si può affidare quel compito alle forze «spontanee» del mercato. Solo il terzo settore, l’economia sociale e solidale, nonostante tutte le aberrazioni di cui ha dato prova in tempi recenti — soprattutto in Italia, e soprattutto nei confronti dei migranti — ha maturato un’esperienza pratica, una cultura e un bagaglio di progetti in questo campo.
Per questo è della massima importanza impegnarsi nella promozione di questi obiettivi, anche utilizzando la scadenza del Forum europeo dell’Economia sociale e solidale a Bruxelles il prossimo 28 gennaio.

La Stampa 30.10.15
L’ultimo schiaffo della Chiesa cattolica a Marino: “Adesso serve un’amministrazione all’altezza”
Bagnasco: ci auguriamo che Roma possa procedere a testa alta e con grande efficienza
di Giacomo Galeazzi

qui

 
il manifesto 30.10.15
Laboratorio Roma per un Pd renziano sempre più a destra
Elezioni 2016. La fallita mediazione fra Pd e Marino dà corpo a una strategia che coinvolge l’intero quadro politico nazionale. In caso di successo si prefigurerebbe una nuova e molto diversa alleanza con la quale presentarsi agli elettori in primavera
di Andrea Colombo


La capitale morale sarà pure Milano, ma è a Roma che si sta già giocando, e tanto più si giocherà nei prossimi mesi, una partita la cui valenza va molto oltre le pur non trascurabili mura capitoline.
Alla fine dell’incontro di martedì notte tra Matteo Orfini e Ignazio Marino, la delegazione del Nazareno aveva ben chiaro in mente cosa sarebbe successo oggi, e la brutta notizia non ha tardato a rimbalzare oltreoceano. Al premier, nella notte, il quadro è stato immediatamente evidente: se da un lato è a questo punto fondamentale ottenere la caduta della giunta Marino, dall’altro quella caduta non può essere provocata da una torbida sinergia tra il Pd, Forza Italia e il Movimento 5 Stelle.
Fosse solo una questione di aritmetica, il tetto di consiglieri dimissionari necessario per chiudere i giochi col riottoso sindaco verrebbe facilmente superato, e se non si trattasse di Roma si potrebbe procedere senza indugi. Ma nella Capitale non si può, perché appunto la partita che si gioca intorno al Campidoglio ha una immediata ricaduta nazionale e il prezzo dell’alleanza spuria sarebbe salato in tutte le città chiamate al voto in primavera.
Le dimissioni dei consiglieri della destra o delle cinque stelle possono essere tutt’alpiù aggiuntive, non determinanti.
Così, già subito dopo l’incontro fallito, aspettando il passo già certo di Marino, ha preso corpo una strategia che, se coronata da successo, coinvolgerebbe inevitabilmente l’intero quadro politico nazionale.
I ragazzi del Nazareno si sono messi in caccia dei voti necessari a sgambettare il recalcitrante senza soccorsi azzurri o pentastellati. Ma lo fanno sapendo perfettamente che, in caso di successo, si prefigurerebbe una nuova e molto diversa alleanza con la quale presentarsi agli elettori in primavera: Lista Marchini e Ncd, più qualche voto della Lista Marino stessa, spianando così la strada per una candidatura Marchini, sulla quale ragionano del resto anche a palazzo Grazioli.
Sarebbe il segno di un definitivo e aperto passaggio del Pd dall’area di centro, nella quale Matteo Renzi lo ha già saldamente collocato, a quella di centrodestra. Trattandosi di Roma, sarebbe impossibile contrabbandare il modello come casuale e circoscritto a una «realtà locale».
In buona misura, la natura del futuro Pd dipende da quel che succederà nelle prossime ore a Roma e poi, a maggior ragione, dal responso degli elettori quando saranno chiamati a dire la loro.
Se la strategia allestita nella notte da un Pd nonostante tutto spiazzato da Marino non funzionerà, perché raggranellare 25 voti senza le opposizioni è tutt’altro che facile, la partita proseguirà al buio e la perdita di Roma alle elezioni è già messa nel conto.
Tra i difetti di Matteo Renzi non figura l’ingenuità. Sa bene che la mossa di Marino prelude molto probabilmente alla presentazione di una sua lista civica che segnerebbe la sorte del Pd nelle urne. Il premier ha deciso di andare avanti comunque, convinto che anche senza la lista Marino la sconfitta a Roma sarebbe se non certa, molto probabile.
Anche in quel caso, però, il test romano inciderà a fondo sulla politica nazionale. Renzi verificherà da quale nemico debba maggiormente guardarsi nelle elezioni politiche.
Se sarà il centrodestra, la cui forza è tutta nella coalizione, il premier si terrà ben stretto l’Italicum così come è, ma se invece sarà il Movimento di Grillo, che punta invece sulla lista, le cose potrebbero cambiare e Renzi potrebbe scegliere di riaprire le porte al premio di coalizione. Pronto a ripetere su scala nazionale quello che sta tentando in queste ore a Roma: un cartello di centrodestra con il suo Pd come perno.

Repubblica 30.10.15
Ore da incubo per il Pd ira di Renzi contro Orfini “Poteva fermarlo prima”
Riunione con i 19 consiglieri a caccia di altre 6 firme Il commissario: basta, Roma non è proprietà di Marino
Orfini vacilla, anche la minoranza del Pd lo attacca
Stumpo: “Nel partito non si è discusso”
Scioglimento atteso oggi Summit di sette ore per convincere i dem e parte dell’opposizione
Panico tra i dem quando arriva la notizia della sfida del sindaco. Marchini ago della bilancia
di Tommaso Ciriaco e Giovanna Vitale


ROMA La porta dello studio di Matteo Orfini non è chiusa, semmai sprangata. Dentro boccheggiano diciannove consiglieri del Pd romano, fuori si consuma la crisi più lacerante dell’era Renzi. «Non usciamo da questa stanza — promette il presidente del partito — finché non mandiamo a casa Marino». E invece alle 22, dopo sette interminabili ore, la compagnia abbandona stravolta largo del Nazareno senza lo scalpo del sindaco. Servono 25 eletti disposti a mollare il Campidoglio, sei in più dei democratici. La rincorsa diventa disperata, i sei dell’opposizione alzano il prezzo. I dimissionari, questo è l’accordo firmato sulla sabbia, dovrebbero presentarsi stamane al Comune per sancire l’addio. Dovrebbero, perché a sera il commissario chiama Matteo Renzi e ammette: «Ci siamo, ma solo se stanotte qualcuno non ci ripensa». Montagne russe, appunto. Con il Partito democratico sull’orlo di una crisi di nervi.
Il fuso orario cubano disturba il premier, ma è nulla rispetto alla grana capitolina e alle continue telefonate di Orfini. «Devi chiudere questa storia, adesso», è il mandato di Palazzo Chigi. Assomiglia a un ordine, in realtà, perché il pasticcio di Roma ha scavato un solco tra i due: «Marino è un irresponsabile e sembra aver perso la testa. Ma tu — attacca il capo del governo — dovevi chiuderla prima, te l’avevo detto. Ora siamo nei casini».
In serata Orfini e il capogruppo Fabrizio Panecaldo in una dichiarazione congiunta ribadiscono che il percorso «chiaro e trasparente» è tracciato: «Domani Roma volta pagina». Si va alle dimissioni, «Roma non è proprietà privata» di Marino. «Spiace che lui abbia vanificato uno sforzo per individuare soluzioni che avessero al centro la città e non i destini personali».
L’obiettivo minimo è buttarsi alle spalle l’incubo e nominare al più presto (già oggi, se possibile) il commissario prefettizio che traghetti la città al voto. Circolano i nomi di Paola Basilone, Bruno Frattasi e Riccardo Carpino, con quest’ultimo in pole.
Questo è il dopo, il problema resta il presente. Per calare il sipario il presidente del Pd le tenta tutte. A metà pomeriggio propone la soluzione delle dimissioni di massa. «Meglio considerare lo scenario peggiore». Nessuno, però, si aspetta che il sindaco sparigli così presto. E invece alle 17 un consigliere mostra sull’iPhone l’ultimora più indigesta: “Marino ha ritirato le dimissioni”. Orfini barcolla: «E che vi devo dire...». Lascia la stanza, si attacca al cellulare. E compone il numero del premier.
Il capo del governo vuole tenersi alla larga dal pasticcio, però. Tocca a Orfini ballare. Rientra in stanza, azzanna alla giugulare i consiglieri in bilico. «Io posso anche saltare, ma qui saltiamo tutti. Non sono concesse defezioni ». La questione non è tanto se dimettersi, ma assieme a chi. «Io con Alemanno non firmo », annuncia senze mezze misure il renziano Nanni. «Firmo anche con Belzebù, pur di mandare a casa Marino », ribatte Corsetti. «Intanto assicuriamoci gli altri sei consiglieri», propone Orfini. Dalle 18 in poi la caccia diventa spietata. Si scandaglia il consiglio con l’obiettivo di trovare sei firme “potabili”: «Intesa con chiunque, purché non abbiano governato con Alemanno». Un eletto di Centro democratico dice subito sì. Venti consiglieri, dunque. Un altro della lista Marino pure, e sono ventuno. Cosimo Dinoi, del Misto, promette ma poi si sfila. L’alfaniano Cantiani invece accetta: ventidue.
L’ago della bilancia diventa Alfio Marchini, assieme al suo consigliere Alessandro Onorato. Il costruttore romano, in volo per Milano, prende tempo. Orfini lo pressa. «Forse non hai capito, io non so se domattina avrò ancora le mie diciannove firme. Dobbiamo andare in Comune anche stanotte». «Facciamo domattina alle sette», è la contro- proposta. Per tagliare il traguardo servono però altri due volenterosi: si valutano i due fittiani, che mai hanno governato con Alemanno.
La scossa del Nazareno fa traballare il partito. E chi oscilla paurosamente è proprio Orfini, investito dall’ira di Renzi e sottoposto al fuoco della minoranza interna. Qualcuno azzarda: è pronto alle dimissioni. Di certo è lui, secondo gli oppositori del renzismo, l’innesco per una tempesta perfetta. «Il tema non è Matteo — sostiene Nico Stumpo, bersaniano — ma l’assenza di un luogo in cui discutere. Marino è condannato? Possiamo almeno discutere se è giusta la pena di morte? Facciamo tante direzioni, convochiamone un’altra? ». L’opposizione interna fiuta l’odore del sangue. E mira a chi sta più in alto. «Tocca al premier metterci la faccia», sibila Alfredo D’Attorre. «Nessuno vuol fare sciacallaggio — riflette Davide Zoggia — ma il problema rischia di superare i confini della Capitale».
Le scorie di questo scontro intossicano anche gli scantinati del Campidoglio. E nessuno risparmia colpi a nessuno: «Chi attacca Orfini strumentalizza — si infuria il “turco” Francesco Verducci — Sono proprio quelli che hanno permesso al partito di Roma di farsi intaccare da Mafia capitale ».
Eppure gli oppositori interni scorgono il varco e sono pronti a chiedere le dimissioni di Orfini dalla presidenza del partito. «Un momentaccio», per dirla con Francesco Rutelli.

Repubblica 30.10.15
Marino e il «baco» della legge sui sindaci
di Lina Palmerini

qui
 

Corriere 30.10.15
Speranza: sbagliato chiudere il dialogo Così ci si fa del male
intervista di Monica Guerzoni


ROMA «Sulla Capitale c’è un’attenzione mondiale...».
E non è un bello spettacolo, onorevole Roberto Speranza.
«Consiglio a Renzi di intervenire in prima persona per costruire una exit strategy. Marino è un sindaco del Pd e a Roma ci sarà il Giubileo».
Teme che Marino si candidi contro il Pd?
«L’unica strada è il dialogo tra Renzi e Marino. Il segretario e il sindaco si vedano e provino a costruire un’uscita dalla crisi».
Renzi ha negato al sindaco l’onore delle armi, perché dovrebbe cambiare idea?
«Siamo su un crinale in cui si fa male alla città e al Pd, rischiamo di uscirne sconfitti».
È un errore far dimettere i consiglieri del Pd?
«Marino risponde alla comunità che lo ha eletto e il Campidoglio deve poter discutere di questa vicenda. E poiché Marino non può andare avanti senza il sostegno del Pd, lui e Renzi devono trovare una via di uscita. Bisogna evitare un’impasse che fa male a tutti».
Di chi è la colpa?
«In un momento delicatissimo, a me interessa poco fare il giudice. Da parte della minoranza non sarebbe responsabile aprire un dibattito per individuare le colpe di Marino, o sul perché Renzi abbia deciso di non occuparsene. Il punto è che non ne esce bene il Pd, né la città di Roma».
Marino avrà il sostegno della minoranza?
«È prematuro parlare dei destini di Marino».
E Matteo Orfini?
«Deve gestire una situazione molto complicata e a me non piace fare processi».
Per il dopo-Marino si fa anche il nome della Lorenzin.
«I sindaci andranno scelti con le primarie e sono sicuro che gli elettori del centrosinistra sceglieranno una personalità di centrosinistra, non di centrodestra. Le primarie sono il migliore antidoto al Partito della nazione».
Intanto il Pd continua a perdere pezzi, a sinistra.
«Ogni uscita è un fatto molto negativo e il gruppo dirigente non lo può archiviare con una scrollata di spalle. Ma bisogna interrogarsi su una inquietudine che, nei territori, è molto più larga e profonda che in Parlamento».
Ci sarà la scissione?
«Lo schema non può essere o fai l’applauso su tutto, o esci. Per me la scelta giusta è restare e battersi con coraggio, perché il Pd rimanga un grande partito di centrosinistra, a cominciare dalla legge di Stabilità».
Lei ha già detto che la vota.
«Non è vero che non ci sia nulla dell’impostazione di centrosinistra. Certo, lavoreremo per migliorarla. La retromarcia su ville e castelli è apprezzabile, ma non sufficiente».
Per Renzi, i fondamentali non si toccano.
«Sulla casa stiamo commettendo un errore, mi batterò per un criterio di progressività».
Per Renzi la legge di Stabilità deve parlare alla maggioranza degli italiani, non alla minoranza del Pd.
«Se dico che sulla sanità mancano quattro miliardi non lo faccio per la minoranza del Pd, ma perché serve all’Italia un welfare solido e universale ».

Corriere 30.10.15
La linea di Renzi: andare fino in fondo Quei dubbi sulla gestione di Orfini
Il leader dem e la strategia di allargamento al centro per le Comunali: a Roma Lorenzin in pole
di Maria Tersa Meli


ROMA «Per fortuna che mi era stato detto che al mio ritorno avrei trovato tutto a posto, che il problema della Capitale sarebbe stato risolto»: quando arriva a Roma Matteo Renzi preferisce buttarla sullo scherzo, con i collaboratori, ma è ovvio che il presidente del Consiglio non è affatto contento della situazione romana.
Prima Matteo Orfini gli aveva assicurato che Ignazio Marino non avrebbe ritirato le dimissioni (e il commissario del partito capitolino aveva confermato questa sua opinione ancora ieri pomeriggio all’inizio della riunione dei consiglieri comunali del Pd). Dopo, quando il sindaco aveva dimostrato quanto fossero fallaci le sue previsioni, Orfini aveva tranquillizzato Palazzo Chigi: abbiamo lo stesso i numeri per farlo andare via. Ma a sera quei numeri citati dal commissario del Pd romano erano ancora ballerini.«Si vada fino in fondo con le dimissioni dei consiglieri, non voglio nemmeno contemplare l’ipotesi che Orfini non ne trovi 25», sono le parole di Renzi ai suoi. E qualche ora più tardi, quando ormai è notte, Renzi viene «accontentato».
Il premier ieri avrebbe voluto godersi il successo della missione in Sud America e buttarsi poi a capofitto sulla legge di Stabilità. In parte lo ha fatto. Ma solo in parte. Perché, per quanto abbia deciso di non farsi «invischiare» dalla «palude» romana, Renzi non ha potuto fare a meno di seguire le vicende capitoline. Per carità, da parte sua c’è ancora il «massimo sostegno» a Matteo Orfini, ma c’è anche tanta impazienza, per una vicenda che si poteva risolvere prima. «Mi è stato detto — si è sfogato il premier con i collaboratori — che bisognava continuare ad appoggiare Marino e che la sua giunta andava rafforzata con degli innesti esterni, ma poi è andata come è andata». E ora bisogna evitare che la situazione diventi «ingestibile». Perché non è certo il caos romano permanente ciò che vuole il presidente del Consiglio, che ha di fronte a sé delle elezioni amministrative che rappresenteranno, suo malgrado, un banco di prova per il suo governo.
Come se non bastasse, la minoranza del Partito democratico ha utilizzato e sta utilizzando ancora il «caso Marino» nella sua battaglia contro il premier. «Anche su questo debbono attaccarmi, tutto pur di mettermi in difficoltà», commenta amaro Renzi con i collaboratori.
Insomma, per il premier quella di ieri è stata una giornata difficile. Eppure Renzi sta già pianificando la sua strategia elettorale. A Roma come a Milano. Niente accordi preventivi con Sel, come in passato: alle amministrative, secondo le sue intenzioni, dovrebbe debuttare il nuovo Pd. Che a Milano dovrebbe avere il volto di Giuseppe Sala e nella Capitale potrebbe avere quello della ministra della Sanità, la ncd Beatrice Lorenzin.
Dunque la caccia all’elettorato di centro è aperta. Le elezioni di giugno, in alcune città italiane, potrebbero quindi servire a lanciare il Pd di rito renziano, che guarda anche a nuove alleanze. E il referendum consultivo, che seguirà dopo qualche mese, potrebbe servire a cementare questo nuovo schieramento: i comitati per il «sì», che saranno numerosi e sparsi in tutta Italia e che raccoglieranno tutte le forze politiche favorevoli alla riforma costituzionale, dovrebbero essere la fucina in cui forgiare la coalizione che scenderà poi in campo alle elezioni politiche.
Questi sono i piani di palazzo Chigi per il futuro, ma ora c’è il presente da affrontare. E per farlo occorre che oggi a Roma 25 consiglieri comunali si dimettano.

Corriere 30.10.15
Lo strappo di Marino e le indecisioni del Pd che fanno male a roma
Senso civico Il ritiro delle dimissioni è un caso politico grave
Ma anche fare il commissario cittadino di un partito in crisi avrebbe imposto a Matteo Orfini migliore tempismo e un coraggio maggiore
Fuoco amico Decidendo di cadere in aula, allo scoperto, spettacolarizza oltre ogni limite lo scontro con chi l’ha portato in Campidoglio
di Antonio Macaluso


Un amministratore pubblico dovrebbe essere competente, onesto e con uno spiccato senso dello Stato. Dovrebbe, insomma, incarnare quella figura di civil servant da tempo smarrita. Di Ignazio Marino era nota, in maniera evidente, una insufficiente competenza nel ricoprire il ruolo di sindaco di Roma. Sulla sua onestà, nel migliore dei casi — ma saranno i magistrati a dircelo — dovremmo parlare di gestione pasticciona.
Quello che stiamo scoprendo in questi giorni è che del senso dello Stato il sindaco ha una visione tutta sua. Inaccettabile.
Alla ricerca di vendetta nei confronti di chi — tardivamente — ha deciso di interrompere il suo mandato, Marino mette da parte il bene della città, procrastinando una situazione di incertezza. E dopo una trattativa con il suo (ex?) partito, nella quale non si è capito cosa chiedesse. Mentre si erge a paladino della legalità e della trasparenza, il sindaco conduce un’opaca battaglia sul suo futuro. Avrebbe fatto bene — a questo punto occorre scrivere al passato — a spiegare «in chiaro» le sue richieste per uscire dalla sua cavillosa trincea.
Il ritiro delle dimissioni annunciato ieri è un fatto grave, uno strappo istituzionale, prima ancora che con il Pd. Questo proporsi come unico guardiano del bene pubblico, facendo finta (e c’è perfino da augurarselo) di credere all’incoraggiamento di qualche migliaio di sostenitori — poca cosa rispetto a milioni di abitanti indignati — che gli chiede di restare al suo posto è una forzatura di cui proprio non si sentiva il bisogno. Uno scudo di cartone.
Essere civil servant , è cosa ben diversa. Ma anche — pensiamo a Matteo Orfini — fare il commissario di un Pd romano in crisi avrebbe imposto un coraggio e una determinazione che non si sono visti. Il giovane dirigente del Pd, peraltro più volte in contrasto con il segretario del suo partito, Matteo Renzi, su questa linea morbida nei confronti di Marino, forse non si aspettava che il sindaco-marziano potesse trasformarsi in sindaco-ultimo giapponese. La beffa di questa vicenda è quasi da manuale di strategia politica: il Pd non è riuscito (perché ancora una volta diviso) a difendere il «suo» sindaco quando avrebbe dovuto e non è riuscito a mandarlo a casa quando Marino ha deciso di vender cara la pelle.
Ora, tutto si fa più difficile, traumatico, i tempi si dilatano. Per «dimissionare» comunque il sindaco, i 19 consiglieri pd dovranno abbandonare in blocco, senza defezioni (e questa non è la cosa più scontata, tenuto conto della dialettica interna al partito). Ma a loro dovranno aggiungersene almeno altri 6, per arrivare alla fatidica soglia dei 25, quella che sancisce l’ingovernabilità de facto della città. Insomma, il Pd dovrà lasciare in blocco il Campidoglio per far cadere il sindaco eletto con i suoi voti e l’opposizione dovrà fare altrettanto per fare il suo mestiere, dando però una mano al partito di maggioranza (e la tentazione di uno sgambetto si affaccia, all’ombra di qualche conversare riservato).
Decidendo di cadere in aula, allo scoperto, Marino ha dunque deciso di spettacolarizzare oltre ogni limite politico lo scontro non già per la guida di Roma, ma con il partito che in Campidoglio lo ha portato. E che si presenta oggi come il vero, grande sconfitto di tutta questa intricata partita, cominciata male (quante incertezze, ancor prima ancora che Marino vincesse le elezioni e diventasse sindaco) e che sta finendo peggio. Uno scenario politico da incubo, che si intreccerà presto, molto presto, con il profluvio di veleni che — c’è da esserne certi — si diffonderanno con il processo a Mafia Capitale il cui inizio è previsto per il 5 novembre, la prossima settimana.
L’intreccio affari-malavita-politica che la Procura guidata da Giuseppe Pignatone ha già in gran parte disvelato, è destinato ad offrire nuovi spunti, aprire nuove ferite nel tessuto operativo della città, scatenare nuove faide all’interno dei partiti, Pd in testa.
I grandi protagonisti di quel processo, i Buzzi, i Carminati, hanno ancora molte cose da raccontare, cose che potrebbero riversarsi come miasmi su una classe politica già devastata e a corto di credibilità. Ma potrebbe essere proprio questa, a voler essere ottimisti, la scintilla per riaccendere il desiderio di un cambiamento di rotta. E, nel caso ce ne fossero nascosti da qualche parte, far uscire allo scoperto quegli «anticorpi morali» della cui esistenza dubita il commissario anticorruzione, Raffaele Cantone.

Corriere 30.10.15
Una resa dei conti che lascerà strascichi a lunga scadenza
di Massimo Franco


Per quanto abbia deciso di esorcizzarlo, il caso Marino rotola tra i piedi di Matteo Renzi. E lì rimane. La durezza, perfino il filo di disprezzo con i quali il presidente del Consiglio fa sapere di non volersene occupare sono un segno, se non di debolezza, di imbarazzo. Perché
il segretario del Pd è lui, e ne viene investito oggettivamente. E il caos che continua a bloccare l’amministrazione capitolina e lacerare i democratici chiama in causa anche lui. Il leader può mostrarsi sdegnosamente estraneo a quanto succede; e delegare al commissario romano Matteo Orfini il compito di mobilitare e pilotare i consiglieri verso le dimissioni.
L’ultimo atto dovrebbe consumarsi questa mattina presto, lasciando il sindaco di Roma da solo. L’aiuto chiesto affannosamente ad Alfio Marchini, che da tempo si è autosospeso in polemica con Marino, e ad altri singoli consiglieri per racimolare i venticinque voti della sfiducia, dà il senso della disperazione dem. Non è proprio scontato che la manovra riesca. E comunque, sarà difficile scindere l’eventuale fallimento politico della mediazione di Orfini da Renzi: anche perché Palazzo Chigi gli ha dato una piena investitura. Se il pasticcio romano non parte dal premier, si consuma comunque nella sua stagione; e comunque c’è chi si prepara ad intestarglielo, più o meno strumentalmente.
La sfida di Ignazio Marino, che prima ha detto che se ne andava e ieri ha comunicato di voler restare, è in primo luogo al capo del governo nazionale e leader del Pd. La fretta renziana di chiudere la vicenda scopre il timore di un logoramento crescente come riflesso della lotta intorno al Campidoglio. Ma porta anche a chiedersi se l’inchiesta sulle note spese di Marino basti a far capire all’elettorato un ordine di sfratto arrivato dopo mesi di quasi santificazione. Anche perché il «tutti a casa» contiene qualche eccezione vistosa. Non tutti i dem, infatti, sono d’accordo.
C’è chi teme di non essere rieletto, intravedendo l’ondata del Movimento 5 Stelle. E dunque si ostina ad aggrapparsi a Marino perché non ha nulla da perdere. Ognuno cerca parole ad effetto per descrivere lo spettacolo surreale del Campidoglio. Parla perfino l’ex sindaco del centrodestra Gianni Alemanno, indicato come uno dei responsabili politici dell’infiltrazione da cui è nata l’inchiesta Mafia capitale. Ma di fronte al disastro attuale, chiunque si sente legittimato ad additare il Pd: la sua guerra interna oscura ogni malefatta del passato. E sindaci di altre città come Leoluca Orlando e Luigi de Magistris difendono Marino, parlando di «operazione chiarezza».
Le opposizioni se la prendono col sindaco ma anche col Pd. E i dem si dividono tra i renziani che martellano Marino, e la minoranza che accusa Renzi di avere sottovalutato la questione. Ma la vicenda minaccia di seppellire un’intera nomenklatura. Esalta l’abilità e i limiti di un sindaco magari affetto da narcisismo e convinto di essere al di sopra di ogni sospetto di incompetenza, prima che di immoralità. In parallelo, però, mette a nudo un Pd nazionale che predica bene ma si impantana nelle beghe locali, incapace di gestire le situazioni difficili. C’è solo da sperare che in altri consessi sappia districarsi in modo meno maldestro.

Repubblica 30.10.15
La città affondata
di Claudio Tito


ERA una tragedia, sta diventando una farsa. E tutto a danno della città di Roma. Anzi, nel totale disinteresse nei confronti della Capitale d’Italia. La scelta di Marino di ritirare le dimissioni, infatti, ha ormai assunto toni grotteschi. Appena sedici giorni fa, aveva annunciato formalmente l’addio al Campidoglio.
DOPO un ridicolo quanto nocivo balletto, è tornato sui suoi passi. Per di più senza un apparente motivo. Non sono cambiate le condizioni politiche, non è mutato il giudizio del suo partito, il Pd. È cambiata semmai la sua condizione giudiziaria. Ora è indagato. Proprio per quella penosa vicenda degli scontrini, dei ristoranti pagati con un uso- diciamo così - maldestro della carta di credito intestata al Comune. Una circostanza che rende ancor più grave il voltafaccia. Lo avvolge in un alone di sospetto.
Ma al di là di quel che stabilirà la magistratura, non è accettabile che la prima città di questo Paese venga maltrattata in tal modo. Il punto, adesso, non è se Marino abbia o no abusato delle casse del Campidoglio. Ma cosa ha fatto e sta facendo per i cittadini. Questo comportamento da “marziano”, sebbene folcloristico, ha una sola vittima: Roma. È evidente che da due settimane la macchina amministrativa comunale sia stata congelata. Le dimissioni, anche solo annunciate, producono degli effetti. In particolare su un apparato complesso come quello capitolino. Far finta di essere estraneo a queste logiche, trasforma appunto la tragedia in farsa. È come se Marino giocasse a fare il “marziano” e il suo obiettivo fosse solo quello di stupire e di proteggere la sua immagine. Ma dietro quel gioco, ci sono le sorti di una comunità intera. Che rischia così di subire un ultimo sfregio.
Anche perché questo esito inglorioso non è il frutto di una persecuzione o di un complotto come vuol lasciar credere l’ex chirurgo, ma è il prodotto di quel che non si è fatto in due anni e mezzo di sindacatura.
Questa città sembra ormai guardarsi allo specchio mentre affonda. Appare più impantanata di due anni fa, peggio gestita di cinque anni fa e ancora peggio di dieci anni fa. Assomiglia ormai a un condominio incapace di svolgere anche la basilare manutenzione e assuefatto alla malagestione.
Queste sono in primo luogo colpe del sindaco. La sua responsabilità è stata proprio quella di aver inverato l’incubo che agitava uno dei suoi più grandi predecessori, Giulio Carlo Argan: «Non conosco una città che sappia peggiorare meglio di Roma».
Il rapporto con la città e con i suoi abitanti si è irreversibilmente rotto. Nessuno può pensare che le non affollatissime manifestazioni di sostegno costituiscano la prova di un legame ancora esistente. Quell’esile filo che aveva resistito, si è spezzato con lo scandalo di Mafia capitale e con la vicenda degli scontrini fantasma. Certo, la posizione di Marino nell’inchiesta sugli intrecci politico-mafiosi che pilotavano dall’alto il Campidoglio, non è quella di indagato. Sicuramente è estraneo a quelle ruberie. Ma esiste una responsabilità che va oltre il processo. Chi ha l’onore di amministrare una realtà importante deve avere la capacità di capire se chi gli sta vicino è un ladro oppure no.
Non si può nascondere che Roma presenta delle complicazioni peculiari. Marino ha ricevuto la pesantissima eredità di Alemanno, il cuore dell’inchiesta Mafia capitale. Questa, poi, è una città spesso pronta a metabolizzare anche gli oltraggi più profondi. Con una una società civile che raramente ha fatto pesare il suo ruolo e la voglia di essere un esempio per la politica.
Il sovrapporsi disastroso di questi fattori, rende la responsabilità di Marino ancor più pesante. Espone la sua comunità alla resa. La costringe nella disperazione di una soluzione positiva. Chi avrà il coraggio di caricarsi il fardello di questa città? E davvero possono essere le primarie a togliere da sole le castagne dal fuodo del Pd e dell’intero centrosinistra? Le primarie in alcune comunità del nostro Paese, rischiano di essere soprattutto una fuga dalla politica. Una cessione arrendevole di responsabilità.
Per tutto questo non è più comprensibile la lontananza esibita da Matteo Renzi. Il segretario del Pd non può far finta che non sia un suo problema. È comprensibile la voglia di stare lontano da una vicenda che genera dissenso. Ma non è accettabile. Marino è figlio della gestione precedente del Partito democratico. Non si può caricare sull’attuale leader, la colpa della scelta. Ma il sindaco di Roma è del Pd. E il segretario di quel partito non può delegare ogni cosa a un commissario. Se ne deve occupare, anche a costo di mettere le mani in un vaso pieno di spine. Non può permettersi il lusso di considerare la questione al di fuori del suo perimetro pertinenziale. La Capitale è una questione nazionale, non un affare locale da delegare a un messo. Il voto a Roma che si terrà la prossima primavera a questo punto sarà in primo luogo un test sul governo e sul Partito democratico. Si può immaginare, ad esempio, che in qualsiasi altro paese europeo, il leader del principale partito non si concentri per risolvere i problemi della Capitale e soprattutto non si intesti la via d’uscita? Le deficienze esibite sul Campidoglio saranno interamente pagate a livello nazionale. C’è un filo invisibile ma inscindibile tra Roma e il Paese. Come si leggeva in uno storico titolo dell’ Espresso del ‘56 “Capitale corrotta, nazione infetta”, una parte è conseguenza dell’altra. Nel bene e nel male. Renzi, dunque, eserciti il suo ruolo. E Marino, soprattutto, si affidi all’etica della responsabilità.

Repubblica 30.10.15
Psicodramma o colpo d’ala il bivio incerto del Pd romano
La sconfitta del centrosinistra della Capitale è sotto gli occhi di tutti: come uscire ora dalle sue beghe?
di Stefano Folli


Il grottesco psicodramma di Roma è ormai un disastro che getta fango su tutti i protagonisti. In un certo senso, il sindaco Marino oggi è quello che ha meno da preoccuparsi. Dotato di temerarietà al limite dell’incoscienza assai più che di coraggio, ha gettato nella fornace la sua credibilità personale, il suo presente e il suo futuro. Non avendo più nulla da perdere, può ritirare a cuor leggero le dimissioni e poi “vedere di nascosto l’effetto che fa”, come cantava Enzo Jannacci. La differenza è che Marino non si nasconde affatto e gioca sul palcoscenico del Campidoglio la sua ultima partita, convinto anzi di poterla vincere nell’aula consiliare. Ma se anche così fosse - e niente lo lascia presagire - , qual è il disegno politico che s’intravede dietro l’ubriacatura narcisistica? Di fatto, nessuno. L’uomo non avrebbe una maggioranza per governare e non sarebbe in grado di vincere le elezioni.
Qui infatti è l’equivoco di fondo: Marino pensa di essere popolare e amato dai romani, ma non è così. Prigioniero della sua frustrazione, ha creduto che i tremila sostenitori che si sono radunati domenica siano indicativi di un sostegno di massa. Ma è un’illusione destinata a evaporare presto, una volta esaurito l’effetto simpatia tipico delle situazioni “uno contro tutti”.
In realtà, per gestire un caso limite come quello che si è creato a Roma servirebbe un politico molto raffinato, capace di usare la piazza contro il palazzo e il palazzo contro la piazza. Viceversa, il sindaco è tutto meno che un politico consumato. È solo un uomo che ha perso la partita a causa dei troppi errori compiuti e che intende far pagare al Pd il prezzo del pasticcio, consapevole di essere sul piano personale ormai fuori da tutto.
S’intende che una lista civica non avrebbe senso, proprio perché riporterebbe a un personaggio e a un’esperienza di governo della città che i romani hanno di fatto già ripudiato.
Del resto, anche il richiamo insistito di Marino alle elezioni vinte nel 2013 è ambiguo. I voti allora ci furono, ma dietro il candidato del centrosinistra c’era la potente macchina del Pd, impegnata a sconfiggere l’esponente della destra, Alemanno, reduce da un primo mandato tutt’altro che positivo. Marino vinse non per il carisma personale, ma per l’intenso lavoro svolto dal partito che lo sostenne. Ne deriva che oggi non c’è futuro per il primo cittadino dopo la spaccatura irrimediabile con un Pd disastrato. Come non ci sarebbe per alcun sindaco in alcuna amministrazione.
La legge elettorale comunale ha dato una forte legittimità ai sindaci sulla base dell’elezione diretta, ma ha stabilito che il governo delle città passa attraverso il rapporto fra l’eletto e la sua maggioranza consiliare. Altrimenti non avremmo un sindaco, bensì un “caudillo” pronto a ogni avventura.
Oggi Marino vorrebbe essere un “caudillo”, anzi un Che Guevara riconosciuto come tale, un rivoluzionario che spezza tutti gli equilibri. Il problema è che, non avendo la statura politica, la sua sfida, peraltro tardiva e poco convincente, è solo un suicidio collettivo senza speranza di incrinare la sostanziale, scettica indifferenza dei romani. E si capisce.
Chi è disgustato dalla pantomima in cui si è disperso ogni residuo rispetto verso la città e i suoi abitanti, non andrà a votare. Gli altri, i fautori dell’anti-politica e i nemici della “casta”, hanno già fatto la loro scelta in favore dei Cinque Stelle. La rincorsa di Marino rischia solo di portare acqua al mulino dei grillini. Avendo in compenso assestato il colpo di grazia al Pd romano.
La sconfitta del centrosinistra romano è infatti sotto gli occhi di tutti. Renzi, che del Pd è pur sempre il segretario, pensa di separare la sua immagine da quella di chi ha gestito la crisi, ma è dubbio che ci possa riuscire. Senza dubbio gli occorre un colpo d’ala, una volta archiviato Marino con le dimissioni dei consiglieri. Un colpo d’ala significa un commissario davvero al di sopra delle parti e dotato di grande autorità personale. E poi un candidato sindaco lontano dal Pd cittadino e dalle sue beghe.

La Stampa 30.10.15
La madre le vieta il pc, la uccide a 17 anni
Reggio Calabria, punita per i brutti voti: aveva detto che era stato un rapinatore
di Gaetano Mazzuca


Non una rapina finita nel sangue, né tantomeno un suicidio. A uccidere Patrizia Crivellaro, infermiera 44enne di Melito Porto Salvo, il 25 maggio scorso e’ stata la sua stessa figlia di appena 17 anni. Un unico colpo di pistola sparato a bruciapelo per punire la madre che aveva deciso di vietarle computer e social network dopo i pessimi voti scolastici della ragazza. Non un raptus di follia, ma un’azione, sostengono gli inquirenti, messa in atto con «lucida freddezza e con premeditazione».
Sole in casa
Quella notte del 25 maggio madre e figlia erano sole in casa, il padre, agente della polizia ferroviaria, era impegnato nel turno di notte. La diciassettenne, dopo aver cenato, avrebbe aspettato che la madre si addormentasse, poi avrebbe impugnato la pistola del papà, si sarebbe avvicinata al letto e avrebbe esploso un unico colpo alla tempia. A quel punto avrebbe chiamato lo zio sostenendo di essere stata svegliata dal rumore dello sparo. Inutile la corsa all’ospedale per salvare la vita alla donna. Esclusa quasi subito l’ipotesi del suicidio, i carabinieri avevano iniziato a sospettare che la ragazzina avesse potuto avere un qualche ruolo nell’omicidio. Il racconto fornito dalla minore, infatti, non aveva trovato alcun riscontro. La ragazza aveva riferito di aver sentito un rumore e dopo essere scesa dal letto di aver visto fuggire un uomo alto più di due metri.
Il mosaico
Ma nella villetta gli investigatori non hanno trovato segni di effrazione, niente che potesse far pensare alla presenza di estranei nella casa. A quel punto le indagini si erano concentrate sui rapporti tra madre e figlia. I carabinieri avevano così scoperto le continue liti a causa del cattivo rendimento scolastico. Qualche tempo prima i professori avevano avvisato Patrizia Crivellaro delle continue assenze della figlia. A quel punto la madre aveva deciso di vietare alla ragazza l’uso di cellulare, computer e social network su cui la 17enne passava gran parte della giornata. Per gli inquirenti il movente del delitto si celerebbe proprio dietro questa punizione. Quelle chat erano diventate così importanti per la ragazza da arrivare a uccidere. Ma le sconvolgenti ipotesi dei carabinieri hanno poi trovato concretezza nelle analisi del Ris di Messina.
L’esame Stub
L’esame Stub ha fatto emergere particelle di polvere da sparo sulle mani e sugli abiti della minore che aveva sempre negato di aver mai maneggiato l’arma. Ciò che poi ha, infine, consentito di chiudere il cerchio è stato la presenza di ben tre impronte parziali sull’arma, una delle quali appartiene all’indice della ragazza. Ieri i carabinieri di Reggio Calabria hanno arrestato la giovane con l’accusa di omicidio aggravato dai motivi abbietti e futili.

Corriere 30.10.15
Gli inviti dei professori (anche italiani) a boicottare
Israele «Miopi e antisemiti»


È successo di nuovo. Un gruppo di accademici britannici (trecento, di cui molti studiosi italiani che lavorano negli atenei del Regno Unito) hanno firmato un appello pubblicato su una intera pagina del Guardian in cui annunciano di aver iniziato il boicottaggio di Israele e delle sue istituzioni accademiche. Il progetto è rompere le relazioni con gli atenei israeliani, non accettare i loro inviti e non invitare accademici di Israele, definito una «potenza occupante» dei territori palestinesi. Qualcosa di molto simile accadde già nel 2007, sullo stesso quotidiano.
Ronald Lauder, presidente del World Jewish Congress ha pacatamente definito «miope» l’appello britannico perché «qualunque boicottaggio è controproducente, la scienza dev’essere aperta a tutti e capace di condividere le scoperte dei migliori cervelli, siano essi israeliani, palestinesi o di altre parti del mondo». Le reazioni italiane sono più dure. Ruth Dureghello, presidente della comunità ebraica romana, si dice «inorridita» quando sente parlare di boicottaggio perché «è il preludio a una discriminazione inaccettabile, l’antisionismo è una bella maschera quando non ci si può dichiarare apertamente antisemiti». Victor Majar, assessore alla Cultura e alla Memoria dell’Unione delle comunità ebraiche italiane propone un ragionamento: «C’è, in quell’appello, un equivoco terzomondista. Israele viene descritto come un gigante oppressore. Questione ridicola, visto che quegli stessi atenei britannici intrattengono ottimi rapporti con paesi antidemocratici e retti da dittature oppressive. Negli atenei israeliani insegnano docenti di tutte le nazionalità e di tutte le religioni. E Israele è una grande democrazia». Chissà se i firmatari di quell’ennesimo appello hanno riflettuto fino in fondo su questo passaggio che non è esattamente un dettaglio insignificante.

Corriere 30.10.15
Rabin
Chi l’ha ucciso vent’anni fa aveva un obiettivo: fermare il processo di pace. Missione compiuta
di Etgar Keret


Quella dell’assassinio di Rabin non è una storia nuova. È una storia che noi israeliani ci raccontiamo da venti anni. Alcuni dettagli sono scomparsi col passar del tempo ma il pathos si è intensificato e alla fine siamo rimasti con la seguente versione: vent’anni fa qui regnava un re coraggioso e benvoluto, pronto a fare qualsiasi cosa per il bene del suo popolo. Un giorno, dopo aver radunato il popolo nella piazza principale della città e aver cantato insieme un inno alla pace, l’amato sovrano fu assassinato da uno dei suoi sudditi che, con tre colpi di pistola, non solo uccise lui ma anche la speranza della pace. Al posto di quel monarca ne arrivò un altro, grande nemico del precedente, che sostituì la speranza con il sospetto e con una guerra senza fine.
Ogni anno raccontiamo a noi stessi questa storia triste e piena di autocommiserazione in cui c’è tutto ciò che serve: un eroe, un malvagio, un crimine imperdonabile e una brutta fine. Manca però una cosa, un personaggio chiave che è stato cancellato dalla trama senza che quasi ce ne accorgessimo: il popolo di Israele.
Infatti, per quanto sia triste ammetterlo, Benjamin Netanyahu non ha strappato la corona a Rabin dopo la sua morte autoproclamandosi re. Netanyahu è stato eletto dopo la morte di Rabin nel corso di elezioni democratiche. Lo stesso popolo che ha pianto la morte dell’amato sovrano ha scelto Netanyahu subito e senza esitazione, accantonando completamente l’idea della pace, rieleggendolo più volte e optando per la sua linea politica. Così, a distanza di tempo, l’assassinio di Yitzhak Rabin si è rivelato uno degli omicidi politici più riusciti dell’era moderna che deve il suo successo non solo alla mano ferma del killer ma anche al popolo di Israele, il quale ha aiutato l’assassino a promuovere la sua visione ideologica.
La storia è piena di assassinii politici che hanno ottenuto l’effetto opposto di quello auspicato dai loro esecutori. L’assassinio di Martin Luther King promosse il processo di uguaglianza dei neri e quello di Lincoln non ripristinò la schiavitù negli Usa. Quello di Rabin, invece, ha realizzato il progetto dell’assassino, Yigal Amir, e fermato il processo di pace. Ma Amir non sarebbe riuscito nella missione senza l’elezione di Netanyahu da parte di noi cittadini d’Israele. Quel Netanyahu che pochi mesi prima aveva incitato le piazze a opporsi a Rabin e al processo di pace. Così, nella vera storia, a differenza di quella che noi amiamo raccontarci, il popolo di Israele non è solo vittima ma anche partner del crimine. E in questa tragedia, come in ogni tragedia, il castigo non è tardato a venire.
Vent’anni dopo l’assassinio di Rabin siamo nel pieno di una nuova ondata di terrorismo. La prima Intifada, iniziata più di venti anni fa con lanci di sassi e accoltellamenti durante gli accordi di Oslo, si fece via via più ingegnosa. Terroristi suicidi cominciarono a farsi saltare in aria con cinture esplosive e infine si passò a una grandine di missili. Ora siamo al punto di partenza, ai brutali accoltellamenti e ai lanci di pietre. Sembra che più si vada avanti, più le cose rimangano le stesse. O forse, sarebbe giusto dire, «quasi le stesse». In questa seconda ondata di accoltellamenti, infatti, le atrocità sono le stesse ma qualcosa per noi, cittadini di Israele, è cambiato. E il cambiamento si è avvertito soprattutto in occasione del linciaggio di Haftom Zarhum, un rifugiato eritreo scambiato per un terrorista avvenuto a Be’er Sheva una settimana fa. Nonostante non avesse compiuto alcun gesto minaccioso né avesse armi da fuoco con sé, Zarhum è stato colpito con sei proiettili e quando già giaceva a terra sanguinante è stato picchiato da alcuni presenti, preso a calci e colpito in testa con una pesante panchina. Uno degli aggressori, arrestato dopo il fatto, ha detto: «Se fosse stato un terrorista tutti mi avrebbero ringraziato». Certo non sarebbe stato condannato dai ministri membri del governo che hanno chiesto di rendere più flessibili le norme che regolano l’uso delle armi da fuoco. E non sarebbe stato condannato nemmeno da uno dei leader dell’opposizione, Yair Lapid, secondo cui troppi terroristi palestinesi vengono catturati vivi. Il tono dominante nei corridoi della Knesset durante l’attuale ondata di terrore è chiaro: dimenticate le regole e il rispetto della legge, chiunque brandisce un coltello, merita la morte.
L’assassinio di Rabin, vent’anni fa, ha segnato un punto di svolta. Che, contrariamente a quanto la maggior parte di noi ama pensare, non è quello in cui abbiamo smesso di prendere l’iniziativa e siamo diventati vittime. Quel riuscito omicidio a sfondo ideologico non ha influito sul grado di controllo che abbiamo sulle nostre vite ma solo sul sistema di valori in base al quale alcuni di noi scelgono di agire. Di recente, a una figura di spicco dei coloni, Daniella Weiss, è stata fatta una domanda a proposito delle minacce di morte ricevute dal presidente di Israele Reuven Rivlin da parte di elementi dell’estrema destra. «Nessuno ucciderà Rivlin», ha risposto lei sprezzante, «non è abbastanza importante». E con questa affermazione ha rivelato una dolorosa verità: in Israele, dopo l’era Rabin, un omicidio politico viene visto non solo come un trauma nazionale ma anche come uno strumento pragmatico, efficace e sempre presente in sottofondo, capace di ribaltare la situazione.
E così, nel ventesimo anniversario dell’assassinio del primo ministro Yitzhak Rabin gli israeliani moderati continuano a sperare in due cose: in un nuovo e coraggioso leader che riesca a riempire il grande vuoto lasciato da Rabin e, nel caso si trovi un simile leader, che non venga ucciso pure lui.

La Stampa 30.10.15
La Cina abbandona la politica del figlio unico
La svolta dopo 35 anni di contenimento delle nascite. Ogni coppia potrà avere due bambini
di Ilaria Maria Sala

qui
 

La Stampa 30.10.15
“I danni provocati rischiano di essere irrimediabili”
Lo scrittore Qiu: nessuno riesce ad accudire gli anziani
intervista di Paolo Mastrolilli


«È una grande notizia, ma i danni provocati dalla politica di un solo figlio per famiglia potrebbero già essere irrimediabili».
Qiu Xiaolong, il giallista autore della serie dell’ispettore Chen, non è sorpreso dalla mossa del governo di Pechino: «Era inevitabile, perché la popolazione sta invecchiando e lo Stato non può più occuparsi degli anziani».
Lei che esperienze personali ha avuto con questa politica?
«Quando sono nato io, negli Anni Cinquanta, la situazione era inversa: il governo incoraggiava le famiglie a fare figli, e infatti io ho un fratello e una sorella. Poi mi sono trasferito negli Stati Uniti e oggi ho una sola figlia, ma per scelta. I miei zii materni, invece, sono vittime di questa crisi. Hanno avuto una sola figlia che si è sposata, ha avuto un bambino, ma ora deve occuparsi di lui e dei propri suoceri. Loro così sono stati costretti a vendere la casa, per andare a vivere in un ospizio. Adesso però hanno finito i soldi e non sanno più come pagarlo».
Perché i danni potrebbero essere irrimediabili?
«Prima di tutto, perché ci sono già milioni di figli che ora devono sostenere i propri genitori e i nonni. Come fa una persona sola ad occuparsi della propria famiglia, e di altri quattro adulti? Poi perché molte coppie hanno fatto aborti selettivi, in modo da far nascere solo i bambini maschi. Così adesso abbiamo uno squilibrio di 30 o 40 milioni di uomini in più rispetto alle donne, e non sappiamo come fare per trovare a tutti una moglie: ne divideranno una in tre? Infine, per la sindrome del “piccolo imperatore”».
La sindrome di cosa?
«Siccome le famiglie erano obbligate ad avere un solo figlio, hanno viziato in maniera incredibile i loro bambini. Diverse generazioni sono cresciute dando per scontato che i genitori avrebbero fatto qualunque cosa chiedevano, e ora non sono attrezzati per vivere come persone normali che affrontano le difficoltà della vita».
Il dissidente Wei Jingsheng dice che la popolazione non ha preso bene la notizia, perché la vede come il segnale che il governo è in crisi e non vuole mantenere la promessa di accudire gli anziani.
«Ha ragione. Il governo è in crisi, e ora vuole far ricadere il peso delle sue scelte sbagliate sulla gente. In passato aveva rassicurato le famiglie, dicendo che se avessero rispettato la politica di un solo figlio, e a questo figlio fosse accaduto qualcosa, lo Stato si sarebbe occupato di loro.
Adesso con questo cambio di linea sta dicendo che non è in grado, o non vuole più farlo, e scarica la responsabilità sui cittadini».

Corriere 30.10.15
«Troppo poco, e tardi Il Paese rischia di essere il nuovo Giappone»
Bremmer: popolazione anziana, non si invertirà il trend Ma attenzione, il sistema è duttile e saprà adeguarsi
di Paolo Salom


«Con una crescita reale dell’economia vicina al 5 per cento, una struttura demografica della popolazione sempre più vicina a quella giapponese, anziana e stagnante, Pechino non aveva grande spazio di manovra. Ma la decisione di portare a due i figli per le coppie sposate è troppo poco, troppo tardi».
Ian Bremmer, fondatore e capo di Eurasia, il principale centro di ricerca specializzato in rischi geopolitici, non vede grandi cambiamenti in vista nella struttura delle società cinese. Non a breve termine almeno.
Perché «troppo poco troppo tardi»?
«La legge sul figlio unico era già stata emendata parzialmente nel 2013 da Xi Jinping, consentendo di avere un secondo figlio alle coppie con uno dei coniugi a sua volta figlio unico. Un provvedimento che si è rivelato inefficace. Il trend demografico negativo è continuato. Con una tendenza all’invecchiamento capace di portare, nel 2030, la Cina sui livelli del Giappone: stupefacente. Il tutto lasciando in prospettiva inalterata il tasso di povertà. Era necessario cambiare, dare un segnale. Perché troppo poco troppo tardi? Perché un secondo figlio non basterà a invertire il trend. La società cinese è sempre più istruita e urbanizzata. Ma gli stipendi e gli alloggi sono quello che sono. Perciò senza politiche di aiuto alle famiglie simili a quelle varate in Francia — assegni mensili, scuole, servizi essenziali — difficilmente assisteremo a un boom nelle nascite».
A suo avviso come cambierà la società cinese?
«Le spinte al cambiamento sono già presenti nella Repubblica popolare e non dipendono tanto dalla demografia quanto dalla crescita della classe media. Se qualcuno pensa che la Cina potrà andare incontro a carenza di lavoratori può mettersi l’animo in pace. La capacità organizzativa dell’Impero di Mezzo, unità al suo autoritarismo, è in grado di far fronte a qualunque emergenza: a Pechino basterà far rientrare i propri lavoratori che al momento stanno costruendo infrastrutture in mezzo mondo. O ancora, ordinare la mobilitazione di reparti dell’esercito e mandarli nelle fabbriche. Oppure possiamo immaginare che la crescente capacità tecnologica compenserà la diminuzione della forza lavora non specializzata. In realtà la Cina ha priorità ben maggiori rispetto alla riforma della pianificazione familiare. Penso ai problemi ambientali o alla liberalizzazione della società. Nel 2030 la Cina avrà una popolazione più vecchia e meno forza lavoro: ma il governo avrà tutto quello che gli occorrerà per mantenere la stabilità».
Se le cose stanno così, perché non cancellare ogni vincolo alle famiglie? Perché solo due figli?
«Perché la completa liberalizzazione, in questo momento, potrebbe far perdere a Pechino il controllo sui grandi trend demografici, pensiamo soltanto ai movimenti tra le campagne e le città. Questo il regime non può permetterselo. Non sarebbe saggio. D’altro canto, se guardiamo a Paesi confinanti come la Russia e l’India, la Cina si trova senza alcun dubbio in vantaggio quanto a risorse e capacità di sfruttarle a proprio beneficio. In Cina hanno costruito un numero di città dal nulla che aspettano ancora di essere popolate. E il governo ha, nonostante la corruzione diffusa, una classe di tecnocrati preparati e molto efficienti capaci di adeguare le politiche alle necessità dei tempi».
Nonostante tutto un futuro roseo per la Cina?
«Un tempo c’era chi diceva che con una crescita del Pil sotto l’8% la Cina sarebbe crollata. Non è avvenuto e siamo al 5% reale. Il sistema cinese è molto più duttile di quel che può apparire».

Repubblica 30.10.15
Pechino.
La rivoluzione dei due bambini addio alla politica del figlio unico
Dopo trentasei anni, il quinto Plenum del Partito abbandona il contenimento delle nascite. Al Paese servono più giovani. Il traguardo è fissato: 10
milioni di neonati in più l’anno entro il 2020
di Giampaolo Visetti

Già nell’autunno 2013 vi erano state concessioni, ma ne avevano approfittato solo sette famiglie su cento La “fabbrica del mondo” deve trasformarsi nel “mercato del pianeta”, le tute blu in colletti bianchi, i villaggi in metropoli

PECHINO LA CINA ha un disperato bisogno di più cinesi. Dopo 37 anni, per ordine di partito, abolisce così totalmente l’obbligo di figlio unico, ordinato dallo Stato. Le coppie non potranno però generare il numero di neonati che desiderano: massimo due. La pianificazione delle nascite continua, ma raddoppia. Mettere al mondo due discendenti non è un ordine, ma viene caldamente consigliato. Se Pechino suggerisce che la nuova famiglia cinese deve crescere due bambini, meglio non discutere e darsi subito da fare per concepirli: tre, di più neanche pensarci, non se ne parla.
Quella comunicata ieri dai leader rossi è la fine, obbligata e probabilmente vana, di una svolta. Nell’autunno 2013, al suo primo Plenum da presidente del comitato centrale del partito comunista, Xi Jinping l’aveva avviata, anticipando l’addio alla rivoluzione di Deng Xiaoping, in vigore dal 1979. Negli ultimi due anni, dopo periodiche aperture mascherate e concesse con il contagocce, la condanna al figlio unico è stata infine risparmiata ai coniugi se figli di figli unici. Un premio ai nonni che avevano obbedito alla patria. Risultato? Un fallimento. Solo sette coppie su 100 con i genitori in regola hanno approfittato della concessione di donare una sorella, o un fratello, al primogenito. Nemmeno 30 milioni di cinesi in più in 24 mesi: niente, per un popolo di oltre 1,35 miliardi di individui, condannato a vedersi soffiare il primato dall’India entro la metà del secolo. Stipendi troppo bassi, case troppo piccole, posti di lavoro troppo lontani, solitudini troppo grandi, debiti troppo alti. Una super- potenza sì, ma pensata per figli unici. Colui che nel frattempo ha ordinato alla propaganda di essere chiamato “Papà Xi”, ha quindi preso atto della spietatezza delle cifre e ha optato per non sprofondare nel ridicolo. Le barzellette proibite avevano cominciato a chiamarlo “Nido Vuoto Xi”.
Il quinto Plenum, chiuso ieri dopo una settimana di mistero in un hotel segreto di Pechino, ha dato così il definitivo colpo di spugna a poco meno di quattro decenni di sacrifici e di violenze. Non c’erano alternative e non è affatto detto che il “contrordine compagni”, per nulla ispirato da un aumento delle libertà personali, sortisca gli effetti sperati: chi ha rifiutato il permesso fino a oggi, perché dovrebbe accettarlo domani? A pressare i 375 dirigenti del partito-Stato, le conseguenze drammatiche della volontà di «assicurare una ciotola di riso ad ogni cinese»: la povertà combattuta negando ai poveri perfino il diritto di nascere. Il figlio unico, esultava fino poco tempo fa la propaganda, «ha risparmiato alla Cina e al mondo oltre 400 milioni di persone». Vero, ma adesso mancano e si sente. Il tasso di natalità cinese è il più basso del pianeta, 0,8%. Ogni famiglia genera 1,18 neonati, contro i 2,5 della media mondiale. Gli over 60 sono oltre 200 milioni, nel 2050 saranno 430 milioni, più degli abitanti negli Usa. Già nel 2040 un cinese su tre sarà anziano, l’invecchiamento più rapido della storia. Entro il 2030 il Paese avrà 67 milioni di lavoratori in meno e 210 milioni di pensionati in più. A Pechino nel 2030 gli anziani oltre i 70 supereranno i giovani sotto i 27. L’attesa per un letto in una casa di risposo va oltre le soglia, già irrazionale, del secolo: la prenotazione viene regalata ai nipoti che non sono ancora nati. Dal 1979 gli aborti forzati in Cina sono stati 336 milioni, 200 milioni di donne e 200 milioni di uomini sono stati obbligati alla sterilizzazione. Il dissidente Chen Guangcheng, che lo ha denunciato, dal 2012 vive esule negli Usa dopo una fuga, complice la sua cecità, che supera il fascino di un romanzo. Il risultato è che ogni 100 femmine ci sono 118 maschi, nei villaggi rurali si arriva a 100 a 135.
In questi giorni i cinesi si appassionano alla provocazione lanciata da un illustre economista: concedere alle donne di avere più mariti, come in epoca imperiale avveniva in alcune società delle regioni interne, per risparmiare agli scapoli poveri la condanna alla solitudine e contenere il boom degli stupri. Alla Cina contadina servivano braccia, a quella industriale gli operai per mantenere i genitori da vecchi: limiti di legge e preselezione sessuale hanno generato una massa esplosiva di scapoli, dai capelli già bianchi. In ritardo, forse fuori tempo massimo, il Plenum di “Papà Xi” ha così riconosciuto la realtà di un universo nuovo.
Ad aprire gli occhi ai funzionari, due anni fa, lo scandalo che ha travolto il regista Zhang Yimou. Il maestro di Lanterne Rosse è stato costretto a confessare tra le lacrime di aver concepito quattro figli e tre figlie, totale sette, con quattro compagne diverse. Multa milionaria, niente sconti nel nome di amicizie influenti, ma nemmeno la censura ha voluto oscurare sul web la rivolta popolare: i ricchi al di sopra delle regole e pieni di nipoti, gli altri condannati all’ingiustizia di essere “rami secchi”. Oggi l’obbiettivo non è però la famiglia felice, ma salvare il potere del partito continuando a mettere sempre più soldi nelle tasche della gente.
La “fabbrica del mondo” deve trasformarsi nel “mercato del pianeta”, le tute blu in colletti bianchi, i villaggi medievali in metropoli hi-tech, il comunismo proletario in capitalismo di Stato. Alla Cina convertita alla “classe media” non servono solo più cinesi: è necessario che siano cinesi giovani e dunque consumatori. Il traguardo ora è fissato: 10 milioni di neonati in più all’anno entro il 2020, il minimo per sostenere la grande urbanizzazione del Paese, condizione per sostituire con lo shopping interno un Occidente che assorbe meno prodotti.
È l’irreversibile mutazione della Cina rivoluzionaria di Mao Zedong in quella capitalista di Xi Jinping: i figli prima facevano risparmiare ed erano un costo, ora devono spendere per costituire un ricavo. Qualcuno però, visto che gli immigrati non sono controllabili come i connazionali, prima deve trovare il coraggio di darli alla luce. I leader rossi, tra una purga anti-corruzione e un decalogo anti-scappatelle, in quattro giorni di conclave hanno così approvato anche quello il vecchio vocabolario del socialismo reale continua a chiamare «piano quinquennale » 2016-2020. Lo slogan è «nuova normalità», il target raddoppiare il Pil 2010 entro cinque anni. Fatti i conti, una crescita costante non lontana dal 7%, come quest’anno. È l’ottimistico programma economico da cui dipende il destino globale. Per spiegarlo anche al di là della Grande Muraglia Xi Jinping ha fatto girare un pop-cartoon in inglese. Sembra davvero pensato da un papà per i suoi bambini: ma se i figli della Cina sono diventati vecchi, qui chi lo capisce?

Repubblica 30.10.15
Lo scrittore Qiu Xiaolong
“Un passo avanti Ma chi risarcirà chi ha patito tanti dolori?”
intervista di Alessandra Baduel


Tra gli effetti delle politiche demografiche c’è la sindrome del “piccolo imperatore”: funzionari viziati
«Buona notizia, ma chi risarcirà i tanti dolori e le tante famiglie rovinate lungo i decenni? ». Lo scrittore Qiu Xiaolong risponde da St. Louis, Stati Uniti, dove vive dalla fine degli anni Ottanta, quando era lettore in un’Università del Missouri e decise di restare lì perché sospettato in patria di aiutare gli studenti di Tienanmen. Ormai torna periodicamente in Cina e i suoi polizieschi pieni di riferimenti anche tradizionali si svolgono nell’attualità. Come
Cyber China
(Marsilio editore) che descrive la determinazione dei cinesi a conquistarsi la libertà di parola. «In quel libro», spiega, «c’è un personaggio adatto al tema di cui parliamo: il maleducato, arrogante figlio unico di una coppia di alti funzionari del partito, che combina guai certo dell’impunità perché viziato fin dalla nascita. È l’effetto “piccolo imperatore”, uno dei tanti risultati negativi della politica del figlio unico».
Dunque, lei è contento del cambiamento?
«Assolutamente sì. La struttura familiare cinese è stata danneggiata da decenni di proibizione, ora il ritorno a una libera scelta mi sembra un’ottima cosa. Le famiglie cinesi hanno avuto grandi problemi, attraversato molti dolori per colpa di quella regola. Per esempio, io ho un cugino che è stato costretto alla vasectomia. Lui, un tecnico, e la moglie, contadina, vivono in campagna. Hanno avuto due figlie, pagando la multa per la seconda. Avrebbero voluto un figlio maschio, ma sono stati obbligati a diventare una coppia sterile. La moglie è fuggita per non subire interventi: lui è stato costretto a subirlo al suo posto. Lei poi è ritornata a casa. Ma la loro ormai è una famiglia segnata per sempre, come molte altre».
Al primo allentamento delle politiche demografiche nel 2013, i trentenni intervistati rispondevano che in realtà era troppo tardi perché la Cina ormai è “a misura di figlio unico”. È d’accordo?
«Non del tutto. Di sicuro siamo ormai a un punto di snaturamento avanzato. Solo pochi giorni fa l’economista Xie Zuoshi ha proposto di risolvere la carenza di donne permettendo che ognuna sposi più uomini. Un incitamento alla poliandria — ed è un docente. Sono idee assurde che nascono dalla distorsione provocata da quella legge. Ma non credo che sia troppo tardi per cambiare. Perlomeno in campagna. Lì, sono convinto che torneranno di corsa alla normalità del fare più figli, anche perché c’è ormai il grande problema degli anziani: nessuno bada più a loro, non ci sono figli a sufficienza. La famiglia ideale cinese tradizionale era quella di quattro generazioni unite e solidali sotto lo stesso tetto. Ma certo capisco che nelle grandi città sarà parecchio più complicato. I costi della vita sono alti, il lavoro competitivo, l’educazione di un figlio molto impegnativa».
C’è anche quella che viene chiamata “sindrome del figlio unico”: aver vissuto il dolore di vedere abortire la propria madre, porta a reagire non facendo figli per non dare “uno strumento al potere”. Cosa ne pensa?
«Sono persone che hanno subito grandi dolori, appunto. E la mia domanda resta la stessa: oltre a cambiare le regole, qualcuno per caso sta pensando a come ricompensare le vittime di quel grande errore?»

Repubblica 30.10.15
Isole contese, la Cina avverte gli Usa: "Stop provocazioni, da incidenti rischio guerra"

qui
Il Sole 30.10.15
Angela Merkel in visita. Berlino firma un accordo per la vendita di 130 Airbus: una commessa record da 17 miliardi
Cina e Germania rafforzano i legami economici
di R.Fa.


Pechino È in atto un’evidente, agguerrita competizione tra alcuni Paesi europei per aggiudicarsi la palma di interlocutore privilegiato della Cina di Xi Jinping. Dopo lo show off britannico e un attimo prima dell’attesa zampata di François Hollande in arrivo a Pechino, ecco la tedesca Angela Merkel in visita per l’ottava volta in Cina dal 2005, anno in cui è salita al potere. La più fedele alleata, quella che non ha mai messo in dubbio il rapporto privilegiato con i partner cinesi e che si è inserita tranquillamente nel solco dei predecessori ha visto la sua perseveranza premiata, alla grande, con la commessa record da 130 Airbus incassata ieri senza colpo ferire.
Una visita di due giorni, quella del premier tedesco, a tutto campo, incentrata sul rafforzamento della cooperazione economica e sul ruolo del Paese asiatico nelle crisi internazionali. Merkel sarà nell’Anhui, terra natale del suo grande amico Li Keqiang, il premier cinese legato alla Germania anche dalla sua storia personale, ci ha vissuto per motivi di studio, e questo Paese gli è rimasto nel cuore.
Merkel è accompagnata da una delegazione di 20 imprenditori tedeschi, tra cui il nuovo amministratore delegato di Volkswagen Matthias Mueller, oltre a Li Keqiang in agenda incontri con il presidente Xi Jinping nella Great Hall of People e il presidente dell’Assemblea Nazionale del Popolo Zhang Dejiang.
Tra gli accordi economici il più rilevante, si diceva, è quello relativo all’acquisto da parte di aziende cinesi di 130 aerei Airbus per un valore di 17 miliardi di dollari. «Si tratta di uno dei più grandi ordini che la Cina abbia mai fatto», ha detto un funzionario di Airbus. I modelli che saranno venduti alla Cina sono trenta A330 e cento A320. China Aviation Supplies Holding Company (Cas) ha firmato l’accordo con Airbus per l’acquisto di 30 aeromobili della famiglia A330 e 100 della Famiglia A320. L’ordine per i 30 A330 segue la lettera d’intenti firmata a giugno 2015.
L’accordo è stato siglato dal presidente e ceo di Cas, Li Hai e da Fabrice Brégier, presidente e ceo di Airbus, sotto gli occhi del premier Li Keqiang.
«Siamo grati a Cas, uno dei nostri maggiori clienti di lunga data, per la continua fiducia espressa in Airbus, nella versatile Famiglia A330 e nella Famiglia best seller A320», ha commentato Brégier. «Con l’aggiunta dei 30 A330, quest’anno Cas ha ordinato complessivamente 75 aeromobili Airbus widebody. La grande richiesta di A330 in Cina è stata fondamentale nella decisione di aprire un centro di assemblaggio e consegna (C&DC) a Tianjin, vicino all’altro centro di assemblaggio finale e consegna della Famiglia A320, che ha già assemblato e consegnato più di 240 aeromobili Airbus a corridoio singolo. Questo ci consentirà di essere più vicini ai nostri clienti e di portare la nostra proficua partnership con la Cina a un nuovo livello».
Secondo le previsioni di mercato mondiali di Airbus, la Cina è il paese con la maggior crescita di passeggeri a livello mondiale. Tra 10 anni il traffico aereo interno cinese sarà il più importante al mondo e quadruplicherà tra altri 20. Airbus prevede che tra 20 anni la domanda cinese sarà di 5.400 nuovi aerei per il trasporto passeggeri e cargo, di cui 1.700 saranno aeromobili widebody come gli A330, A350 e A380.
Attualmente gli aeromobili Airbus in servizio presso le compagnie cinesi sono 1.200: più di 1.000 aerei A320, più di 160 della Famiglia A330 e 5 A380, oltre ad aerei cargo e corporate jet.
Ieri, sempre nell’ambito dei rapporti tra Germania e Cina è stato siglato un accordo tra Borsa tedesca e l’autorità cinese che vigilia sul trading in renminbi, collegata alla PBoC, l’intesa servirà a permettere a Francoforte di operare nel clearing del renminbi, portando la Germania a livello della Gran Bretagna. Tecnicamente Francoforte è stata la prima piazza ad avere accesso al clearing, a seguito della visita di Xi in Europa l’anno scorso, ma Londra grazie anche all’expertise come piazza finanziaria ha avviato in anticipo le operazioni nella moneta di Pechino. Adesso anche la piazza tedesca potrà operare come hub vero e proprio.
Merkel non ha tralasciato anche un versante scomodo per la Cina. «Alla fine del primo giorno di visita – ha detto il portavoce Steffen Seibert - la cancelliera Merkel ha incontrato alcuni esponenti della società civile: avvocati dei diritti umani, scrittori e blogger. Infatti ha avuto colloqui con alcuni attivisti per i diritti umani».
La due giorni tedesca rappresenta un chiaro esempio di come Berlino non sia disposta a cedere a nessun altro la posizione di counterpart economico e anche politico di Pechino, specie in un momento di grande incertezza per le manovre americane che hanno seminato una scia di risentimenti nei Mari del Sud della Cina.

il manifesto 30.10.15
E Merkel vende a Pechino 130 Airbus
Cina - Germania. La cancelliera deve fronteggiare anche la crisi di Deutsche Bank che ha annunciato 9 mila esuberi e la chiusura delle sedi in dieci paesi
di Simone Pieranni


Angela Merkel, accompagnata da una delegazione di 20 imprenditori tedeschi, è in visita in Cina. Presenza rilevante per provare a riequilibrare verso Berlino gli investimenti cinesi, risucchiati dalla straordinaria accoglienza ricevuta dal presidente Xi Jinping a Londra la scorsa settimana. Per Merkel si tratta dell’ottava visita in Cina da quando, nel 2005, ha assunto la carica di capo del governo di Berlino. Verrà ricevuta anche dal presidente Xi Jinping e dal presidente dell’Assemblea nazionale del popolo Zhang Dejiang.
Ieri sono state poste le prime firme su un contratto relativo all’acquisto da parte di Pechino di 130 aerei dell’Airbus per un valore di 17 miliardi di dollari. I modelli che saranno venduti alla Cina sono trenta A330 e cento A320, con un unico corridoio. Con l’accordo l’Airbus segna un punto a proprio vantaggio sulla concorrenza americana di Boeing. Li e la Merkel hanno discusso anche del conflitto in Siria, che ha contribuito a innescare la più grande crisi migratoria verso l’Europa dalla seconda guerra mondiale.
A questo proposito il premier cinese in una conferenza stampa congiunta ha detto che la Cina «darà il suo contributo alla soluzione del conflitto in Siria» e «fornirà assistenza e aiuti umanitari ai paesi colpiti». Un’apertura accolta con favore da Merkel, per la quale «prima aiuteremo le persone in Siria e meglio sarà. Guardando i 300.000 morti e i milioni di persone nei campi di accoglienza, il tempo stringe». La cancelliera visiterà anche con Li Hefei, nella provincia orientale di Anhui, dove incontrerà una famiglia locale, visiterà una scuola del villaggio e parteciperà ad una riunione di imprenditori cinesi e tedeschi. È la prima volta che Li Keqiang invita un leader straniero a visitare la sua provincia natale.
E Merkel deve fronteggiare anche la crisi di Deutsche Bank che ha annunciato 9 mila esuberi e la chiusura delle sedi in dieci paesi. Il conto lievita a 35 mila unità se si considerano anche i tagli alle 6 mila posizioni in appalto a società esterne e i 20 mila dipendenti che verranno ceduti insieme ad asset non più strategici, in gran parte concentrati nella controllata Deutsche Post. Nei conti sono stati registrati 7,6 miliardi di costi straordinari dovuti alla svalutazione della quota nella banca Hua Xia Bank (650 milioni).

La Stampa 30.10.15
Da un lager all’altro, prigionieri speciali di Hitler
Esce oggi Gli invisibili di Mirella Serri: racconta la storia segreta degli ostaggi di rango del Führer, nella cornice tragica dell’amore di Mafalda di Savoia per il marito Filippo d’Assia, gay e nazista
di Francesca Sforza


Chissà cosa hanno pensato gli abitanti di Villabassa, una località dell’Alta Pusteria, in quel 28 aprile del 1945, quando hanno visto scendere dagli autobus del trasporto speciale, 139 prigionieri - uomini, donne, persino una bambina - scortati dalle SS naziste. E’ molto difficile che dietro quegli occhi stanchi, quelle andature allucinate, quegli abiti logori e in alcuni casi a strisce bianche e nere verticali come si usava nei lager, qualcuno potesse riconoscere principi, gerarchi, capi di Stato, funzionari di mezza Europa. La mesta processione faceva presumibilmente poco rumore, provata come era nel corpo e nello spirito, e ci volle un po’ perché un valligiano osasse porre a una SS della scorta la domanda che tutti si stavano in cuor loro facendo. «Chi sono?» «Sonderhaeftlinge!», si sentì rispondere senza garbo alcuno, «prigionieri speciali».
A Villabassa
Comincia con la vivida ricostruzione di quella mattina Gli invisibili, il libro di Mirella Serri pubblicato da Longanesi sulla storia di quel manipolo di prigionieri, che fino all’ultimo i tedeschi avevano cercato di salvaguardare dalla morte – pur senza risparmiare loro la permanenza a Dachau, Flossenburg, Buchenwald – nella speranza di poterli usare come ostaggi alla fine di una guerra i cui esiti avevano immaginato molto diversi da quelli che invece furono. Con la pazienza della storica e il gusto della scrittrice, Serri ci porta ad esplorare un capitolo di storia finora confinato in pubblicazioni di nicchia o in esposizioni locali, dando anche la misura di quante cose, ancora oggi, ha da dirci la Seconda Guerra Mondiale. Proprio quando ci sembra che tutto sia stato detto e moltissimo sia stato scritto, ecco un elenco di nomi – quello dei prigionieri speciali – che ci fa sobbalzare, e ammettere: «Non lo sapevamo».
Non sapevamo che quella mattina scesero a Villabassa, dai pullman provenienti da Dachau, uomini come Leon Blum, ex primo ministro francese del Fronte Popolare; Kurt Alois von Schuschnigg, l’ultimo cancelliere austriaco antinazista prima dell’Anschluss con la Germania, di cui si erano perse le tracce dal 1938; Alexandros Papagos, il ministro greco della Guerra che aveva fermato e respinto l’esercito italiano oltre i confini dell’Albania; Fritz Thyssen, l’industriale che era stato ribattezzato «prigioniero personale del Fuehrer»; Vassilij Kokorin nipote del ministro degli Esteri sovietico Molotov; Mario Badoglio, figlio di Pietro; Sante Garibaldi, nipote dell’eroe dei due mondi. E ancora: i gerarchi fascisti Tullio Tamburini e Eugenio Apollonio, rispettivamente ex capo della polizia di Stato di Salò e il suo fidato braccio destro, il partigiano di Savona Enrico Ferrero, diversi congiurati dell’attentato contro Hitler del 20 luglio 1944, Filippo d’Assia, genero del re d’Italia. Ci sono poi capitani, sindaci, agenti segreti britannici, contesse, giornalisti, teologi, cabarettiste e professori provenienti da sedici diversi Paesi, che Serri non solo elenca, ma racconta, tirando i fili delle storie personali e regalandoci così la fine tessitura di un pezzo di storia, con il respiro di un’opera piena.
Una donna minuta
C’è una persona che però doveva scendere da quell’autobus quella mattina e invece non scese. Era Mafalda di Savoia, la figlia del re Vittorio Emanuele III, e la moglie di Filippo d’Assia. Una donna esile, minuta, di una bellezza fragile, che non resse alla brutalità di Buchenwald: rimase ferita da un bombardamento alleato nell’agosto del 1944 durante la prigionia «speciale» nel lager, a cui era giunta così, senza sapere bene dove sarebbe finita, portata di macchina in macchina, di stanza in stanza, sempre scortata da un nazista, col miraggio di poter rivedere quel marito teneramente amato, malgrado lui l’avesse tradita con ragazzi occasionali, malgrado non amasse il jazz e fosse troppo mondano per i suoi gusti, e che comunque aveva per lei una devozione e un affetto che Serri ci aiuta a pensare autentici.
Furono due operai romeni a estrarre «Frau Abeba» – così la chiamavano a Buchenwald, in omaggio all’Etiopia, conquista italiana – dalle macerie della sua baracca crollata. Fu portata nell’ospedale da campo con gravi ustioni e con un inizio di cancrena all’avambraccio: la sua morte, secondo le testimonianze portate da Serri, fu provocata da un’operazione «condotta in modo impeccabile», ma tale da ucciderla.
La scelta di accendere una luce particolare sui prigionieri speciali Mafalda e Filippo, fa degli Invisibili qualcosa di più di un resoconto intelligente e documentato su un aspetto trascurato della Seconda Guerra Mondiale. Lei italiana, lui tedesco, lei rigorosa, lui debole, lei però donna - senza poteri, senza voce in capitolo – e lui invece uomo – con responsabilità, amicizie, mezzi di cui disporre – i due aristocratici sono il precipitato esistenziale di una generazione di «speciali» fragilità, di debolezze colpevoli, di ingenuità disarmanti.
La nuova Europa
L’esito catastrofico di queste peculiarità ci viene mostrato da Serri proprio nella condivisione di un destino che in quei pullman vide seduti fianco a fianco delatori e gentiluomini, avventurieri, fascisti gaglioffi, idealisti impenitenti e feroci assassini. «La storia dei prigionieri speciali che si proietta sul dopoguerra – scrive Mirella Serri – è la primavera della nuova Europa, perché nessun rapporto umano è più intenso di quello che si instaura nella sofferenza e nella comunanza della sorte nei tempi oscuri».

Corriere 30.10.15
Grossman, il gelo e le fiamme
Un caso di brutalità «I nazisti hanno immerso un uomo in un buco nel ghiaccio, poi sono fuggiti sotto il fuoco d’artiglieria»
La caduta di Berlino «Questa giornata nuvolosa, fredda e piovosa, segna la morte della Germania»
Gli appunti dello scrittore russo ci fanno vivere in presa diretta le atrocità della guerra
di Raffaele La Capria


Di Vasilij Grossman ho letto soltanto Vita e destino , il grande romanzo epico sulla guerra contro i tedeschi invasori e sulla battaglia di Stalingrado, ma mi è bastato per capire che Grossman, con quel libro, ha scritto una specie di Guerra e pace del nostro tempo, all’altezza, per la vastità della concezione, dei maggiori romanzi della letteratura russa. Ora Adelphi ha pubblicato Uno scrittore in guerra , un libro bellissimo che contiene gli appunti di prima mano che Grossman scriveva per i suoi articoli di corrispondente dal fronte, e la prima impressione è che questi appunti buttati giù in fretta e a volte in situazioni difficili, sotto il fuoco nemico, sono già di una notevole qualità letteraria.
Questo libro di appunti fa capire meglio chi era Grossman come uomo e come scrittore, e soprattutto come ebreo in un tempo in cui nell’Unione Sovietica essere ebrei significava essere perseguitati in vari modi; e le vicende della vita di Grossman qui narrate ce lo dimostrano. Se fosse stato per il potentissimo Mikhail Suslov presidente della sezione culturale del Comitato centrale del Partito comunista, Vita e destino avrebbe potuto esser letto solo nei prossimi duecento anni, in altri termini ne fu proibita la pubblicazione perché giudicato pericoloso. Come in casi analoghi, il romanzo avventurosamente, per l’aiuto di fidati amici, trovò il modo di uscire dall’Unione Sovietica ed essere pubblicato all’estero ottenendo il successo e l’attenzione che meritava.
Successo ed attenzione che ebbero, durante gli anni della guerra gli articoli che Grossman spediva ai giornali dal fronte. Si sentiva che in quegli articoli c’era la verità di un’esperienza vissuta esponendosi di persona. Ma nonostante la sua fama, l’ostilità del potere contro di lui si faceva sentire pesantemente, e quando la guerra finì, tutti i suoi libri precedenti furono tolti dalla circolazione, lui fu ridotto all’indigenza e fu aiutato dai pochi coraggiosi amici che gli erano rimasti. Affetto da un cancro allo stomaco, morì nell’estate del 1964.
Solo dopo aver letto Uno scrittore in guerra ho avuto un’idea più chiara delle grandi sofferenze patite dai popoli europei durante il conflitto, patite non solo dai russi che combattevano al fronte in condizioni spaventose di freddo, fame, pidocchi, pericolo continuo e morte, ma da tutti i popoli coinvolti nella guerra più feroce mai combattuta. Sofferenze inimmaginabili nel loro orrore se non ci fossero stati testimoni come Grossman, che hanno saputo raccontarle a rischio della vita.
Di fronte a una figura di scrittore come la sua, si prova non solo ammirazione letteraria, ma un senso di compassione coinvolgente, quando si pensa alle tragiche vicissitudini che hanno accompagnato la sua vita in un’epoca di profonda umiliazione morale, sotto la spaventosa dittatura staliniana. Si ha sempre la sensazione quando lo si legge che quello che lui scrive, prima ancora di essere letteratura, è vita vissuta, una testimonianza, una delle poche altrettanto dirette che abbiamo della guerra e delle sue infinite mostruosità. Sappiamo che lui, Grossman era lì, mentre dappertutto cadevano le bombe e i carri armati «come animali preistorici» avanzavano, che lui era lì e aveva sentito le grida dei tedeschi chiusi nei carri mentre il fuoco li arrostiva. «Dentro il carro armato i tedeschi gridavano, ah se gridavano! In vita mia non avevo mai sentito nessuno gridare così». E sembra di sentirle anche noi quelle grida agghiaccianti «che facevano rizzare i capelli in testa». E Grossman era sempre lì, a Berlino, quando i soldati dell’Armata rossa entrati in città stupravano le donne tedesche ed entravano nelle case per depredarle di tutto, e distruggere con furia ogni cosa.
Nessun aspetto atroce della guerra gli sfuggiva e lui lo raccontava attraverso le interviste che faceva ai soldati e ai comandanti. Le loro parole ci fanno capire lo spirito patriottico che animava ogni combattente, la ferocia, l’indifferenza di fronte alla morte propria e altrui, di fronte alle continue fucilazioni sul campo per le più lievi infrazioni disciplinari. Questo è il racconto di un soldato: «Il commissario ha letto la condanna. Lui aveva perso il controllo, piangeva, chiedeva di essere rimandato nella sua posizione... Poi il commissario ha chiesto: “Chi lo fucila?” Mi sono fatto avanti e lui si è gettato a terra. Ho preso il fucile di un compagno e gli ho sparato. “Non ha avuto pietà?”. Che c’entra qui la pietà?».
Appunto, con la stessa spietatezza lo scrittore porta la sua testimonianza: in una guerra come quella combattuta a Stalingrado tra russi e tedeschi la pietà non aveva più alcun senso. Sento che le mie parole non bastano a descrivere la particolarità, la semplicità, e la terribile immediatezza della scrittura di Grossman, e soltanto una serie di citazioni può darne un’idea.
Il freddo, per esempio: «Sono stanco di tastarmi continuamente il naso, le orecchie per controllare se sono ancora al loro posto». E poi: «I nazisti avevano immerso ripetutamente un uomo in un buco praticato nel ghiaccio, sono poi fuggiti sotto il nostro fuoco d’artiglieria lasciando riverso per terra il loro uomo semicongelato e paralizzato dal terrore». I cani: «Alcuni cani sono bravissimi a distinguere gli aeroplani. Quando ci sorvolano i nostri, non fiatano. Se invece sentono gli aerei tedeschi, cominciano subito ad abbaiare, ad ululare, oppure si nascondono». Berlino: «2 maggio, giorno della capitolazione di Berlino. Questa giornata nuvolosa, fredda e piovosa, segna la morte della Germania. Tra le rovine, in mezzo alle fiamme e al fumo centinaia di cadaveri sparsi per le strade. Cadaveri schiacciati dai carri armati, spremuti come tubetti... Cose terribili stanno accadendo alle donne tedesche. Un tedesco dall’aria istruita, la cui moglie ha ricevuta la visita dei nuovi arrivati, sta spiegando con gesti eloquenti e qualche parola di russo che la moglie oggi è stata già violentata da dieci soldati. La signora è presente». Potrei continuare con le citazioni, ma credo di aver dato un’idea di come è scritto questo libro.

Corriere 30.10.15
Apartheid in Etiopia sotto Mussolini


Siamo abituati a considerare il maggio 1936, con la presa di Addis Abeba e la proclamazione dell’impero da parte di Mussolini, come il momento conclusivo della guerra d’Etiopia. Ma la lotta proseguì: il 19 febbraio 1937 il viceré italiano Rodolfo Graziani venne gravemente ferito in un attentato e la rappresaglia fu tremenda. Poi infuriò a lungo una guerriglia spietata. Intanto i britannici, con il crescere della tensione internazionale, cominciavano a progettare l’attacco all’Africa orientale italiana che avrebbero attuato nel 1941, ponendo fine all’impero del Duce. Per questo il libro di Nicola Labanca La guerra d’Etiopia (pagine 271, e 20) tratta l’intero periodo 1935-41, per inserire l’invasione, di cui ricorre in queste settimane l’ottantesimo anniversario, nel quadro più ampio delle premesse da cui scaturì il secondo conflitto mondiale. Molto importante la parte che l’autore dedica alla legislazione razziale introdotta dal fascismo nel Corno d’Africa sin dall’aprile 1937, che si allargò in seguito fino a prevedere una rigida segregazione tra bianchi e neri, una sorta di apartheid che non aveva paragoni nei territori sotto il dominio di altre potenze coloniali.

Repubblica 30.10.15
La rivincita di Croce il critico guerriero
Si riaccende il dibattito sui suoi studi letterari
di Paolo Mauri


Dopo aver dominato la cultura italiana e non solo per oltre mezzo secolo Benedetto Croce è uscito di scena in modo abbastanza drastico: secondo Natalino Sapegno, per esempio, non aveva capito fino in fondo la portata della lezione di Marx da lui liquidato troppo presto;
secondo i seguaci delle nuove teorie critiche legate prima all’analisi stilistica e poi allo strutturalismo era rimasto ostinatamente aggrappato ad una concezione del linguaggio che non stava in piedi, insomma il suo pensiero sulla linguistica, scriveva Tullio De Mauro nel 1965 era «una bomba piena di esplosiva follia». Adesso però l’interesse si riaccende. Come dimostra la ripubblicazione, da parte di Adelphi, del suo Poeti e scrittori d’Italia , a cominciare dal primo volume.
Un’ampia antologia di scritti sulla nostra letteratura dalle origini al primo Novecento. Giuseppe Galasso, nel rigoroso e dettagliato saggio introduttivo a questo primo capitolo, accenna addirittura all’irrisione di cui Croce fu vittima da parte dei suoi detrattori. Ma ancora Benvenuto Terracini, che possiamo considerare un alfiere della critica stilistica ai suoi esordi in Italia, rende omaggio alla posizione altissima che Croce ha occupato nei confronti della nostra cultura e sottolinea l’incontro tra Croce, Vossler e Spitzer, cioè proprio nell’ambito che avrebbe promosso l’analisi stilistica dei testi. Fermarsi su ciò che Croce non fece, non volle fare o capire è in questa sede poco remunerativo: conviene dunque chiedersi invece che cosa il lettore di oggi può trovare nelle pagine di Croce dedicate ai secoli d’oro della nostra letteratura.
Intanto registriamo un dato di non piccolo conto: Croce è un combattente e continuamente deve battersi con chi ha un’idea della poesia che lui proprio non condivide. Per esempio Croce non ama i dantisti: secondo lui tutte le costruzioni erudite a partire dalla
Commedia servono solo a umiliare la grande poesia di Dante, che tuttavia non pertiene a tutta l’opera, ma solo a quei momenti eccelsi in cui c’è vera poesia. Croce scrisse per il sesto centenario della morte di Dante, dunque nel 1921, un libro di cui l’antologia conserva alcune parti: libro che fu a sua volta accusato di distruggere l’unità del poema. Ma, alla fine, sappiamo dire una volta per tutte che cos’è la poesia? È una domanda infinita alla quale si possono dare (e sono state date nel tempo) molte risposte, ma in genere queste risposte riguardano il modo in cui si fa una poesia. Una volta Luzi, in una intervista, disse che i poeti danno voce al nostro malessere.
Croce si occupò per tutta la vita della questione e ne scrisse moltissimo, mettendo però sempre in campo quello che una volta Contini chiamò un sistema binario, l’opposizione tra poesia e non poesia. L’ago della bilancia alla fine era affidato alla sensibilità del critico.
E Croce, per esempio, nega che vi sia stata poesia in Italia dal 1375 al 1475 e non ha riguardi verso il barocco (cosa che irritò Praz) e le sue esagerazioni, come verso personaggi-poeti di gran fama e gloria come Marino o come Metastasio. E se si occupa di Ariosto deve fatalmente mettere da parte i lavori eruditissimi di Pio Rajna sulle fonti del poema e demolire l’idea di trasformare la critica letteraria in una scienza del concreto, dove il concreto è soprattutto erudizione. In sostanza la sua era una battaglia contro il positivismo di fine secolo ben saldo in cattedra e nelle riviste come il Giornale storico della letteratura italiana
che usciva a Torino. Se proprio doveva costruirsi un albero genealogico, Croce non esitava a ricorrere a Vico e al più vicino De Sanctis. Roman Jakobson andava intanto teorizzando, all’altezza degli anni Trenta, che si può fare poesia con qualsiasi materiale il che ci dice che i formalisti russi stavano portando la critica letteraria su un pianeta sconosciuto e certo molto distante da quello crociano, dove poesia si opponeva a non poesia e poesia si distingueva da letteratura. Boccaccio è per Croce un poeta e sbagliano coloro che si affannano a parlare di novelle a proposito del Decamerone , così come sbaglia chi dice che Boccaccio rispecchia la società del suo tempo perché la vera poesia è un assoluto e non ha bisogno di rispecchiare niente.
Nel 1929 Jurij Tynianov aveva scritto, invece, che i confini tra letteratura e vita sono fluidi e forse è così anche per quel che riguarda l’opera di Boccaccio, ma con Tynianov ci spostiamo di nuovo in ambito formalista e dunque in una prospettiva completamente diversa da quella crociana.
Ho sempre pensato che la critica letteraria rivolga, per così dire, domande sempre diverse alle opere che prende in esame e per questo cambia anche radicalmente, anzi: sente la necessità inderogabile di cambiare. Per questo ogni esperienza critica conosce una inevitabile crisi e così è stato anche per lo strutturalismo e altre forme recenti di analisi, come Cesare Segre ha puntualmente registrato nei suoi libri. Riattraversare l’opera di Croce ha senso se si accetta quell’esperienza in base a quello che ancora può darci e non è davvero poco. Negli anni Cinquanta, per esempio, Giacomo Debenedetti partiva dal saggio di Croce su Pascoli (che è del 1906) per illustrare il poeta ai suoi allievi di Messina.
Con Croce il dialogo non è chiuso. Umberto Eco nel riprendere i temi dell’ Estetica di Croce negli anni Novanta ne mette in luce le contraddizioni (il saggio si può ora leggere nel volume Kant e
l’ornitorinco 1997) ma alla fine conclude che Croce fa giustizia delle contraddizioni perché è uno scrittore travolgente: «Il ritmo, il dosaggio di sarcasmo e riconciliata riflessione, la perfezione tornita del periodo, rendono persuasiva qualunque cosa egli pensi o dica». Non ho niente da aggiungere.
IL LIBRO Poeti e scrittori d’Italia I - Dallo stil novo al barocco di Benedetto Croce (Adelphi, pagg. 519, euro 34)