venerdì 2 ottobre 2015

Corriere 2.10.15
La nuova faccia del Pd
Oltre le divisioni di oggi
di Francesco Verderami


Le riforme servivano a cambiare il sistema o a regolare i conti? Perché finora non si sono visti padri costituenti in Parlamento, mentre si contano vincitori e vinti di un duello che ha in palio solo gli assetti politici, presenti e futuri. Se Renzi è a un passo da uno storico traguardo, se non vede l’ora di annunciare la fine del bicameralismo — pietra angolare del suo progetto decennale — è perché Berlusconi (non Grillo nè Salvini) ha perso la scommessa: puntava sulla scissione del Pd e sullo sfaldamento dell’area di governo, invece sta assistendo all’emorragia di Forza Italia e all’allargamento della maggioranza.
Il fatto che l’attenzione sia (per ora) tutta concentrata sulle dinamiche politiche e non sulle incognite legate al funzionamento a regime della riforma, lascia intuire come il dibattito sulle modifiche alla Carta sia stato poco più di un pretesto. Ma il pretesto sta producendo effetti epocali, sta ridisegnando la geografia dei partiti e delle alleanze. E tutto finisce per ruotare — ecco l’anomalia — attorno a un unico personaggio: Renzi.
D’altronde questo è il risultato di un’altra sfida, quella lanciata dalla minoranza pd al suo segretario-premier, che non poteva finire diversamente da com’è finita, cioè con un compromesso. Lo strappo avrebbe portato alla scissione. Ed è stato proprio nella trattativa sulle riforme, nel modo spregiudicato in cui l’ha condotta, che si è capito qual è il modello del leader democratico: Renzi non ha sconfitto la minoranza, l’ha assorbita. Il muro che divide i due ceppi del partito resta comunque ancora in piedi, è una differenza culturale (che è anche diffidenza personale) destinata a riproporsi a breve sulla legge di Stabilità. Se è vero infatti che le priorità politiche sono figlie dell’identità, è già chiaro che in economia il premier si muoverà fuori dagli schemi classici della sinistra: il progetto di abolire le tasse sulla prima casa, così come l’ipotesi di aumentare la soglia per l’uso del denaro contante, suggerita dai centristi, lo porteranno in rotta di collisione con un pezzo della «ditta».
Ma anche in questo passaggio Renzi sembra predisporsi ad assorbire il dissenso interno, bilanciando la deriva post berlusconiana sulle tasse (che è l’accusa di cui è fatto oggetto) con un piano sulla povertà, che non è il reddito di cittadinanza. La sua linea si richiama all’economia sociale di mercato, e tanto basta per rammentare agli avversari interni che il suo dna non è post-comunista ma post-democristiano.
Per il resto, il suo schema di gioco è ripetitivo: da una parte vara le norme sulla responsabilità civile dei magistrati, dall’altra compensa con misure più severe sulla corruzione; approva il decreto Franceschini sugli scioperi nei servizi pubblici e intanto si appresta a licenziare una legge contro il caporalato; non offre spazi a Bersani ma è in procinto di chiamare a Palazzo Chigi un suo (ex) fedelissimo come l’ex governatore emiliano Errani.
Proprio quest’opera di assorbimento della minoranza fa crollare il teorema che Renzi stia lavorando al partito della Nazione, che non ha ragion d’essere. Non solo perché — la storia lo insegna — gli innesti politici sono destinati al rigetto elettorale, ma perché è evidente come il suo progetto sia piuttosto allargare i confini del partito.
Si tratta di una mutazione genetica del Pd o di una sua evoluzione? Ecco il punto: ed è attorno a questa domanda che in prospettiva rischia di consumarsi la scissione. L’idea di Renzi, la sua scommessa, è che nel 2018 il Pd sappia intercettare anche il consenso dei giovani elettori, quelle nuove generazioni che andranno al voto e che non solo non hanno conosciuto la stagione delle ideologie ma non hanno nemmeno vissuto l’era del bipolarismo muscolare, e vivono affacciati su un mondo in bilico tra paure e speranze.
Perciò il passaggio sulle riforme costituzionali conta fino a un certo punto. La vittoria nelle urne si giocherà su immigrazione ed economia.