Corriere 2.10.15
La sfida linguistica dell’inglese di Renzi
di Massimo Gaggi
L e previsioni economiche, forecast in inglese, tradotte con un più casereccio previsions. La realizzazione del programma di governo spiegata italianizzando un verbo, realize, che significa altro (rendersi conto). E poi, tra una preoccupation e un destroyd, la via crucis di Matteo Renzi che avanza a tentoni cercando di domare una lingua ostile. Da più di un anno le sue sortite internazionali alimentano in rete sfottò e parodie. E sopraccigli alzati tra politici, diplomatici e finanzieri che lo ascoltano. Ma il premier tira dritto, deciso a non farsi zittire da una banale barriera linguistica. Soffre con quel «perché» che diventa un bikkouz pronunciato con fatica, quasi mangiandosi le labbra. Fa dell’autoironia o la butta sulle imposizioni del suo portavoce («il mio inglese è quasi perfetto, ma ora Filippo mi costringe a parlare in italiano»). Il più delle volte, però, va avanti senza paura, come nei giorni scorsi a New York dove ha pronunciato discorsi in inglese a raffica (un inglese migliorato, ma sempre approssimativo), rischiando grosso di fronte a un’«intellighenzia» anglosassone normalmente severa e alquanto supponente con gli interlocutori che sfoggiano accenti curiosi o usano terminologie non appropriate. Con Renzi, però, ora sta succedendo una cosa strana: nonostante gli scivoloni, il suo messaggio passa, colpisce. Comincia a risultare simpatico, è anche comprensibile. Lo abbiamo visto più volte tra Onu, tavole rotonde con Bill Clinton, interviste televisive (con l’ammirazione del direttore di Bloomberg, Micklethwait). In tv, dove tutto fa audience, ci può anche stare: già 25 anni fa il gesticolante ministro degli Esteri, Gianni De Michelis, divenne un mito alla Cnn con i suoi we are on the point of a volcano (il vulcano era Saddam Hussein che invadeva il Kuwait). Ma ora Renzi incassa elogi anche dai finanzieri, da Clinton, dall’opinionista Zakaria. E nel discorso al vertice Onu sul terrorismo, diventa più efficace quando, nel finale, abbandona il testo scritto e chiude a braccio. Forse, oltre che a «sottrarsi alla dittatura dell’istante fatta di tweet e spot», Renzi sta tentando, con la sua proverbiale faccia tosta, l’arte tutta italiana dei gesti e le doti comunicative che non gli mancano, di sottrarsi anche allo «svantaggio competitivo» dialettico del quale soffre, all’estero, chi non ha una buona padronanza dell’inglese. Un modo tutto suo di uscire dall’unilateralismo anglosassone. Potrebbe anche riuscirgli, ma il gioco è delicato quando i «padri nobili» si chiamano Sordi, Totò e Gigi Proietti.