Corriere 2.10.15
Quel grado zero delle forme che rivive in Rothko e Flavin
Cento anni fa Il manifesto, scritto con Majakovskij, che mostrava il «cadavere dell’arte pittorica»
di Francesca Bonazzoli
«Per suprematismo io intendo la pura sensibilità nell’arte. Dal punto di vista dei suprematisti, le apparenze esteriori della natura non offrono alcun interesse; solo la sensibilità è essenziale (...). L’oggetto in sé non significa nulla per il suprematista. La sensibilità è la sola cosa che conti, ed è per questa via che l’arte perviene con il suprematismo all’espressione pura senza rappresentazione».
Era il 1915 e con queste parole, scritte assieme al poeta Majakovskij, Malevic dava alle stampe il manifesto del Suprematismo seguito, nel 1920, dal saggio Il suprematismo, ovvero il mondo della non rappresentazione . Contemporaneamente Malevic esponeva i suoi primi quadri suprematisti, fra il quali il Quadrato nero su fondo bianco (retrodatato dall’artista al 1913) che diverrà un’icona del Novecento, punto di partenza teorico di tanta arte astratta del XX secolo, anche se il suprematismo stesso fu legato essenzialmente alla figura carismatica di Malevic.
«Ora il cadavere dell’arte pittorica, l’arte della pittura spennellata dagli imbianchini, è stato messo in una bara, sigillata con il Quadrato nero del suprematismo», scriveva il pittore Ivan Kljunkov, echeggiando i toni utopistici e messianici con cui Malevic annunciava la «fine della pittura». Gli elementi ancora utilizzati sono il quadrato, il rettangolo, il cerchio, il trapezio: forme semplici «da confrontarsi ai segni primitivi dell’uomo primordiale, poiché non rappresentano nella loro composizione un ornamento, ma solo il senso del ritmo».
Dopo il «Quadrato nero», definito da Malevic come il «grado zero», «lo zero delle forme», l’elemento base del mondo e dell’esistenza, seguirono i quadrati rossi e quelli bianchi fino alla tela bianca vuota esposta nel 1919-20 e poi nel 1923, che non avevano nulla a che fare con le provocazioni futuriste o i gesti dei nicevoki , i nichilisti del dadaismo russo, ma rappresentavano l’estremo approdo filosofico suprematista, lo specchio del Nulla e del Tutto: «Questo quadrato che avevo esposto non era un quadrato vuoto, ma la sensibilità dell’assenza dell’oggetto», dichiarò Malevic. «Nel suprematismo non si può nemmeno parlare di pittura», scriveva ancora nel 1920. «La pittura è stata eliminata da tempo e la figura del pittore è un pregiudizio del passato».
Con il suo rigore estremista, Malevic voleva fondare una sensibilità superiore a quella fisica, che attingesse a una dimensione d’infinito. Così, sebbene fosse avanguardista e novecentesca, l’aspirazione di Malevic non faceva che ricongiungersi, in un percorso che arrivava a chiudere un cerchio, alla tradizione bizantina dove le icone sacre ripetono sempre lo stesso modello divino e dove il sacerdote pittore non crea, né interpreta, ma esegue l’immagine esattamente come si ripete la formula di una preghiera, perché l’immagine non è creata dall’uomo, ma rivelata direttamente dalla divinità.
Tolta di mezzo anche la divinità per appellarsi direttamente all’assoluto, Malevic non poteva che arrivare a un punto zero e dunque prima smise di firmare e datare le opere, poi anche di dipingere per dedicarsi all’insegnamento e alla teorizzazione di utopiche abitazioni-grattacielo di un nuovo mondo. Quasi profeticamente annunciato, il destino delle sue opere fu quello di scomparire prima a causa della condanna sovietica e poi di quella nazista. Ma la loro rinascita è beffardamente avvenuta proprio nell’era dell’esplosione delle immagini, nel secondo Novecento, quando il Quadrato bianco e il Quadrato nero hanno dato vita a una eterogenea figliolanza del radicalismo suprematista: dai neon di Dan Flavin alle camminate nel paesaggio di Hamish Fulton, dalle stanze di luce di James Turrell alle campiture vibranti di colore di Mark Rothko, tutti artisti di movimenti che hanno investito di una componente suprema il grado zero delle forme.