giovedì 29 ottobre 2015

Corriere 29.10.15
Helene, la cavallerizza visionaria e il suo museo in mezzo al nulla
La fondatrice Kröller-Müller passò anni interi a cercare dipinti di Van Gogh. Per imitare i Medici
di Roberta Scorranese


Ignaro risplendeva il Novecento in quell’estate del ’10. Firenze, luce calda, Marinetti che minaccia il chiaro di luna. C’è una signora, poco più di quarant’anni. Riccia e massiccia, una cavallerizza con la passione per i purosangue. Si accompagna al marito, abiti nuovi e pancia da ricco. Ma lei guarda la città, Palazzo Vecchio, le sculture di Michelangelo e pensa quanto sarebbe bello far rivivere l’ambizione dei Medici, una ricca famiglia borghese che ha conquistato l’immortalità grazie all’arte. Perché lei è una nouvelle riche , figlia di un industriale olandese, sposata a un altrettanto ricco imprenditore. Acciaio. Sì, fu in quell’estate del 1910 che Helene Kröller-Müller decise di passare alla storia. Con l’arte.
Tre anni dopo. Stessa cavallerizza, stesso marito florido e silenzioso. Approdano a Parigi, affittano una suite all’hotel Meurice. Quello diventa il quartier generale di una singolar forma di caccia: Helene, il marito Anton e il loro personal trainer dell’arte, Petrus Bremmer (pittore scarso, ma critico lungimirante) si alzano presto e per tutto il giorno setacciano le gallerie alla ricerca di quadri di Van Gogh. Forse Anton si sarà chiesto ma che cosa se ne farà di un artista morto tredici anni fa e che in vita ha venduto un solo quadro? Chi la capisce.
Ma Helene sa. Lei è cresciuta leggendo Goethe fino a farsi bollire la fronte dalla febbre. Lei sa riconoscere quello che c’è davvero dietro i gialli e i verdi di quell’olandese mezzo matto, malaticcio, infervorato.
Mentre compra, sceglie, cataloga annota sul diario: «Non è l’uso dei colori, non è la tecnica. Quello che di Van Gogh passerà alla storia è la sua straordinaria umanità». Lo capiva, perché in lei l’olandese viveva anche come uomo. Lei, nervi fragili e grandi ambizioni, sapeva che cosa vuol dire essere divorati dalle ossessioni. Cercare qualcosa che esiste solo nelle visioni. Ricerca quasi mistica che a volte si traduce in una sedia di paglia, sola, gialla, emblema di un’attesa mai saziata.
«Ieri abbiamo camminato per ore», annota Helene. Bottino: La Berceuse di Van Gogh e, giacché c’erano, pure un Signac e un Seurat. In un mese comprano 15 quadri dell’olandese, entro la fine dell’anno ne porteranno a casa altri 13. Sullo sfondo, quell’idea ricorrente, che batteva come un martello. Un museo. Sì, un vero museo. L’ambizione di essere i «Medici d’Olanda», fiorita in quel 1910.
Ma dove? chiedeva preoccupato Anton. Nella nostra tenuta in campagna, ribatteva lei. Lui, chissà, forse taceva davanti a tanta granitica convinzione, però da pragmatico uomo dell’acciaio si chiedeva: ma chi vuoi che ci venga in quel parco sperduto nella campagna di Otterlo? E fu precisamente nel cuore del parco De Hoge Veluwe, nella provincia di Gederland (Gheldria), ai confini dell’Olanda che il museo Kröller-Müller venne inaugurato nel 1938. A Helene ci vollero 25 anni per scegliere l’architetto giusto (si susseguirono, tra incarichi e pareri, Peter Behrens, Mies van der Rohe, H. P. Berlage e Henry van de Velde), 90 quadri di Van Gogh, migliaia di opere di altri artisti e una previsione errata: «Presto spostarsi da una città alla periferia sarà un gioco da ragazzi», disse negli anni Venti. Si sbagliava. Il Kröller-Müller Museum è un gioiello che si raggiunge non facilmente, tra treni e autobus. Viva allora la mostra di Verona.
E Helene? Forse aveva saputo sin dall’inizio, in una di quelle intuizioni che colgono le anime più «friabili», che il suo destino sarebbe stato in parte simile a quello dell’artista che inseguì per tutta la vita. Poco alla volta smise di acquistare quadri, cominciò a frequentare i medici, la depressione si accentuò e, come Van Gogh con la pittura, mano a mano che sentiva vicina la fine, prese a dedicarsi con foga al museo, come se avesse paura di non vederlo finito, come se quel sogno fiorentino si potesse dissolvere nella bruma olandese.
Fece in tempo: morì nel 1939, un anno dopo l’inaugurazione. Di lei restano due ricordi: una foto che la ritrae a cavallo e un’intuizione sopravvissuta a due guerre mondiali.