martedì 27 ottobre 2015

Corriere 27.10.15
IL vero volto di Mazzarino
Malvisto da Sciascia, Lodato da Andreotti
il cardinale merita di essere rivalutato
di Paolo Mieli


Nell’estate del 1995 apparve sul giornale economico francese «Les Échos» una serie di ventiquattro articoli intitolata Lettere dal mio castello . Erano indirizzate, volta a volta, a Charles de Gaulle, François Mitterrand, Philippe Séguin, Edouard Balladur, Bill Clinton e ad altre personalità politiche di pari livello. Contenevano indiscrezioni, malignità e giudizi sprezzanti su alcuni protagonisti dell’epoca. Erano firmate «Mazarin»; con l’avvertenza, che dietro quel nome si celava un uomo «d’ombra e di potere». Dieci anni dopo «Le Monde» rivelò che quel «Mazarin» era Nicolas Sarkozy. Il quale Sarkozy, entrato, assieme a Balladur, in urto con Jacques Chirac, si era servito del nome del potente successore di Richelieu per ordire trame contro l’allora presidente della Repubblica francese, che un anno prima lo aveva estromesso dal ministero dell’Interno. Per poi divenirne il successore all’Eliseo.
Un modo come un altro per rendere omaggio all’uomo che governò la Francia ai tempi della giovinezza del suo re, Luigi XIV, e che Alexandre Dumas aveva descritto, in Vent’anni dopo (1845), come il più grande architetto di intrighi di tutto il Seicento. Descrizione che — come nota Stefano Tabacchi nell’eccellente Mazzarino che Salerno si accinge a pubblicare — «si codifica sulla base delle memorie dei suoi avversari politici, come Retz e La Rochefoucauld, i quali avevano spesso una straordinaria qualità letteraria e inquadravano Mazzarino nel cliché del favorito straniero, avido, machiavellico, privo di etica dell’onore e capace di barcamenarsi solo con l’astuzia». Un’idea riduttiva di quel grande politico, che è stata scientificamente ribaltata qualche anno fa dal Mazzarino di Pierre Goubert (Rizzoli). Ma che — a dispetto degli studi di Goubert, Arthur Hassall, Umberto Silvagni, Karl Federn — ha lasciato di lui un’immagine rimasta nei secoli e che, qui da noi, gli è valsa, in tempi più ravvicinati, la diffidenza da parte di Leonardo Sciascia in particolare per il celeberrimo Breviario dei politici , edito in Italia da Rizzoli con l’avvertenza di un grandissimo prefatore, Giovanni Macchia, secondo il quale non si poteva affermare che quelle pagine fossero state scritte da Mazzarino in persona. Ma anche l’apprezzamento di Giulio Andreotti il quale definì quelle contenute nel suddetto Breviario «massime eterne».
In Francia Mazzarino fu valutato positivamente da Adolphe Chéruel, uno dei più importanti storici dell’Ottocento. Ma, sulla scia del successo dei libri di Dumas, si impresse assai più nella memoria del Paese il ritratto che di lui fece un altro storico dell’Ottocento, Jules Michelet, il quale lo dipinse come un «avventuriero da commedia», «re degli imbroglioni», «una sorta di germe patogeno che inocula alla Francia la morte politica e la doppiezza dell’Italia». Solo verso la fine dell’Ottocento, scrive Tabacchi, il cardinale iniziò a trovare, anche nei manuali, «una più precisa collocazione nella storia di Francia come continuatore e completatore dell’opera di Richelieu». Ma era tardi per ribaltarne radicalmente l’immagine.
Ribaltamento d’immagine che riesce magistralmente a Stefano Tabacchi, là dove mette in luce il singolare frangente per il quale Mazzarino, trentasettenne (era nato a Pescina nel 1602), diventa nel volgere di pochissimi anni l’uomo più potente di Francia. Nel 1639 Richelieu lo chiama al proprio fianco. Nel 1642 muore Richelieu. E cinque mesi dopo scompare anche Luigi XIII. Il cui figlio, futuro Luigi XIV, ha appena cinque anni, così che sua madre, Anna d’Austria, dovrà assumere l’incarico di reggente. Assistita, appunto, da Mazzarino che, in un lampo si troverà ad essere pressoché padrone unico della Francia. Gli unici confini furono a lui imposti dai conflitti dell’epoca: siamo nel pieno della guerra dei Trent’anni (1618-1648), all’interno della quale si colloca un’altra guerra, quella franco-spagnola, che di anni ne prenderà undici di più, fino al 1659. Giusto in tempo perché Mazzarino riesca a vincerla, a liberarsi dei suoi numerosi oppositori interni riparati all’ombra della «Fronda» (1648-49 e poi ancora fino al 1653). Poi convincerà, non senza qualche fatica, Luigi XIV a sposare Maria Teresa d’Austria, figlia di Filippo IV di Spagna (1660), e potrà definitivamente lasciare questa Terra nel 1661 a un’età ancora relativamente giovane: cinquantanove anni.
La partita più importante giocata da Mazzarino è quella contro la Fronda, un’entità politica che il pur lodato Goubert aveva un po’ sottovalutato. Tabacchi invece attribuisce un grande ruolo alla Fronda in sé (un ventaglio assai ampio di opposizioni politiche che, in competizione o alleanza tra di loro, diedero battaglia contro l’assolutismo), ma anche alla capacità del cardinale di piegarla per ben due volte consecutive. La prima, quella della «fronda parlamentare», nel 1648, allorché il Parlamento per circa tre mesi respinge a ripetizione gli editti, costringendo la regina a convocare i magistrati e ad accogliere parzialmente le loro richieste. Il potere regio traballa, contemporaneamente Mazzarino è messo sotto accusa per non aver tratto vantaggi dalla conclusione della guerra dei Trent’anni e per aver anzi dissanguato l’erario nel proseguimento dei combattimenti contro la Spagna.
È in questo momento, osserva Tabacchi, che nasce l’ideologia «del potere giudiziario come custode della legalità dell’azione politica». Decisi assertori del «proprio diritto a verificare la conformità della normativa regia con un ordinamento fondato sulla storia e su un modello ancora tardo medievale di principe cristiano», i magistrati avevano sviluppato, durante il governo di Richelieu, «la consapevolezza che si andava realizzando un’alterazione del quadro costituzionale». Un’alterazione «che rischiava di trasformare il potere monarchico in potere arbitrario, con l’aggravante del fatto che il re, luogotenente di Dio sulla terra, condivideva di fatto il potere con un suddito, un ministro che sembrava partecipare dei più preziosi attributi della regalità monarchica». E qui Tabacchi rende omaggio a Francesco Benigno, il quale nel libro Specchi della rivoluzione (Donzelli) ha messo bene in evidenza questo importante passaggio.
La crisi ebbe il suo culmine a fine agosto 1648: il 26 Mazzarino fece arrestare tre magistrati, tra cui il popolarissimo Pierre Broussel, che si era battuto contro l’inasprimento fiscale (la regina minacciò di strangolarlo con le sue stesse mani). Parigi insorse, si riempì di oltre duecento barricate e, dopo un paio di giorni, Mazzarino fu costretto a liberare Broussel. Ai primi di settembre il cardinale e la corte dovettero lasciare Parigi e iniziò una complicata trattativa, che aveva come posta finale la testa del successore di Richelieu. Mazzarino appariva, come scrisse l’ambasciatore di Venezia, «confuso et stordito per il continuato ardire del Parlamento». Claude de Saint Simon a questo punto scrisse entusiasticamente a un suo amico: «Mazzarino è avviato e la sua rovina è decisa in maniera che ci vorranno dei miracoli per la sua sopravvivenza; la sua eliminazione avverrà in maniera dolce, senza impiegare alcun mezzo violento». Ma il cardinale delude le attese di Saint Simon, suggerisce ad Anna d’Austria di cedere e alla fine di ottobre di quel 1648 la corte può rientrare a Parigi.
Passano alcune settimane e ai primi di gennaio del 1649 la regina torna all’attacco. I parlamentari chiedono di nuovo la testa di Mazzarino. Qui entrano in scena i due figli di Henri II di Condé, morto nel dicembre del 1646: il principe Louis II, già duca d’Enghien nonché vincitore della battaglia contro gli spagnoli del 1643 a Rocroi (quella alla cui vigilia, secondo Alessandro Manzoni, avrebbe dormito un sonno profondo), e Armand, principe di Conti. Il primo svolgerà un ruolo ambiguo, ma, in questa fase, a fianco della corona. Il secondo lo troveremo alla testa dell’insubordinazione frondista. Condé, con un’offensiva militare, taglia le linee di approvvigionamento della capitale, che però si rinfranca per il passaggio dalla parte dei rivoltosi del visconte di Turenne, a capo di un vero e proprio esercito. Mazzarino, grazie ai favori del banchiere Barthélemy Hervart, riesce a comprare i soldati di Turenne (in gran parte mercenari tedeschi) e il visconte è costretto a rifugiarsi in Olanda. Nella primavera del 1649 Parigi è alla fame. In aprile capitola. È la fine della cosiddetta «fronda parlamentare». A prevenire sgradite sorprese, per tutta la primavera e l’estate la corte si trattiene a Compiègne. Anche per non subire il contagio, annota sul suo Journal Olivier Lefèvre d’Ormesson, «dell’odio che il popolino e molte altre persone di ogni condizione avevano ancora contro il cardinal Mazzarino». Rientreranno tutti in città il 18 agosto.
Ma adesso è Condé che vuole trarre profitto dalla situazione ed essere promosso a un ruolo quantomeno di affiancamento di Mazzarino. Condé si fa avanti. Dapprima nella «disputa degli sgabelli», quando chiede che a una sua protetta, la marchesa de Pons, sia concesso il privilegio di sedere al cospetto della regina (mentre tutti gli altri devono restare in piedi). Poi, in termini assai sfrontati, allorché un suo seguace, il barone di Jarzé, depone una lettera d’amore sul letto di Anna d’Austria. La regina, colpita dall’affronto, fa allontanare il barone dalla corte, ma Condé ne pretende (e ottiene) il reintegro. Mazzarino capisce che cosa sta accadendo e, con un colpo di genio, si allea con la parte moderata della fronda parlamentare per prepararsi al nuovo scontro.
Il 18 gennaio 1650 Condé, suo fratello Conti e suo cognato, il duca di Longueville, sono convocati con un pretesto a palazzo reale e, dopo un breve colloquio con la regina che, dicendosi indisposta, li riceve a letto, vengono tratti in arresto. A dirigere le operazioni è il re, che all’epoca ha dodici anni. Grande fu l’abilità di Mazzarino nel coinvolgere il giovanissimo sovrano. Come ha ampiamente dimostrato Peter Burke in La fabbrica del Re Sole (il Saggiatore), la Fronda muoveva contro Mazzarino piuttosto che contro il monarca. Ma, facendo leva sulle suggestioni derivate dalla circostanza che l’Inghilterra era stata travolta dalla rivoluzione puritana di Oliver Cromwell e il 30 gennaio del 1649 era stato decapitato il re Carlo I Stuart, il cardinale poté chiedere a Luigi un comportamento particolarmente risoluto. In nome della ragion politica. Tanto che riuscì poi a convincerlo dell’opportunità, in un frangente della guerra con gli spagnoli, di allearsi con lo stesso Cromwell.
Siamo nel pieno della seconda fase di questa rivolta, quella della cosiddetta «Fronda dei prìncipi». L’arresto di Condé fa precipitare la situazione «ad un livello che Mazzarino non aveva previsto». Condé «rimaneva infatti un principe del sangue e l’eroe della guerra alla Spagna». La piazza parigina è di nuovo in fibrillazione. Nel febbraio del 1651 Mazzarino è costretto a fuggire da Parigi. Dieci giorni dopo Anna fa liberare i prìncipi. Poi però si ritira con la corte a Poitiers. Nel gennaio 1652 la regina richiama a sé Mazzarino e le trame del cardinale porteranno, in ottobre, al trionfale ritorno di Luigi XIV nella capitale. È la disfatta dei nobili. Nel febbraio del 1653 rientrerà anche Mazzarino. È l’epoca, questa, delle mazarinades , pamphlet contro il cardinale, definito il «mostro siciliano»: si insiste — come nel testo più celebre, quello di Paul Scarron — sulla sua omosessualità; altre volte — senza badare all’incongruenza — sui suoi rapporti carnali con la reggente. E ancora sulla sua avidità, sulla sua avarizia, sul fatto che è uno straniero che «sodomizza la Francia». Mazzarino ricorre a un settimanale, la semiufficiale «Gazette» di Théofraste Renaudot, che però si dimostra inefficace: decine di scrittori, anche di qualche valore, continuano a lasciarsi attrarre dalla Fronda. Il fatto è che, insiste Tabacchi, «al contrario di Richelieu, Mazzarino aveva trascurato di crearsi un seguito in quel vasto mondo di letterati, poeti e giuristi che affollava Parigi e trascurò di sovvenzionarne». Anche se, come sottolinea Burke, era un grande amante delle arti ed era altresì consapevole della loro utilità politica. Ma disprezzava i libellisti.
Ci fu chi cercò di fargli cambiare idea. Il suo bibliotecario, Gabriel Naudé, nel corso del 1651 provò a convincerlo che la «permanenza al potere dipendeva anche dal suo rapporto con l’opinione pubblica oltre che dal favore della regina». «Né il re, né voi», gli scrisse Naudé, «avrete mai nemici più pericolosi che i libelli… perché questi mantengono i popoli nello spirito di rivolta, senza quei libelli né i principi né il Parlamento avrebbero mai avuto il coraggio di portare le cose al punto a cui l’hanno fatto». Finalmente Mazzarino comprese l’importanza di un’azione per «disingannare» il popolo, fece stanziare da Basile Fouquet un’ingente somma per libelli antifrondisti e lo stesso Naudé scrisse un libro in forma di dialogo a favore del cardinale, il Mascurat, che però era così complesso e ponderoso da rivelarsi, a fronte dell’agilità e spregiudicatezza delle mazarinades, inefficace. Anzi, controproducente.
Tutto ciò fino alla definitiva sconfitta della Fronda, dovuta, secondo Tabacchi, a «una generale stanchezza dell’opinione pubblica per il dibattito politico»; una polizia più forte e robusta e soprattutto supportata da una magistratura desiderosa di «farsi perdonare le sue compromissioni». Così si concludono le stagioni travagliate e confuse che non riescono a trovare sbocco in una rivoluzione.