Corriere 27.10.15
I paradossi della democrazia. E i suoi (prematuri) funerali
di Michele Ainis
Nei paesini meridionali d’una volta, il dentista era il barbiere. Adesso il mal di denti viene curato a turno dal paradontologo, dall’ortodonzista, dall’igienista dentale, dall’implantologo e via masticando. Perché abitiamo un’epoca speciale, l’epoca degli specialisti. Con due eccezioni: il calcio e la politica.
Se c’è da discettare su un modulo calcistico o su un modello di democrazia, siamo tutti professori. Sicché nessun costituzionalista s’azzarderebbe mai a firmare un’opera lessicografica, mentre i linguisti pubblicano tomi sulle forme di Stato o di governo. È il caso di Raffaele Simone, peraltro non nuovo a questo genere d’incursioni. Il suo ultimo volume (Garzanti) ha un titolo eloquente: Come la democrazia fallisce . Potremmo obiettare che la democrazia dei libri è invece viva e vegeta, altrimenti un libro così finirebbe stritolato sotto le mascelle del censore. Ma in realtà la democrazia si nutre delle critiche, le accoglie, le incoraggia. E anche la letteratura sulla democrazia non può che giovarsi di contributi che provengano da un’altra sponda, da un’altra chiesa rispetto a quella frequentata dai sacerdoti del diritto.
In questo caso, tuttavia, il libro celebra i funerali della democrazia. Ne mette a nudo le «finzioni costitutive» (per esempio l’eguaglianza), che sono false però pretendono d’essere riconosciute come vere. Ne illustra i paradossi (se siamo liberi di votare chi vogliamo, allora siamo anche liberi di fare tutto ciò che vogliamo). Rispolvera l’antica critica di Rousseau ai regimi democratici, dove la sovranità popolare dura un solo giorno, il giorno delle elezioni; dopo di che il popolo ritorna schiavo. Mette sotto tiro la deriva oligarchica dei partiti, insieme al predominio delle oligarchie economiche. E infine conclude con una sentenza inappellabile: la democrazia non ha futuro, ammesso che abbia ancora un piede nel presente.
Magari Simone avrà ragione, magari noi costituzionalisti dovremo rassegnarci a elemosinare un sussidio di disoccupazione. O magari no. Perché la democrazia ha l’attitudine a reinventarsi di continuo, a cambiare pelle come la cambiano i serpenti.
La crisi attuale investe uno specifico modello di democrazia: quella fondata sui partiti. Ricevette i suoi natali in Inghilterra, con il Reform Act del 1832. Successivamente i suoi protagonisti si sono trasformati almeno per tre volte: raggruppamento di notabili durante l’Ottocento; partiti di massa con introduzione del suffragio universale; infine partiti personali. Ora la loro disgrazia si riflette sulle stesse assemblee legislative, che fin qui ne hanno cullato la fortuna.
Ma non è detto che la crisi dei partiti coincida con la crisi della democrazia. Può darsi che stia per affacciarsi un modello iperdemocratico, una democrazia senza partiti, dove la decisione principale spetta al delegante (il cittadino) anziché al suo delegato (il parlamentare). È il modello col quale la democrazia venne battezzata, nell’Atene di 25 secoli fa. E adesso il web disegna un’agorà virtuale. D’altronde lo diceva già Plutarco: il futuro dipende dal passato.