Corriere 25.10.15
L’integrazione dei migranti prova di maturità per l’italia
Un saldo attivo. Cinque milioni di stranieri rappresentano oggi l’8,3 per cento della popolazione e producono 125 miliardi di euro l’anno, ovvero l’8,6 per cento della nostra ricchezza
di Goiffredo Buccini
C’è davvero una distanza troppo larga tra la nostra percezione dei migranti e la realtà della presenza straniera in Italia. Come c’è uno iato troppo profondo tra la nostra (elevata) capacità di salvataggio e la nostra (scarsa) capacità di accoglienza. Gli ultimi dati analizzati dalla Fondazione Moressa (un istituto di ricerca collegato alla Cgia di Mestre) badano a smantellare i luoghi comuni più diffusi. Spendiamo troppo per gli immigrati (in sanità, scuola, integrazione)? Falso. Confrontando la spesa pubblica per l’immigrazione (12,6 miliardi) con il gettito fiscale e i contributi previdenziali degli stranieri in Italia, il saldo è per noi ampiamente attivo. Cinque milioni di stranieri oggi rappresentano l’8,3 per cento della popolazione e producono 125 miliardi l’anno, ovvero l’8,6 per cento della nostra ricchezza. Con 10,3 miliardi di contributi previdenziali, questi nuovi (e giovani) italiani pagano le pensioni ad almeno 620 mila italiani anziani (e autoctoni).
Se i numeri sono questi, è il caso di guardare gli sbarchi con un’occhiata un po’ più lunga. Intanto i 170 mila migranti approdati in tutto il 2014 rappresentano appena il 3 per cento della popolazione straniera ormai stabile in Italia. Certo, le vie d’afflusso sono precarie e drammatiche, la regolarizzazione avviene a strappi e traumi, ansie e paure sono più che legittime. Ma l’idea di fare «una conta di quelli che ci servono e gli altri vadano fuori» è nel migliore dei casi puerile, nel peggiore truffaldina. Il nodo in realtà sta proprio nella stabilità, nelle opportunità, nella nostra capacità di assorbire e distribuire sul territorio, integrando nelle nostre leggi e sintonizzando alla nostra cultura, coloro che da qui ai prossimi anni verranno a chiederci aiuto e forse (se la Fondazione Moressa ha ragione) ad offrircene.
Senza scomodare la traduzione kennedyana (peraltro contestata) secondo cui la parola crisi in cinese contiene l’idea del pericolo e quella dell’opportunità (anche Einstein la vedeva più o meno così, con buona pace di Borghezio), è indiscutibile che noi abbiamo nel Dna una straordinaria attitudine a fronteggiare le emergenze cui non corrisponde un’analoga propensione a superarle. In parole povere, com’è possibile che il Paese lodato nel mondo per l’operazione Mare Nostrum sia lo stesso Paese svillaneggiato in Europa per le sue pessime strutture e la sua demenziale burocrazia d’accoglienza? La risposta sta, purtroppo, proprio nel nostro genius loci che, nutrendosi di crisi, le rende eterne.
I migranti saranno dunque la nostra prova di maturità. Non serve un sociologo per capire, entrando nei Cara (i centri per richiedenti asilo) a Mineo come a Crotone, che strutture concentrazionarie da mille o duemila ospiti, piantate in mezzo al nulla, nelle quali rimanere in attesa persino due o tre anni, sono fatte per attirare mafiosi e ladri di danaro pubblico, creare disperazione e malessere sociale. Come non serve un antropologo per capire che il felice esperimento di Riace, il paesello dei Bronzi, che agonizzava finché 400 migranti non ne hanno risollevato l’economia, si regge su piccoli numeri e prossimità.
Per depotenziare gli Odevaine in agguato tra scartoffie inestricabili, bisogna disboscare le scartoffie. Rendere la prima accoglienza veloce richiede mezzi e uomini se non vogliamo decidere delle sorti di un migrante solo da un’occhiatina sinottica ai tratti somatici (assegnando, a seconda dei periodi, lo status di rifugiato a nordafricani, siriani, subsahariani…). Ma è l’unica strada, anche se non risolutiva: perché la divisione tra rifugiati e «migranti economici» è spesso ipocrita e speciosa (una mamma che scappa col neonato da carestia e siccità non ha forse diritto d’asilo?). L’ultima risposta starà nella seconda accoglienza, nei piccoli Sprar, nei comuni d’Italia. E, in definitiva, nella nostra unità.
I timori, comprensibili, vanno esorcizzati col buonsenso e la moderazione. Un grande Paese con il mito della frontiera, l’America, si confrontò a suo tempo con l’incrocio culturale, politico e istituzionale di etnie e provenienze, ed ebbe la forza di resistere ai dementi sacerdoti d’una cosiddetta «razza bianca, cristiana, anglosassone». Noi, frontiera di questo nuovo secolo, se sapremo battere con la ragionevolezza chi predica l’identità della paura, potremmo essere domani il nucleo d’un grande Paese chiamato Europa.