lunedì 19 ottobre 2015

Corriere 19.10.15
Abolizione della Tasi
I perché del no europeo


Alle prevedibili perplessità delle istituzioni europee sulla legge di Stabilità e, in particolare, alle sicure critiche sull’abolizione dell’imposta sulla prima casa, la Tasi, il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha risposto a muso duro. «Le tasse le abbassiamo da soli, non ce lo facciamo dire dall’Unione Europea cosa tagliare o no». «Bruxelles non ha titolo per intervenire».
Ha ragione? Ha torto? Qualche ragione ce l’ha. Prendiamo pure per buone tutte le obiezioni alla cancellazione della Tasi. Ma perché l’Italia non dovrebbe essere libera di tassare o non tassare come vuole i propri cittadini, a condizione, ovviamente, di rispettare i parametri concordati in sede europea?
A questa prima, possibile ragione a suo favore Matteo Renzi ne potrebbe aggiungere una seconda, politicamente pesantissima (e per lui certamente decisiva). Insieme alla Tasi, il presidente del Consiglio (e segretario del Partito democratico) punta, infatti, e con tutta evidenza, a tagliare anche l’erba elettorale sotto i piedi del centrodestra così da rendere la sua maggioranza di governo più forte e capace di durare nel tempo. Ai suoi critici egli potrebbe, pertanto, rispondere che la sua legge di stabilità serve per ridurre una grave e storica debolezza dell’Italia, cioè la fragilità dei suoi esecutivi.
Qui, però, si fermano le ragioni del presidente del Consiglio e cominciano i torti.
E non solo perché le regole, le procedure, le decisioni europee che lui oggi contesta sono state adottate tutte con il voto favorevole anche dell’Italia e le più recenti con quello del suo stesso governo e personalmente con il suo.
Matteo Renzi sbaglia perché il suo ragionamento si basa sul presupposto di considerare il 3 per cento del rapporto deficit/Pil come l’unico parametro per valutare il rispetto delle regole europee. Con questo egli butta a mare tutto il lavoro e tutto il progresso compiuto negli anni per passare da un governo dell’euro basato su poche regole rigide e inevitabilmente «stupide» a un governo flessibile e più «intelligente», capace di tenere conto di tutti i fattori delle economie dei Paesi membri con l’obiettivo di contrastare gli squilibri che ne riducono le possibilità di crescita. E non siamo proprio noi, e proprio in questi giorni, i primi a chiedere più flessibilità? Ormai da tempo l’Unione Europea si è dotata di un sistema per il coordinamento delle economie nazionali che si traduce in «raccomandazioni» specifiche, Paese per Paese, discusse con tutti i capi di Stato e di governo e da loro formalmente approvate, per promuovere la riduzione non soltanto degli «squilibri» macroeconomici (debito, deficit, …), ma anche dei principali fattori di debolezza interni.
Se l’Europa critica l’abolizione della Tasi non lo fa principalmente in difesa della regola del 3 per cento, ma perché considera che così facendo si sottraggano risorse ad altri, più preziosi investimenti, primo tra tutti la riduzione del costo del lavoro per combattere la disoccupazione, lo «squilibrio» più grave e preoccupante di cui soffre l’Italia.
Non deve far pensare il fatto che il costo dell’abolizione della Tasi corrisponda esattamente all’intero ammontare della flessibilità chiesta per favorire gli investimenti?
Ultima considerazione. Opponendosi alle specifiche «raccomandazioni» rivolte all’Italia, il presidente del Consiglio implicitamente finisce per contestare la logica stessa del coordinamento delle economie europee e per indebolire la legittimità degli interventi tesi a prevenire e contrastare gli squilibri nazionali che minano la solidità dell’intera costruzione europea.
Così facendo, Matteo Renzi contribuisce a rendere molto più difficile all’Unione Europea il trovare la forza politica per contrastare e correggere il più grave e pesante di tutti gli squilibri, quello dell’abnorme avanzo nei conti esteri della Germania.