«l’abolizione di Tasi e Imu sulla prima casa è una scelta sbagliata dal punto di vista della crescita e dell’equità sociale. È la scelta perfetta dal punto di vista del consenso. Il giudizio economico è quasi unanime, da parte delle istituzioni internazionali, della Banca d’Italia, degli economisti. In Italia c’è un grandissimo debito pubblico e una grandissima ricchezza privata, al punto che periodicamente si è parlato di una tassa patrimoniale. Questa misura della legge di Stabilità toglie un pezzo di patrimoniale che c’era, e c’è nella gran parte degli altri Paesi»
Corriere 18.10.15
Mario Monti
«Il premier cerca consenso Il debito può attendere»
intervista di Federico Fubini
In questi mesi le energie di Mario Monti sono assorbite dal «gruppo di alto livello» dell’Unione Europea, che presiede, incaricato di proporre nuovi canali autonomi di finanziamento del bilancio comunitario. Ma l’ex premier non è così preso dal suo mandato da non accorgersi che nell’area euro — e in Italia — i bilanci nazionali sono sempre più spesso fondati sull’indebitamento. O, per dirla nelle sue parole, sul fatto che «i governi cercano di comprare i voti degli elettori di oggi con soldi sottratti ai cittadini di domani».
Italia, Francia e Spagna di fatto non osservano il patto di Stabilità e il «fiscal compact». Queste regole non stanno proprio funzionando, non trova?
«In Europa c’è grande discussione sul mix fra regole e flessibilità. La Commissione Juncker dallo scorso gennaio ha deciso di applicare le regole sui bilanci degli Stati con maggiore flessibilità. E ora gli Stati fanno a gara su chi ne ottiene di più. Il rischio è che ad ogni applicazione ai vari Stati, la credibilità della Commissione come arbitro si riduca un po’, perché c’è un maggiore ricorso alla discrezionalità. Occorre che la Ue si dia regole fiscali più corrette dal punto di vista economico, soprattutto riconoscendo chiaramente i meriti della spesa pubblica che va in investimenti pubblici seri e produttivi, da definirsi con rigore; e allora ci sarà meno bisogno di ricorrere ad una flessibilità malcerta e poco obiettiva».
Non le viene il sospetto che l’eccesso di sacrifici imposti nel 2011-2013 produca oggi questa reazione opposta?
«In parte è così. Dopo la stretta della fase 2011-2013, senza la quale peraltro l’euro difficilmente sarebbe sopravvissuto e l’Italia sarebbe probabilmente uscita dall’eurozona, è diventato più difficile mantenere il consenso dei popoli europei a politiche di disciplina di bilancio, che pure non erano ingiustificate dopo decenni di spesa in deficit. Furono scelte dure. Eppure senza quell’impegno così duro le difficoltà si sarebbero fatte ancora maggiori. E certo non avremmo potuto convincere i Paesi del Nord ad accettare l’idea di uno scudo anti-spread per i Paesi che si impegnavano sul bilancio e sulle riforme. Questo poi ha aperto la strada all’azione della Bce di Mario Draghi, di cui l’eurozona e anche l’Italia hanno molto beneficiato».
Ora però il governo Renzi sta cancellando alcune delle sue riforme.
«Non c’è a priori un motivo per cui un governo nel 2015 debba aderire alle scelte di un governo nato nel 2011, in condizioni ben più gravi».
Vale anche per la gran voglia di smontare la riforma delle pensioni?
«Sulle pensioni, rispetto alle spinte da parti del mondo politico e sindacale, direi che il governo Renzi ha ben difeso il quadro attuale. Nel complesso ha molto ridimensionato le richieste, con marginali variazioni che rispettano il principio di non imporre costi ulteriori al bilancio pubblico. Non dimentichiamo che la riforma delle pensioni, che dobbiamo alla tanto vituperata Elsa Fornero, è stato il fattore che più di ogni altro ha consentito la sopravvivenza finanziaria del Paese».
Ha lo stesso giudizio positivo anche sull’abolizione di Tasi e Imu sulla prima casa?
«No. È una scelta sbagliata dal punto di vista della crescita e dell’equità sociale. È la scelta perfetta dal punto di vista del consenso. Il giudizio economico è quasi unanime, da parte delle istituzioni internazionali, della Banca d’Italia, degli economisti. In Italia c’è un grandissimo debito pubblico e una grandissima ricchezza privata, al punto che periodicamente si è parlato di una tassa patrimoniale. Questa misura della legge di Stabilità toglie un pezzo di patrimoniale che c’era, e c’è nella gran parte degli altri Paesi».
Renzi ricorda che da noi gran parte delle famiglie vive in case di proprietà.
«Non è un argomento convincente: se la proprietà immobiliare è così diffusa, allora il gettito è rilevante e dunque non si vede perché rinunciare. Sarebbe meglio tassare un po’ di più il patrimonio, in modo che ciò consenta di tassare meno il reddito e di ridurre il cuneo fiscale, un’opzione che economicamente ha molto più senso. È però la scelta perfetta per guadagnare consenso. Proprio perché i beneficiari sono molto numerosi e ognuno sa calcolare esattamente quanto pagherà in meno. Ridurre il cuneo fiscale sul lavoro ha effetti più positivi per la crescita, ma genera meno consenso proprio perché sono in gran parte i suoi effetti indiretti a rendere l’economia più competitiva, più capace di creare lavoro anche per i giovani. Ma i moltissimi che ne beneficiano non colgono così chiaramente a chi devono essere grati, al momento del voto o del sondaggio. Ed è vero che l’edilizia è importante in Italia. Ma gli studi mostrano che la sua crisi era iniziata ben prima che venisse messa la tassa sulla prima casa».
Secondo lei l’obiettivo della manovra è il sostegno dell’impresa o il rilancio dei consumi?
«Come mostra il pacato e lucido articolo di Guido Tabellini nel Sole 24 Ore di ieri (“Il prezzo pagato al consenso a breve”), questa legge di Stabilità rivela che “oggi l’obiettivo prioritario del governo è consolidare il consenso. Il rientro dal debito, invece, può aspettare. Le decisioni difficili sulle coperture sono rimandate al futuro. È facile prevedere che gli obiettivi di disavanzo e di rientro dal debito saranno mancati, a meno di non essere di nuovo costretti a rispettarli dall’emergenza finanziaria”.
C’è un sapore di ritorno all’antico, si torna a fare una politica economica che cerca di comprare il voto degli elettori di oggi con i soldi dei cittadini di domani».
Però Renzi sembra quasi impaziente di ingaggiare l’Europa in duello, non trova?
«Si vede bene la convenienza politica di impostare una “battaglia” con l’Europa. Spero che gli italiani abbiano chiara la posta in gioco: se il governo portasse l’Italia alla “vittoria”, nel senso di ottenere — anzi “imporre agli eurocrati” — tutta la flessibilità che chiede, non sarebbe una vittoria per il Paese. Non ci sarebbe alcuna risorsa in più dall’Europa all’Italia, o in meno dall’Italia all’Europa. Si tratterebbe solo di un’autorizzazione ottenuta dall’Europa perché lo Stato italiano possa avere un disavanzo un po’ maggiore ; possa, in altri termini, essere un po’ meno rispettoso verso i cittadini italiani di domani. Non dimentichiamo che la disoccupazione giovanile di oggi è in gran parte il frutto delle politiche del debito degli anni 70 e 80. Sui giovani di oggi sono ricaduti gli oneri di allora. Vogliamo ripeterci? Gli italiani che hanno a cuore il futuro dei loro figli devono sperare che l’Ue svolga fino in fondo il proprio ruolo di sorveglianza».
Come giudica l’impostazione generale della politica economica del governo?
«A me è molto piaciuto il Renzi iniziale, quello delle riforme strutturali — quelle economiche, mentre ho molte riserve sulle riforme istituzionali — condotte con coraggio e per il futuro dell’Italia. Vedo con preoccupazione lo smorzarsi questo impulso e il subentrare di due componenti : la convinzione che l’esborso di denaro pubblico favorisca la crescita, una visione un po’ arcaica della sinistra; e l’assecondamento degli animal spirits imprenditoriali più con la rimozione di tasse e di regole che con l’introduzione dello stimolo di una forte e rigorosa concorrenza e di effettive liberalizzazioni; una visione conservatrice, più che liberale».
Corriere 18.10.15
Il governo e le valutazioni
Pareri, non diktat, ma vanno rispettati
Commissione ed Eurogruppo adottano un parere su ogni singola bozza di legge di Stabilità e lo rendono pubblico. È una procedura da accettare con responsabilità.
di Enzo Moavero Milanesi
In Europa, gli Stati hanno fatto i loro «compiti» e li hanno inviati a Bruxelles per gli «esami» annuali. Questo linguaggio, spesso usato nella comunicazione divulgativa, non necessariamente aiuta a capire il vero senso dell’importante esercizio in corso, per la verifica europea della congruenza delle future leggi di Stabilità dei vari Paesi. Ricordarne i principi e gli elementi cardine può aiutare a comprenderlo meglio.
La ragion d’essere dell’esercizio discende dall’interdipendenza fra le economie degli Stati membri dell’Unione Europea: risultato di oltre 60 anni di liberi scambi, politiche pubbliche e leggi comuni. Inoltre, è legata alla moneta (l’euro) condivisa da 19 Paesi Ue, corresponsabili della sua solidità, del suo valore. In un simile contesto, i vizi di alcuni si ripercuotono sui partner.
Pensiamo, per analogia, a un condominio dove alcuni condomini lasciano degradare il loro appartamento: prima o poi, l’insieme dell’immobile si deprezzerà e anche i vicini ne subiranno un danno; dunque, bisogna vegliare sul comportamento altrui e se far intervenire l’amministratore del condominio. Le regole europee si fondano proprio sulla medesima esigenza. L’esame dei progetti di tutte le leggi di Stabilità serve a dare a ciascun governo nazionale una garanzia concreta, circa le scelte e le iniziative degli altri. Ci sembra insensato?
Va ben compresa anche la natura del cosiddetto esame. È fatto da due organismi Ue: la Commissione europea, quale istanza indipendente dagli Stati e l’Eurogruppo in cui decidono i ministri dell’Economia dei Paesi che usano l’euro. Ambedue adottano un parere su ogni bozza di legge di Stabilità, che viene subito reso pubblico; governi e Parlamenti nazionali lo ricevono, per tenerne conto nel dibattere e votare la legge. I due pareri non sono diktat «esterni»: tutti i governi vi contribuiscono (direttamente, in seno all’Eurogruppo e indirettamente, discutendo con la Commissione) e i Parlamenti restano sovrani nella decisione finale. Il tenore di ciascun parere dipende dall’esito di due verifiche, una più tecnica della Commissione e una più politica dell’Eurogruppo; ma, soprattutto, dipende dalla conformità e dalla credibilità delle misure e dei saldi contabili, rispetto ai parametri e agli obiettivi che tutti gli Stati si sono impegnati a rispettare, dopo averli liberamente decisi, insieme, a livello di Ue.
Dunque, l’esame europeo chiama in causa la responsabilità primaria di vari soggetti: i due organismi dell’Unione, il governo e il Parlamento di ogni Paese. Si badi, è una responsabilità trivalente: economica, per l’esattezza dell’analisi e dei conti; politica, per il valore delle scelte e del responso valutativo; e giuridica, perché ci si confronta con regole che sono, a tutti gli effetti, leggi la cui violazione determina conseguenze serie, fra le quali la possibilità di azioni giurisdizionali. Inoltre, la pubblicità assicurata ai pareri Ue, così come alle proposte normative nazionali, dà a chiunque l’opportunità — e il dovere — di vagliarli: ai governi e ai parlamentari, per il proprio Paese e per gli altri; ai mercati finanziari, da cui dipendono la fiducia internazionale nell’economia di uno Stato e molti investimenti; e a tutti noi cittadini, se attenti.
Come si vede, si tratta di un esercizio complesso e sensibile, d’importanza collettiva. Va condotto con perizia e misura. L’esame europeo dei vari progetti di legge andrebbe focalizzato sulla sostanza e sulla loro sostenibilità, evitando minuziose richieste, non indispensabili ai fini della reciproca garanzia fra gli Stati. In ogni Paese, governo e Parlamento — nella logica del condominio — dovrebbero tenere presente l’interesse comune europeo e non solo quello nazionale, varando leggi conformi a entrambi. È bene che i governi evitino note astuzie, facendo annunci e proposte che ammaliano gli elettori, per poi incolpare solo l’Unione degli inevitabili dinieghi. I tipici comportamenti deleteri per il sentimento europeista sono il superfluo tracimare dell’invasività tecnocratica e le astuzie melliflue e miopi.
L’anima dell’esame europeo in corso è la costruzione di una maggiore fiducia fra gli Stati. Ha, dunque, connotati federali, sebbene embrionali e conviventi con il carattere incompiuto dell’unificazione europea. Finché le sue norme sono in vigore c’è l’ovvio dovere di osservarle diligentemente; ma si possono sempre cambiare. Anzi, per chi non apprezzi il sistema, le opzioni sono almeno due. La prima: avanzare proposte serie e concrete, anche radicali, per migliorarlo, nell’ottica di un’Europa più coesa ed equa. La seconda: perseguirne l’abrogazione e spiegare perché sia meglio che Stati che condividono un mercato e una moneta, ritornino al pieno arbitrio nazionale sui propri bilanci e conti pubblici. Temo sia, invece, spericolato conciliare gli appelli per «più Europa» con il rifiuto di un reciproco, rigoroso controllo di garanzia.
il manifesto 18.10.15
Il Pd perde (altri) pezzi
Va via D’Attorre, in quattro dati in uscita
Direzione: nuovo gruppo di sinistra. Minoranza interna ormai in crisi nera di identità
Il voto nelle città è il giro di boa anche per il renzismo
di Daniela Preziosi
Non è un annuncio inatteso anzi la notizia da giorni circolava alla camera. Anche mesi. Alla fine il deputato dem Alfredo D’Attorre, bersanianissimo anzi pupillo dell’ex segretario ai tempi della coalizione Italia bene comune, lascia il Pd. Lo ha annunciato ieri in un’intervista al Corriere della sera. Dopo molti no e qualche sofferto sì il deputato nato a Melfi, normalista, ricercatore in filosofia e responsabile delle riforme nel Pd avanti Renzi, alla sua prima legislatura, stavolta non ha intenzione di votare la legge di stabilità: «Impianto insostenibile», spiega, «al centro c’è l’abolizione della tassa sulla prima casa, compresi i proprietari di castelli. Neppure Berlusconi si era spinto fin lì».
A Montecitorio altri due-tre potrebbero seguirlo in direzione — forse dopo un breve passaggio nel misto — di un nuovo gruppo di sinistra (o, forse, di «centrosinistra» old style, per favorire l’arrivo di qualche ’prodiano’) che nascerà alla camera entro fine novembre. Forse non sarà esattamente il gruppo parlamentare della ’cosa rossa’ però: D’Attorre, pacato allievo dell’ex segretario, su questo ha le idee chiare. «Non credo a una riedizione della cosa rossa o esperimenti della sinistra radicale. Se lo snaturamento del Pd arriva a compimento, si apre lo spazio per un soggetto largo e plurale di centrosinistra, ulivista».
Mentre Renzi annuncia la sua nuova Leopolda, la sesta edizione dal 2010, la seconda dell’era del governo (si svolgerà come sempre alla stazione Leopolda di Firenze l’11, 12 e 13 dicembre), il lato sinistro fuori dal recinto del Pd si affolla ancora di più. Ma di protagonisti non sempre d’accordo fra loro sul che fare. Domani nel primo pomeriggio una nuova riunione fra le diverse anime della sinistra dovrebbe provare a trovare la quadra sul percorso in direzione del ’soggetto unico’ ma soprattutto sulle alleanze delle prossime amministrative. A partire dal caso di Milano dove Sel è decisa a partecipare alle primarie del centrosinistra, almeno per ora. Nel partito di Vendola non sono tutti d’accordo. Nell’assemblea di sabato prossimo si confronteranno quelli che accelerano sulla ’cosa rossa’, come il coordinatore Nicola Fratoianni, quelli più cauti non disposti a ’rompere con il Pd’ in tutte le città, e quelli che ancora pensano a un centrosinistra nazionale nonostante «l’autoritario» Renzi e nonostante l’Italicum (come i senatori Uras e Stefàno, considerati i più vicini al Pd). A novembre invece la convention di Pippo Civati schiererà l’associazione Possibile sulla linea dei primi. Che poi è la stessa del Prc di Paolo Ferrero. La nuova cosa rossa, o quel che sarà, nascerà di sicuro: ma la via crucis per arrivarci ha ancora parecchie fermate.
D’altro canto proprio la mancanza di un soggetto a sinistra del Pd, ma un soggetto che sia «arioso, largo e plurale, la casa di tutti quelli che stanno male nel Pd» — come lo immagina D’Attorre– è uno dei fattori che hanno fatto impantanare la minoranza dem. Che oggi si trova alle prese con una profonda crisi di identità, dopo l’ennesimo accordo al ribasso sulla riforma costituzionale. E in vista del voto su una finanziaria già duramente criticata da Bersani. Al quale ieri il segretario ha replicato con durezza a proposito dell’ormai rituale accusa di decisionismo solitario: «Alla faccia di chi dice che c’è un uomo solo al comando, dico che la sfida la vinciamo insieme. Io so quali sono le mie responsabilità. Vado avanti come un treno, non ho paura: posso perdere le elezioni — ma non preoccupatevi, le vinciamo — ma non la faccia. Vado avanti senza arretrare di un centimetro».
Ieri i compagni di nidiata di D’Attorre hanno salutato l’ex sodale senza fare un plissé. L’addio è un segno di «malessere» ma «si sta nel Pd, per me non c’è nessuna alternativa», ha spiegato Roberto Speranza, giurando che lui non se ne andrà «neanche con le cannonate». Barbara Pollastrini, dalemian-cuperliana, ha chiesto al segretario di «riflettere su come ristrutturare la casa, renderla aperta a un’idea di sinistra decisiva per cambiare dalla parte giusta».
Cruciali, anche nel partito di Renzi, le amministrative nelle grandi città governate dal centrosinistra: Milano, Roma, Torino, Bologna: se il Pd deciderà di rilanciare la coalizione o se Renzi vorrà sperimentare il ’partito della nazione’ pigliatutto e autosufficiente. Magari per prendere l’onda di una campagna elettorale lunga tutto il 2016: dalle amministrative di primavera fino al referendum costituzionale dell’autunno. Che, se tutto va bene (per lui) potrebbe portare persino alle politiche del 2017.
il manifesto 18.10.15
Bersani sbaglia. Meglio separarsi prima di essere indifendibili
di Franco Monaco
Ci sono buone, buonissime ragioni, e non necessariamente “di sinistra”, ma semplicemente di equità e di legalità, per dissentire da misure della legge di stabilità quali la cancellazione tout court della tassa su tutte le prime case e l’innalzamento a 3mila nell’uso dei contanti. Come va facendo giustamente la minoranza Pd. Dissensi che vanno ad aggiungersi a molti altri: sulla Costituzione, sull’Italicum, sul jobs act, sulla scuola, sulle liberalizzazioni (revocate), sulla responsabilità civile dei magistrati, su contrattazione e rapporto con i sindacati e, di qui a poco, sulla Rai. Dove già si è provveduto a nomine mediocri e lottizzate profittando della legge Gasparri e ora ci si accinge a fare una riforma che riforma non è (nulla sulla mission del servizio pubblico, sui tetti pubblicitari, sulla complessiva visione del sistema informativo, scomparsa ogni traccia del modello BBC che pure figurava nella storiche proposte del centrosinistra da Veltroni a Gentiloni). La solita lottizzazione del cda e semmai un di più di presa sulla Rai da parte del governo che si nomina il vero dominus dell’azienda nella persona del suo ad. L’opposto del mantra bugiardo del cosiddetto passo indietro della politica.
Una minoranza che dissente su tutte le questioni che contano, che, a parole, denuncia — Bersani dixit — che «si sta portando il Pd da un altra parte», che leva alte grida contro il soccorso di Verdini ma poi non ne trae le conseguenze. Semmai reitera comportamenti alla lunga indifendibili, distinguendosi in parlamento, contro un vincolo politico prima che disciplinare, per chi sta in un partito degno di questo nome. Dove ci si conforma ai deliberati della maggioranza. Eppure Bersani si ostina a ripetere «separazione? Tre volte mai». Francamente non lo capisco.
Per parte mia sarei meno polemico ma più risoluto, più conseguente: si prenda atto di differenze ideali, politiche e programmatiche non componibili in un medesimo partito e ci si separi, senza reciproci anatemi. È sempre più evidente che il Pd di Renzi è cosa diversa dal Pd concepito nel solco dell’Ulivo, quale partito di centrosinistra nitidamente alternativo al centrodestra. Lo si chiami partito della nazione, pigliatutti, partito unico di governo, grande centro. Come si può negare una tale evidenza? Solo se si presta credito a slogan funambolici ed esorcistici di cui è prodigo il premier, del tipo: il jobs act è la legge più di sinistra di questo governo; così pure di sinistra sarebbe la legge di stabilità che tanto piace a imprenditori e commercianti; l’Italicum è la più democratica delle leggi elettorali (tutte formule renziane).
Da tempo, inascoltato, sostengo che non è né saggio né utile esasperare il conflitto interno e logorare gli stessi rapporti personali. Anche perché, separandosi da buoni amici, ci si potrà eventualmente alleare domani, se matureranno le condizioni, tra un centro renziano e una sinistra di governo, uniti e distinti dal celebre trattino, al modo del centrosinistra storico basato sull’’asse Dc-Psi. Su un programma negoziato. Fare un grande centro non è una bestemmia. Ma certo è cosa diversa dal Pd versione prodiana. Perché la minoranza bersaniana è così indisciplinata ma, insieme, ostinata nel rifiutarsi anche solo di considerare l’ipotesi di una serena separazione? Mi do tre risposte: 1) perché vittima del mito unitarista del partito di marca comunista, l’opposto di una concezione laica di esso quale strumento servente una politica in cui ci si riconosce (il fine è la politica, non il partito, un mezzo, che si può cambiare senza drammi); 2) perché, sottostimando sia lo statuto Pd che disegna un partito fondato sulla democrazia di investitura del leader sia la stessa soggettiva vocazione di Renzi a un leaderismo spinto, ci si illude di potere strappare una gestione consociativa del partito, magari una gestione a due (del resto il tanto celebrato — dalla minoranza Pd — “metodo Mattarella” fu una decisione presa in due, Renzi e Bersani, il più verticistico dei metodi, considerato che i grandi elettori Pd non furono mai consultati ma solo informati a un’ora dal voto per il Quirinale) 3) forse anche un certo sistema di interessi diffusi che ha il suo baricentro in Emilia e che — il caso dei ministri modulo Poletti insegna — malvolentieri abbandonano il certo di un rapporto organico con il partito al governo per avventurarsi verso l’incerto di un nuovo soggetto di sinistra. La quale sinistra può attendere.
*deputato Pd
il manifesto 18.10.15
Lo scandalo degli oppressi che collaborano con Renzi
Governo. Non basta l’appoggio dei «poteri forti» per capire come può l’attuale premier fare a pezzi la democrazia. Le dinamiche di potere coinvolgono anche gli alleati nelle amministrative e pezzi di società civile
di Alberto Burgio
Dinanzi all’enormità di quanto sta accadendo occorre essere esigenti sul terreno analitico. Com’è possibile che tutto questo avvenga? Chi ne è responsabile?
Certo, Renzi è oggi l’incontrastato protagonista della scena politica italiana. Chi si è a lungo baloccato col mantra del politico «senza visione» riconsideri le decisioni assunte in questi venti mesi di governo.La buona scuola e il Jobs Act; le privatizzazioni e i tagli alla spesa sociale; il forsennato attacco al sindacato; il combinato tra Italicum e devastazione iper-presidenzialista della Costituzione; l’occupazione militare dei vertici Rai; lo scempio sistematico dei regolamenti parlamentari; lo sdoganamento di politici pluri-inquisiti.
Tutto questo non sarà «visione», sarà semplice istinto, ma di certo non è difficile leggervi una traiettoria lineare di stampo autoritario e thatcheriano.
Ma Renzi non è solo. Da solo o col solo cerchio magico dei Lotti e dei Delrio non potrebbe imporre al Paese il proprio disegno. Un discorso serio chiede a questo punto un’analisi attenta delle filiere di connivenza e di complicità che gli permettono di dilagare consolidando il proprio potere e trasformando pezzo dopo pezzo il sistema politico e gli assetti sociali del Paese. Il tutto senza colpo ferire: senza conflitti, senza resistenza né sostanziale opposizione su qualsivoglia terreno.
Per un verso questo discorso guarda in alto, ai mandanti interni e internazionali. Renzi piace ai poteri forti dell’imprenditoria privata, ai ricchi e ai grandi investitori, agli alti gradi della dirigenza pubblica. È gradito alle corporazioni professionali, ai corpi chiusi dello Stato, al possente esercito degli evasori fiscali. E va a genio, non da ultimo, alle centrali del potere europeo e atlantico, di cui non mette mai in discussione, se non a parole, interessi e scelte.
Ma nemmeno tutto questo basta. Il renzismo non è una dittatura, ricatti e intimidazioni non tolgono che le istituzioni funzionino ancora in base alla relativa autonomia di ogni singola articolazione dello Stato e della società civile. E la stessa grancassa mediatica senza la quale il regime imploderebbe non obbedisce ai dettami di un’occhiuta censura governativa. Insomma, i poteri alti suggeriscono e proteggono, ma neanche il loro appoggio da solo basterebbe a garantire al capo del governo le condizioni necessarie all’efficacia e alla continuità di un’azione a suo modo «rivoluzionaria», nel senso della sovversione dell’ordinamento democratico e costituzionale.
Dove guardare allora? Il suggerimento è quello di riprendere in mano l’ultimo libro di Primo Levi, scritto pochi mesi prima di por fine alla vita, un po’ il suo testamento spirituale. Ne «I sommersi e i salvati» i Lager sono considerati un laboratorio per l’analisi delle dinamiche di potere, un microcosmo in qualche modo corrispondente all’intera società tedesca. Ciò che colpiva Levi era il fatto che persino lì, nell’istituzione paradigmatica della violenza brutale e della negazione dell’umano, il potere funzionasse anche grazie al supporto di una parte delle sue stesse vittime. Che persino lì dove la ferocia del potere militare trionfava, l’ordine era garantito anche dall’obbedienza, la quale implicava a sua volta una qualche forma di consenso, di connivenza, di complicità.
In quel microcosmo «intricato e stratificato» si ripeteva «la storia incresciosa e inquietante dei gerarchetti che servono un regime alle cui colpe sono volutamente ciechi; dei subordinati che firmano tutto, perché una firma costa poco; di chi scuote il campo ma acconsente; di chi dice “se non lo facessi io, lo farebbe un altro peggiore di me”». In poche pagine Levi stilizza un’analisi delle motivazioni (corruzione, viltà, doppiezza, calcolo opportunistico) che inducevano la «classe ibrida» degli oppressi a collaborare con l’oppressore. In questo senso (e soltanto in questo) la «zona grigia» dei kapos e delle Squadre speciali del Lager corrispondeva a quella assai più vasta dei cittadini tedeschi (ed europei) che – senza l’attenuante dell’immediata minaccia della vita – sostennero il regime nazista, approfittarono dei privilegi che ne traevano e variamente cooperarono con i suoi crimini.
Lo schema è generale e le differenze, molto profonde, non ingannino. A giudizio di Levi il modello del Lager serve a individuare ingredienti costanti delle dinamiche di potere. Serve a capire come il potere operi anche in una società comandata da uno Stato totalitario. E serve a maggior ragione a comprendere come esso funzioni in un Paese democratico, dove la relazione politica è caratterizzata da un tasso di violenza incomparabilmente minore. Se ottenere consenso era necessario persino nel Lager, è evidente che senza consenso non si potrebbe governare una società come la nostra, dove il potere è costretto a fare un uso molto più parco della violenza e dove quindi è assai più complicato preservare le gerarchie costituite e i rapporti di forza.
Allora, per tornare a Renzi, dovremmo smetterla di farne la nuova incarnazione del demonio assolvendo in blocco chi gli permette di distruggere in allegria. Se a Renzi riesce di devastare il Paese, è perché in tanti ne sostengono variamente l’azione. I suoi compagni di partito di tutte le stirpi e a ogni livello in primo luogo, nonché quanti si ostinano nonostante tutto a votarlo. Gli alleati del suo Pd in seconda battuta, nelle amministrazioni e nelle varie sedi del sottogoverno. E poi i diversi segmenti della società civile – pezzi del sindacato e del mondo cooperativo; dell’associazionismo, dell’informazione e dell’intellettualità – che brillano per concorde silenzio come se, via Berlusconi, qualsiasi problema di democrazia e di giustizia sociale fosse per incanto risolto. È vero, ogni chiamata di correo è sgradevole, tanto più se indiscriminata. Ma la furbesca collaborazione col potere da parte dei subordinati e persino degli oppressi è addirittura scandalosa. E, giunte le cose al punto in cui sono, fare finta di nulla non ha proprio alcun senso.
Il Sole 18.10.15
I tre «utili» avversari di Renzi per la vera sfida con Grillo
di Lina Palmerini
Il duello con la minoranza del Pd sulle tasse, con Alfano sulle unioni civili e con l’Europa sulla flessibilità. Renzi enfatizza questi tre fronti di conflitto per rendere più efficace la vera battaglia, quella con Grillo. E si sceglie tre “utili” avversari per gareggiare con il suo vero avversario in vista delle elezioni di primavera.
Se le tensioni con la minoranza interna sulle riforme costituzionali potevano avere un prezzo alto per i rischi parlamentari e per lo scarso “ritorno” in termini di consenso, la battaglia che la sinistra Pd ha ingaggiato contro il premier sulle tasse è invece un cadeau politico. Mai come in questo momento poteva fruttare così tanto a Renzi difendere il taglio delle tasse sulla casa: gli tiene alta l’attenzione e la propaganda sulla legge di stabilità e – contemporaneamente - diventa un ottimo argomento elettorale contro Grillo che ieri ha cominciato la sua marcia verso le elezioni amministrative dalla festa di Imola. E in vista di quello che sarà lo scontro con il suo vero avversario - il Movimento 5 Stelle - Renzi duella con quelli che stanno diventando i suoi “utili” avversari. Utili nel senso che ingaggiando delle battaglie contro di loro, il leader del Pd appare più credibile nel suo profilo di innovatore sia nel campo dell’economia che in quello dei diritti civili che delle politiche europee.
E dunque se la sinistra Pd che minaccia di non votare la manovra lo aiuta a ridefinire il perimetro del suo Pd che si trasforma in partito del ceto medio e medio-alto, vicino perfino a categorie prima “nemiche” (e oggi agganciate con la misura sul contante), Alfano e l’Europa lo aiutano a rispostarsi a sinistra. È come se il premier stesse ridisegnando i confini di ciò che sta alla sua destra e alla sua sinistra utilizzando gli avversari interni ed esterni.
E così va avanti sulle unioni civili e chiude la porta a Ncd riguadagnando un profilo liberal così come la politica di accoglienza sull’immigrazione lo riporta tra le braccia della sinistra. E si trasforma in Tsipras quando difende la legge di stabilità e attacca l’Europa rivendicando un ruolo e un orgoglio nazionale nelle scelte di politica economica. Insomma, anche l’Ue gli dà una mano a riposizionarsi e coprirsi sul fronte dei populismi di destra e sinistra, quindi di Grillo e Salvini ma anche di Sel e della sinistra interna. Non si sa fin dove si spingerà il braccio di ferro con Bruxelles, certo è che oggi a Renzi fa assai comodo perché occupa lo spazio politico dei partiti e dei leader che hanno sempre contestato il dogma dell’austerità e dell’autodeterminazione nelle politiche nazionali.
Ma tutti e tre i fronti che si è aperto guardano a un’unica battaglia con un unico avversario. Non c’è Salvini in mezzo o Berlusconi, c’è solo il Movimento 5 Stelle. E ieri ha cominciato a scaldare i motori ingaggiando un botta e risposta su Expo e rivendicando un successo che Grillo invece aveva negato nei suoi pronostici. È un assaggio di quello che accadrà nei prossimi mesi in vista di un test politico sia per il premier sia per i 5 Stelle che non potranno perdere, anche questa volta, l’occasione di vincere almeno una grande sfida.
Difficile dire chi dei due vincerà perché entrambi, finora, hanno legato troppo la loro leadership a circostanze esterne. Renzi alla variabile della ripresa economica mentre Grillo a quella delle brutte notizie, nel senso che la loro scommessa funziona se l’economia andrà male, se esploderanno nuovi scandali giudiziari. Un tanto peggio tanto meglio che potrebbe lasciare perplessi anche i più curiosi di vederli all’opera su un’impresa significativa come la guida di una grande città.
Repubblica 18.10.15
Diceva il Marchese del Grillo
“C’è chi fa dritto lo storto e storto il dritto”
di Eugenio Scalfari
IL PRESIDENTE del Consiglio italiano sta litigando con il governo dell’Europa sulla nostra legge finanziaria che, dopo essere votata dal Parlamento di Roma, dovrà essere approvata dalla Commissione di Bruxelles? E il presidente del Consiglio italiano ha cambiato la sua politica estera e militare sul fronte di guerra del Medio Oriente? E ancora: sta cambiando anche la po-litica sociale e quella economica? Infine: è cambiato anche il rapporto politico e la raccolta del consenso tra il premier e il suo partito del quale è segretario?
Sono quattro domande non da poco. Interessano la classe politica, il business , i lavoratori, i contribuenti, gli elettori; insomma i cittadini del nostro Paese ed anche dell’Europa della quale siamo parte integrante.
Una serie di cambiamenti di questa natura non avvenivano in Italia da molti anni e Matteo Renzi che del cambiamento ha fatto l’elemento essenziale del suo programma può andarne orgoglioso: il cambiamento è cominciato da quando si è insediato a Palazzo Chigi estromettendo Enrico Letta con una vera e propria pugnalata; sono passati quasi due anni e il cambiamento continua e continuerà.
Gli italiani sono più felici? No, sicuramente no. A causa dei sacrifici imposti dalla recessione economica che ha colpito il nostro Paese ma anche l’Europa, l’Occidente e il mondo intero? Sì, è questa la causa principale (ma non la sola) del nostro malcontento.
NE DANNO a Renzi la colpa? Al contrario: la maggior parte dei cittadini non sa chi incolpare, oppure ne dà la responsabilità alla casta politica; una minoranza crescente ne dà colpa alla Germania e/ o ai migranti. Anche a Renzi? No, a Renzi no.
Questo è lo sfondo della scena che ci interessa oggi affrontare. Lo scontro tra Renzi e Bruxelles è il fiammifero che ha acceso il fuoco e la legna è molta. Speriamo che il fuoco non diventi incendio perché i pompieri capaci e disponibili sono molto pochi. *** Il nostro giornale ha pubblicato ieri un sondaggio mensile compiuto dall’istituto Demos sull’orientamento politico dei cittadini. Le domande e le risposte sono molte ma Ilvo Diamanti che ne è l’autore coglie l’essenza del sondaggio con queste parole: «Il consenso a Renzi si rafforza da un mese all’altro, ma quello verso il suo partito diminuisce».
Sembrerebbe un’incomprensibile contraddizione, invece spiega con esattezza quello che sta avvenendo: tra i vari cambiamenti di Renzi c’è l’aumento del consenso al centro e a destra. La lite con l’Europa lo porta addirittura a ridosso dei movimenti antieuropei. Queste simpatie politiche vanno alla persona ma non certo al Pd che resta un avversario da battere.
Siamo dunque in presenza di un fenomeno di trasformismo che è tipico della politica in genere e di quella italiana in particolare.
Il trasformismo è storicamente il nucleo della nostra politica, lo fu fin dalla caduta della Destra storica nel 1876 e da allora ha sempre contraddistinto la nostra storia: Francesco Crispi, Giovanni Giolitti, perfino Mussolini e poi la Dc e poi Berlusconi.
Ora Renzi e con lui gran parte della classe politica che si sta orientando in suo favore abbandonando i partiti di provenienza. Il serpente della politica cambia pelle, i consensi verso Renzi provengono da destra; lo scopo è di cambiare pelle al Pd o meglio alla sigla del Pd che dovrebbe diventare la nuova etichetta del centrodestra italiano. Molti del Pd restano renziani anche se non capiscono ciò che sta avvenendo; altri lo capiscono e sono d’accordo. Per sentirsi in pace con la coscienza dicono che quella di Renzi è la sinistra moderna.
Ma la sinistra, la vera essenza della sinistra, qual è? Non voglio ripetermi, ma i valori principali della sinistra autentica e di tutti i tempi sono quelli dell’eguaglianza, della libertà e della dignità. Il resto è trasformismo, privilegi, clientele, malaffare. Oppure autoritarismo se non addirittura dittatura: uno comanda, gli altri obbediscono.
In un vecchio film interpretato da Alberto Sordi e intitolato Il marchese del Grillo Sordi recita un sonetto orecchiando il poeta romanesco che nei suoi versi principali suona così: «Io so io e voi nun sete un c… / sori vassalli buggeroni/ e zitto. / Io fo dritto lo storto e storto er dritto/ e la terra e la vita io ve l’affitto».
Mi pare che si attaglia perfettamente al trasformismo italiano quando diventa autoritario.
*** La riforma del Senato è finalmente passata in terza lettura. I senatori del Pd l’hanno votata in massa con il consenso anche della minoranza inizialmente dissenziente ma poi convinta dopo aver ottenuto un emendamento privo in effetti di qualunque significato. I voti contrari sono stati pochissimi, le opposizioni hanno disertato l’Aula.
È una buona riforma? Instaura il sistema monocamerale lasciando al nuovo Senato compiti territoriali. Naturalmente i poteri legislativi sono interamente della Camera, così come accade in quasi tutti i Paesi d’Europa. Ma — vedi caso — la nostra è di fatto una Camera di “nominati” dal governo, quindi i poteri legislativi sono di fatto nelle mani dell’esecutivo.
Questa situazione, alquanto paradossale, è stata anche rivendicata dal presidente emerito Giorgio Napolitano, il quale, pur rivendicando la paternità di quella riforma, ne ha però rimarcato il suo rapporto con la legge elettorale e i difetti di quest’ultima che andrebbero secondo lui emendati. Non dice come, ma l’avvertimento è stato da lui lanciato. Il tema è assai delicato ed è quindi opportuno citare due passi del discorso di Napolitano.
«Ci si avvia ormai a superare i vizi del bicameralismo paritario: le ripetitività e le non virtuose competizioni tra i due rami del Parlamento, la sempre più grave assenza di linearità e di certezze del procedimento legislativo anche in materie importanti ed urgenti. Ci si avvia a poter garantire — almeno nei suoi aspetti essenziali — quella stabilità e continuità nell’azione di governo che non può più mancare con grave danno per il Paese in un futuro come quello che è già cominciato. Non stiamo semplicemente chiudendo i conti con i tentativi frustrati e con le inconcludenze di trent’anni: dobbiamo dare risposte a situazioni nuove e ad esigenze stringenti, riformare arricchendola la nostra democrazia parlamentare. E bisognerà dare attenzione a tutte le preoccupazioni espresse in queste settimane in materia di legislazione elettorale e di equilibri costituzionali. L’intento complessivo dev’essere quello di promuovere un risanamento e rilancio del sistema delle autonomie, seriamente vulnerate da crisi e cadute di prestigio di istituzioni regionali e locali».
Napolitano non dice quali sono le parti da emendare della legge elettorale ma pone in rapporto, come è giusto, fare la riforma del Senato con l’Italicum elettorale. Molti forse reclamano di annettere al premio di maggioranza non una sola lista ma anche eventuali coalizioni. Probabilmente sarebbe un emendamento opportuno ma il cuore di una indispensabile riforma dell’Italicum è di impedire che sia una legge di “nominati”. Questo è il punto di fondo.
Il senatore a vita Napolitano non è stato tuttavia il solo ad intervenire; nel dibattito in questione è intervenuta anche la senatrice a vita Elena Cattaneo, da lui stesso nominata un paio di anni fa. Citiamo anche questa poiché, a differenza dal suo “nominatore”, lei ha votato contro.
«In questa riforma, cari colleghi, i vostri commenti, le vostre dichiarazioni private e pubbliche, sono state la mia bussola. Alla domanda sul perché avremmo dovuto votarla, la maggior parte di voi ha addotto ragioni per gran parte estranee all’assetto costituzionale da realizzare e basate piuttosto sull’opportunità e la contingenza politica che stiamo vivendo. Forse perché poco avvezza agli equilibrismi politici, nell’ascoltarvi e vedere alcuni comportamenti posso affermare con sicurezza che questo testo mi è estraneo. Oggi la mia decisione è di astenermi, un’astensione che so essere voto contrario in questa Aula, dettata da un senso profondo di smarrimento e dal rammarico per l’occasione perduta di acquisire elementi migliorativi, più volte ribaditi in quest’Aula per dotare il Paese di un assetto istituzionale in grado di fronteggiare le sfide del presente e del futuro».
Meglio di così non si poteva dire e fare, la senatrice a vita dimostra che non poteva scegliere meglio anche se ha votato in modo opposto e con motivazioni opposte a quelle del suo “nominatore”.
*** Che cosa avverrà ora dell’attuale sede del Senato? Per adempiere ai suoi compiti legislativi connessi al territorio al nuovo Senato composto da cento membri (eletti dalle istituzioni più infiltrate dal malaffare e perfino in alcuni casi dalle mafie vere e proprie) basterebbe mezzo piano di Palazzo Madama o meglio ancora un piano del prospiciente Palazzo Giustiniani.
Di Palazzo Madama, come suggerisce il nostro fantasioso Filippo Ceccarelli, si potrebbe fare un Museo delle arti. Alcune preziosità ci sono già, insieme ai busti dei più rilevanti uomini politici della vita italiana e del Senato in particolare. Ma questa collezione si potrebbe ulteriormente arricchire, come pure la biblioteca, le pareti con arazzi di importanza artistica e storica.
A meno che il Senato non sia interamente nominato con una decisione congiunta tra il presidente della Repubblica, il presidente della Corte Costituzionale e il presidente della Corte di Cassazione, e sia — il Senato — privato del potere di dare la fiducia al governo ma conservando tutti gli altri poteri legislativi e soprattutto di controllo. Così era il Senato del Regno che vide nei suoi ranghi i nomi più illustri della cultura, della scienza e della politica quando i suoi esponenti erano entrati nella loro tarda età.
Ma non credo si arriverà mai a questo. Si tratterebbe di fare dello storto il dritto mentre stiamo vivendo un tempo in cui si preferisce fare dritto lo storto.
Corriere 18.10.15
Lauree più facili. E L’Impero Cepu si sgretola
di Aldo Grasso
L’ epopea del Cepu, la mistica del Cepu, l’accademia del Cepu! Tutto finito: addio laurea facile, addio didattica cepuizzata. Il più noto istituto di preparazione agli esami universitari ha chiesto il fallimento, mentre la Procura di Roma valuta la bancarotta per distrazione. Così la creatura fondata da Francesco Polidori viene bocciata in economia e soprattutto in commercio.
«Con noi ce la puoi fare» era lo slogan magico che ha permesso al Cepu di primeggiare nella nebulosa galassia degli istituti privati che «accompagnano» alla laurea. I testimonial si chiamavano Antonio Di Pietro, Enrico Papi, Alex Del Piero, Valentino Rossi, Bobo Vieri... Il sottotesto era molto chiaro: se Bobo riesce a prendere una laurea ce la puoi fare anche tu.
Il segreto di questo impero del «pezzo di carta», fondato da Polidori, un albergatore aretino molto amico di Berlusconi, era la figura del tutor . Di solito un giovane laureato che allenava lo studente a superare l’esame. Senza frequentare lezioni, né studi matti e disperatissimi. Il tutor aveva il compito di suggerire le scorciatoie per prendere almeno un 18. Grande successo.
A quel punto, Mr. Cepu trova più conveniente fondare una sua università, la eCampus , con lo stesso valore legale delle altre. Ma arriva lo schianto di Cepu, sotto il peso di un grave passivo. Forse il dramma vero è che le troppe sedi universitarie sotto casa sono parse più abbordabili ed economiche del Cepu.
Corriere 18.10.15
Alleanze e contropartite
Il patto su Kabul con Obama per scacciare i fantasmi libici
Patto sull’Afghanistan pensando alla Libia
Matteo Renzi vuole rispondere positivamente alla richiesta di Barack Obama di rinviare il ritiro delle truppe da Kabul
È quindi giusto chiedere maggiore impegno e solidarietà agli Stati Uniti per evitare che l’Isis rafforzi i suoi avamposti a poche miglia dalle coste della Sicilia
di Massimo Gaggi
Un fantasma, quello dell’Iraq, ha spinto Barack Obama (nella foto) a rinunciare a una promessa ripetuta ossessivamente per anni, quella di chiudere anche la guerra in Afghanistan prima di lasciare la Casa Bianca: migliaia di soldati Usa resteranno a Kabul e in altre basi del tormentato Paese dell’Asia centrale anche oltre il 2016. Washington chiede agli alleati Nato di partecipare a questo sforzo prolungando anch’essi le missioni e il premier Matteo Renzi si dice orientato a rispondere positivamente a questa sollecitazione. Una decisione giusta: la solidarietà tra alleati si vede soprattutto nei momenti difficili e questo è sicuramente un momento difficile per gli Usa e per Obama, alle prese con un quadro di enorme complessità, ma anche con le conseguenze di alcuni errori strategici.
D el resto il problema che si cerca di arginare prolungando la presenza in Afghanistan — evitare il trionfo dei talebani e la diffusione dell’Isis — rappresenta una minaccia per tutti: per l’Europa anche più che per gli Usa, più protetti dal terrorismo dal loro isolamento geografico e dalla selezione assai più severa degli ingressi nel Paese.
Ma anche noi abbiamo i nostri fantasmi, il più grosso dei quali si chiama Libia. L’intervento militare che ha eliminato Gheddafi, ma ha anche fatto precipitare il Paese nell’instabilità, non l’ha certo innescato l’Italia (e nemmeno Obama, trascinato nel conflitto da un lato da Parigi e Londra, dall’altro dal «triumvirato umanitario» Hillary Clinton-Susan Rice-Samantha Power). L’infelice sperimentazione della strategia Usa del cosiddetto leading from behind (condurre le operazioni dalle retrovie) ha prodotto (un’altra volta) uno spaventoso vuoto nella gestione del dopo Gheddafi, come ha onestamente riconosciuto nei giorni scorsi lo stesso presidente americano.
Ora il traballante accordo negoziato dal mediatore Onu Bernardino León per evitare che la Libia diventi un’altra Siria è avvolto in mille incognite. Se terrà, si porrà il problema di attuarlo mandando una forza di peacekeeping (mantenimento della pace) e adottando misure efficaci per contrastare la diffusione dell’Isis sulle sponde del Mediterraneo, reprimendo, al tempo stesso, il traffico di esseri umani organizzato dagli scafisti.
È qui che il fantasma italiano — il rischio di una deflagrazione come quella siriana di fronte alle coste della Sicilia — si incrocia con quelli di Obama: giusto fare la nostra parte e dare solidarietà all’alleato americano. Ma giusto anche chiedere più impegno e solidarietà (Usa e di altre capitali europee) sul fronte libico. Meglio muoversi in modo non affrettato, tenendo conto dell’equilibrio delle forze disponibili.
Dall’Afghanistan se ne sono già andati da tempo i francesi. Sono andati via anche gli inglesi e ora stanno completando il ritiro gli spagnoli. Con gli americani, insieme a noi, resteranno i tedeschi e i turchi che per motivi diversi hanno interessi specifici nell’area. Noi ne abbiamo meno, ma il lavoro fatto a Herat è stato molto apprezzato e può continuare, anche se ora si tratta di ridefinire un programma di addestramento già nella sua fase finale. E di rimpolpare il contingente di 750 uomini con altri 150 effettivi per compensare la partenza dei soldati di altri contingenti. Qui le domande sono due: il nostro sforzo viene adeguatamente valutato dai nostri alleati sul piano politico? Siamo in prima linea con la Nato ma anche con l’Onu, come ha riconosciuto l’altro giorno nell’intervista al Corriere il suo segretario generale Ban Ki-moon: primo Paese occidentale nel contributo alle forze di peacekeeping . Lo saremo, a maggior ragione, nella partita per noi cruciale della Libia?
L’altro quesito riguarda le risorse, umane e finanziarie: contribuiamo già alla ricostruzione delle forze militari irachene con 120 milioni di dollari l’anno. Il prolungamento della missione imporrà un costo annuo aggiuntivo stimato in circa 150 milioni. Quanto agli uomini, ne abbiamo mille in Libano, 570 (destinati a crescere) in Iraq, 600 in Kosovo mentre il contingente afghano è probabilmente destinato a salire a 900 unità. Avremo le risorse per sostenere anche uno sforzo in Libia, considerate le ristrettezze di bilancio e l’assottigliamento dei reparti operativi capaci di svolgere con efficacia missioni internazionali?
Repubblica 18.10.15
Abraham Yehoshua
Lo scrittore israeliano: “I gesti criminali arrecano danni a entrambe le comunità. L’Ue può avere un ruolo decisivo per portare le parti attorno a un tavolo”
“L’Europa deve agire o nessuno troverà più la strada per la pace”
intervista di Guido Andruetto
«È necessario agire, servono iniziative concrete. Dobbiamo fermare questa nuova escalation di violenza». Si scalda lo scrittore Abraham B. Yehoshua, al telefono dalla sua casa a Tel Aviv, commentando la nuova escalation del conflitto israelo-palestinese.
Signor Yehoshua, questi atti violenti quali reazioni potrebbero innescare nel popolo israeliano e in quello palestinese?
«Se non si ferma la violenza, la strada della pace diventerà sempre meno percorribile per entrambe le parti. Vediamo in azione individui isolati che sono degli assassini, i cui gesti criminali hanno ripercussioni anche sulle due comunità chiamate in causa. È uno scenario molto triste e pericoloso: questi giovani palestinesi armati di coltello che cercano di uccidere gli ebrei israeliani di fatto si suicidano perché vengono uccisi subito dopo. Si deve fare tutto il possibile per fermarli. Se questa situazione perdura il livello dello scontro aumenterà».
Anche al Monte del Tempio, luogo sacro sia per l’Islam che per l’ebraismo, la tensione resta altissima. Quali soluzioni intravede per quest’altra criticità?
«Guardi, la questione è spinosa ma anche molto chiara. Io penso che si debba ripristinare lo status quo e dunque vietare agli ebrei di pregare al Monte del Tempio. Venga dunque permesso di visitarlo ma non di pregare. È necessario fermare subito questa provocazione della preghiera. Anche il nostro primo ministro lo sta dicendo, ma il punto non è quello che lui dice, ma quello che fa realmente per vietare agli ebrei di pregare al Monte del Tempio. Il governo di Israele deve mostrare con molta chiarezza questa presa di posizione e agire tempestivamente. E poi bisognerebbe porre anche fine alle visite sul posto di ministri e parlamentari israeliani».
Secondo lei chi sono i veri responsabili del conflitto che nelle ultime settimane è riesploso fra israeliani e arabo-palestinesi?
«Da una parte certamente gli insediamenti israeliani hanno aggravato la situazione, ma quando il premier Netanyahu, rivolgendosi al presidente dell’Autorità nazionale palestinese, ha dichiarato davanti alle telecamere che era disponibile a recarsi a Ramallah per parlare e negoziare senza nessuna precondizione, Abu Mazen non ha risposto e questo secondo il mio punto di vista è stato un grandissimo errore. Netanyahu invece ha sbagliato a proseguire la strada di espansione degli insediamenti, perché se non ci fossero stati sarebbe risultato molto più semplice giungere ad un accordo, lavorare alla demilitarizzazione della Palestina e creare un loro stato».
Che colpe ha Hamas?
«Non ha saputo costruire una situazione di pace dopo l’evacuazione di Gaza e degli 8mila ebrei e delle forze militari: invece di fare diventare Gaza un modello della futura Palestina, ha iniziato con questo terribile lancio di mis- sili. Così, anziché convincere l’opinione pubblica israeliana che l’evacuazione dai Territori avrebbe portato la pace, ha fatto irrigidire gli israeliani che hanno percepito l’abbandono dei territori come ulteriore causa di guerra e conflitto».
Adesso siamo di fronte ad una nuova Intifada?
«Non penso. Gli arabi palestinesi sanno che la seconda Intifada per loro è stata un disastro e non li ha portati da nessuna parte. I palestinesi non la vogliono, esattamente come gli ebrei».
Il primo passo verso la pace è avviare il negoziato?
«Bisogna portare le due parti in pochi mesi a un incontro di negoziazione. L’influenza dell’Europa in questo senso è fondamentale: gli Stati Uniti in questo momento sono in campagna elettorale e non possono fare nulla, mentre l’Europa può esercitare un ruolo decisivo per raggiungere un accordo tra Israele e Palestina».
Repubblica 18.10.15
L’amaca
di Michele Serra
HO cercato di capire qualcosa di più sulla Tomba di Giuseppe, uno dei tanti edifici e siti oggetto dell’inesausta lite tra israeliani e palestinesi, tra ebrei e musulmani. Ho scoperto che al pari di infinite vestigia e reliquie dei tre monoteismi, il valore simbolico è certo, quello storico molto incerto: non si sa nemmeno se la tomba di Giuseppe sia davvero la tomba di Giuseppe; né se Giuseppe sia un personaggio storico o della suggestiva fiction biblica, i cui sceneggiatori non sono più tra noi da circa tremila anni.
Il rispetto che si deve ai simboli (tutti) non può impedire agli uomini di buona volontà di riflettere sul peso micidiale che le tradizioni religiose ancora infliggono ai figli dei figli dei figli; sul prezzo di sangue che ancora esigono. Si ha un bel dire che sono sempre l’economia e la politica a regolare la guerra e la pace, e che il conflitto religioso è solo un pretesto. Come pretesto funziona perfettamente, perpetua gli odii, separa i destini, aizza i fanatici, arma i disgustosi fondamentalismi. Sarà una considerazione banalmente meccanicistica, ma se un’epidemia di laicità, se non di miscredenza, dilagasse in Terra Santa, probabilmente morirebbero meno persone, in Terra Santa.
Repubblica 18.10.15
La spianata dell’odio
E’ su questa collina di Gerusalemme che è nata la “Terza intifada”
Perché è qui che si sono accumulati leggende e conflitti delle tre religioni
di Siegmund Ginzberg
SI DICE CHE LA BELLEZZA DEL LUOGO sia tale da sconvolgere le menti. E in effetti centinaia di persone vengono ricoverate ogni anno con quella che viene definita “Sindrome di Gerusalemme”, uno stato di delirio da fervore religioso, scatenato dalla vicinanza di siti troppo carichi di santità e storia. Sigmund Freud sapeva quanto fossero pericolose quelle pietre. Scrisse negli anni Venti ad Einstein di non provare “alcuna simpatia per una religiosità aberrante che fa di un pezzo del muro di Erode una religione nazionale, e per amore della quale si offendono i sentimenti della popolazione locale”. E poi all’amico Arnold Zweig, di ritorno da un viaggio in Palestina: “Ti sarà sembrata ben strana questa terra di tragica pazzia, che non ha mai prodotto altro che religioni, sacre frenesie e presuntuosi tentativi di imporre al mondo le proprie pie illusioni”. Amos Oz è anche più perentorio. Ha proposto: “Dovremmo rimuovere pietra per pietra e trasferirle in Scandinavia per cento anni, e non riportarle finché tutti abbiano imparato a vivere insieme in Gerusalemme”. Ma non è detto che basti un secolo.
Il fascino della Spianata viene dal modo in cui nei millenni si sono sovrapposti infiniti strati di pietre e passioni, si è ricostruito sulle rovine e poi distrutto di nuovo, si sono accumulati storie e leggende di tutte e tre le religioni monoteiste. Ma anche strati su strati di risentimento e di odio. Dovrebbe essere un sito caro a Dio e agli uomini. Poteva essere il luogo di un modello di convivenza tra chi crede che qui fosse l’altare su cui Abramo stava per sacrificare Isacco, che qui sorgesse il Tempio di Salomone, qui pianse Gesù profetizzando che non sarebbe rimasto “pietra su pietra” e qui fu chiamato in cielo Maometto. E invece è la pietra di tutte le discordie.
Non sono d’accordo nemmeno sul nome. “Monte del Tempio”, Har Ha-Báyit
è come lo chiamano gli ebrei,
Al-aram al-Šarf (“Nobile santuario”) i musulmani. Si ritiene che la piattaforma sorga sul luogo dove si trovava tre millenni fa il Tempio distrutto da Nabucodonosor nel 586 a.C., e poi fu ricostruito il Secondo Tempio al ritorno dall’esilio babilonese, reso splendido da Erode e infine bruciato e raso al suolo dalle legioni di Tito nel 70 d.C. Si sarebbe dovuto attendere la conquista islamica da parte del Califfo Omar nel 638 perché si superasse la dissacrazione del luogo. Fu il vincitore di una delle prime guerre fratricide in seno all’islam, il Califfo di Damasco Abd-el-Malik, a far completare nel 691 la splendida Cupola della Roccia che domina la Spianata con la sua elegante mole dorata, e suo figlio Walid a costruirvi pochi anni dopo la Moschea di Al-aqsa.
Ma guai a chi pensi di scavare e studiare gli immensi labirinti sottostanti: gli archeologi non sono graditi, si prestano al sospetto di voler sostenere questa o quella parte della leggenda. È già tanto che non rischino il linciaggio a furor di popolo come successe agli inizi del Novecento all’avventuriero britannico Montagu Parker. Era corsa voce che, calandosi da un buco nel pavimento, avesse trovato e trafugato niente meno che la corona di Salomone, l’Arca dell’Alleanza e la spada di Maometto. Quella fu una delle poche volte che la rivolta vide fianco a fianco ebrei e musulmani.
Ci sono intere biblioteche sulle plurisecolari vicende di follia, massacri, stupidità, ma anche di tolleranza e magnanimità attorno a quelle pietre. Ma non sono sicuro che abbiano appeal tra i più giovani contendenti di oggi.
Sono passati quasi cinquant’anni da quando nel giugno 1967, durante la guerra dei Sei giorni, i paracadutisti di Moshè Dayan e Isaak Rabin avevano raggiunto, dopo una schermaglia con le truppe giordane, la Spianata delle Moschee. L’obiettivo era il Muro del pianto, il Kotel , ai piedi della parete a strapiombo sul lato meridionale della spianata. Ma non sapevano come arrivarci. Fu un vecchio arabo a indicargli la strada. Il rabbino Shlomo Goren, cappellano capo dell’esercito israeliano, avrebbe voluto far saltare le moschee. I comandanti militari lo zittirono, dicendogli che era pazzo da legare. Dayan vide che avevano issato una bandiera israeliana sulla grande Cupola dorata. Ordinò che venisse immediatamente tolta.
Altri non ebbero altrettanta delicatezza. Nel settembre del 2000 Ariel Sharon, allora leader del Likud all’opposizione, decise di fare una “passeggiata” sulla Spianata, protetto da falangi di poliziotti. Sostenne che si trattava di un “messaggio di pace”. Scatenò invece la cosiddetta Seconda intifada. Non ci furono solo le sassaiole: sarebbe seguito un decennio di sanguinosi attentati suicidi. Da allora la catena di provocazioni e sospetti incrociati, con le conseguenti esplosioni di violenza, non si sarebbe mai davvero arrestata. Non passa anno che non si ricominci da capo. Non occorre nemmeno che le provocazioni siano intenzionali, succeda qualcosa di grave, volino sassi o molotov, scorra sangue. Stavolta ad accendere la miccia della “Terza intifada” sarebbe stata la voce, pare del tutto infondata, che le autorità israeliane si apprestavano a consentire la preghiera nelle moschee anche ai non islamici.
Il magnifico labirinto di pietre della Spianata poggia su una città forse più divisa di quanto lo sia mai stata. Non è più solo questione di separazione tra Gerusalemme ebraica ed araba, della tradizionale divisione tra i quartieri ebraico, musulmano, cristiano e armeno nella Città vecchia. Ci sono una città ebrea-sionista che si sta sfoltendo e una città ebrea-ultra ortodossa che sta prevalendo, una città arabo-palestinese e una città arabo-estremista. Che si guardano in cagnesco, anzi non si guardano nemmeno più quando si incrociano per le strade. Sono mondi ancora più schizofrenici di quelli del passato. La spaccatura anzi non è più nemmeno tra le diverse fedi, è all’interno di ciascuna fede. È diventata una spaccatura tra generazioni: il guaio è che i più giovani sembrano avere perso la cognizione di quello per cui si battevano i loro padri. La demografia è ancora più spietata della storia. Non ha funzionato che per un paio di giorni la proibizione l’anno scorso dell’accesso alla Spianata ai minori di cinquant’anni. Non si vede come possa durare a lungo la scelta di ostacolare ora ogni accesso. Non ci sono nemmeno più molte nuove idee di soluzione.
L’internazionalizzazione di Gerusalemme proposta dall’Onu nel 1949 appare antidiluviana. Così come la proposta di Bill Clinton di una divisione verticale del Monte, con controllo palestinese sulla spianata superiore e israeliano sulla parte inferiore. Salomone se l’era cavata proponendo di tagliare in due con la spada il bambino conteso dalle madri. Qui si rischia che piuttosto l’ammazzino loro.
il manifesto 17.10.15
Gerusalemme, pagano le famiglie degli attentatori
Case circondate e minacciate di demolizione, arresti, intimidazioni
Cresce la pressione delle autorità israeliane sui familiari dei palestinesi responsabili di attacchi
Non va meglio in Cisgiordania. Ieri altri cinque tentati accoltellamenti di coloni e soldati, di cui quattro a Hebron. Quattro palestinesi uccisi
di Michele Giorgio
GERUSALEMME Reparti della polizia israeliana ieri sono entrati con decine di uomini a Jabel Mukaber. Hanno circondato una casa e bloccato le strade circostanti, con la copertura di tiratori scelti. Quindi hanno prelevato la madre, il padre e i fratelli di Muataz Oweisat per interrogarli. L’intera famiglia si è ritrovata sotto accusa per l’azione compiuta dal figlio 16enne. Muataz, stando al resoconto ufficiale, è stato ucciso quando ieri mattina ad Armon HaNetsiv — una colonia costruita nella zona occupata di Gerusalemme, un “quartiere” secondo la definizione israeliana — ha estratto un coltello dalla tasca e tentato di colpire un agente durante un controllo della polizia. La Oweisat è una delle famiglie allargate di Jabel Mukaber maggiormente prese di mira dalle autorità. La partecipazione di suoi membri ad alcuni degli attacchi che dal 1 ottobre hanno ucciso cinque israeliani a Gerusalemme, ha trasformato in potenziali terroristi tutti gli Oweisat, di ogni età, uomini e donne. Da un giorno all’altro possono ritrovarsi senza un tetto sulla testa. Tre giorni fa a Jabel Mukaber, in linea con le misure decise dal gabinetto di sicurezza israeliano, sono state consegnate a quattro famiglie palestinesi ordini di evacuazione immediata dalle loro abitazioni che saranno demolite al più presto. Famiglie che potrebbero perdere anche il diritto a risiedere a Gerusalemme, vedersi confiscati tutti i beni e anche il diritto a seppellire i loro congiunti responsabili di attacchi (i corpi saranno inumati in luoghi segreti dalla polizia israeliana). E girano indiscrezioni che, dovessero continuare gli accoltellamenti, le famiglie dei responsabili di questi atti rischierebbero di essere deportate a Gaza. Sono punizioni collettive criticate dai centri per i diritti umani ma che le autorità giustificano con l’urgenza di fermare a tutti i costi quella che in Israele chiamano “Intifada dei Coltelli” e i palestinesi “Intifada di Gerusalemme”.
Ulteriori provvedimenti potrebbero essere adottati in Cisgiordania, dove la legge militare già non prevede le tutele sulle quali, almeno fino a qualche giorno fa, potevano contare le famiglie palestinesi di Gerusalemme. Ieri altri due adolescenti sono stati uccisi dopo aver aggredito un colono e una agente di polizia. Entrambi gli attacchi sono avvenuti nel settore H2 di Hebron sotto il controllo delle forze armate israeliane. Il 18enne Fadil Qawasmeh ha provato a colpire un colono accanto a Beit Hadassah, un edificio in Via Shuhada dove vivono diverse famiglie di coloni ebrei, ma è stato fermato e ucciso. Via Shuhada è nota. A poche decine di metri dalla casbah, un tempo era il cuore pulsante del commercio di Hebron. Dal 2000 in poi per “ragioni di sicurezza” è stata progressivamente chiusa ai palestinesi, su insistenza (o imposizione) dei coloni, e oggi è una strada priva di vita: regna il silenzio, i negozi sono tutti chiusi, gli ingressi di alcuni edifici sono stati sigillati, i palestinesi devono seguire percorsi interni in modo da non transitare davanti a Beit Hadassah e altri edifici dei coloni. Qualche ora dopo, sempre nella zona H2, la 17enne Bayan al-Esseili conn un coltello ha ferito a una mano una agente di polizia a breve distanza dalla Tomba dei Patriarchi ed è stata uccisa. In serata si è saputo di un altro accoltellamento di un soldato, ancora ad Hebron. L’attentatore Tareq Natche è morto all’arrivo all’ospedale di Gerusalemme. I coloni, riferiva ieri il giornale online Times of Israel, hanno bloccato e forato una ruota dell’ambulanza incaricata di trasportare il palestinese. Un tentato pugnalamento sarebbe avvenuto in serata anche al posto di blocco israeliano di Qalandiya, tra Gerusalemme e Ramallah.
L’esercito si appresterebbe a ordinare la demolizione immediata delle case di questi palestinesi. Tuttavia questa misura non è più di facile attuazione in Cisgiordania. A Nablus, ad esempio, decine di attivisti palestinesi e internazionali, occupano le case di attentatori minacciate di distruzione e, per il momento, tengono lontane le ruspe militari. Lo stesso è accaduto a Surda, il villaggio nei pressi di Ramallah dove c’è l’abitazione del palestinese responsabile due settimane fa dell’uccisione di due israeliani nella città vecchia di Gerusalemme.
La macchina punitiva comunque non è ferma. Mufid Sharbati, un testimone oculare dell’aggressione tentata ieri dal palestinese davanti Beit Hadassah, è stato arrestato dai soldati che hanno fatto irruzione nella sua abitazione e sequestrato un computer portatile, una videocamera e una macchina fotografica. E’ stato arrestato anche Ahmed Amr, responsabile per i rapporti con la stampa del gruppo “Giovani contro le colonie”, alcune ore che aveva pubblicato in rete il filmato dell’uccisione di Fadil Qawasmeh. Venerdì, sempre a Hebron, era stato arrestato un fotoreporter, Bilal Tawil, che aveva ripreso l’uccisione di un palestinese del vicino villaggio di Dura, Eyad Awawdeh, che fingendosi giornalista aveva tentato di accoltellare un soldato nei pressi della colonia di Kiryat Arba. Sono stati fermati e interrogati anche altri reporter. I palestinesi riferiscono di decine di arresti avvenuti in diverse località della Cisgiordania e in alcuni quartieri e sobborghi di Gerusalemme Est, a cominciare da Jabel Mukaber, circondati e bloccati dalle forze di sicurezza. Attende una conferma la notizia dell’arresto due giorni fa in Cisgiordania di 19 attivisti e simpatizzanti di Hamas da parte della polizia dell’Autorità nazionale palestinese.
Corriere 17.10.15
Candidata a sindaco accoltellata a Colonia «Gesto xenofobo»
La vittima gestisce l’accoglienza ai migranti
Se non è un pazzo, allora è un fantasma del passato. Uno di quelli che, all’ombra di una svastica, già 80 anni fa davano la caccia a tutti gli «auslander», gli stranieri di etnia non germanica. L’uomo che ieri ha pugnalato alla gola e alla trachea la candidata favorita a sindaco di Colonia Henriette Reker, 58 anni, ora ricoverata in serie condizioni all’ospedale, non ha ancora un nome ufficiale, anche se è già in cella, arrestato subito dopo il suo gesto. Ma il ministro dell’Interno della Renania Settentrionale e Westfalia, Rolf Jager, parla apertamente di un possibile attacco ideologico, con una matrice di estrema destra, per i vari elementi già raccolti: la vittima dell’attacco è responsabile di un centro di accoglienza per gli immigrati, ed è stato lo stesso accoltellatore, un disoccupato incensurato di 44 anni, a dire di aver agito per motivi di xenofobia. Secondo una fonte televisiva, sarebbe ora sotto esame psichiatrico. Se risulterà sano di mente, la sua sarà un’ombra in più sulla sfida dell’immigrazione che sembra coinvolgere e dividere sempre di più l’opinione pubblica tedesca, resuscitare antiche paure e antichi odi, mettere alla prova la stessa maggioranza della grande coalizione che si stringe intorno ad Angela Merkel.
Ieri mattina, tutto si è svolto in pochi minuti. Verso le 9, l’aggressore si è avvicinato a un gruppo di persone che sostavano davanti a un chiosco elettorale dei cristiano-democratici installato in un mercato cittadino. Fra i presenti, c’era appunto anche Henriette Reker, ufficialmente candidata indipendente. Mancavano poche ore alle elezioni municipali che si terranno oggi e che sono state confermate nonostante il sanguinoso episodio. Lo sconosciuto si è intrufolato fra le altre persone e poi si è diretto subito verso la candidata, estraendo un pugnale seghettato dalla lama di 30 centimetri e un altro coltello.
Dopo aver colpito l’esponente politica, ha accoltellato altre quattro persone che cercavano di bloccarlo; una di esse sarebbe in pericolo di vita. Appena ammanettato dai poliziotti accorsi, l’uomo ha pronunciato poche frasi confuse: «Tutto quello che succede qui è un errore. La liberazione di questo tipo di persone... Dovevo farlo, proteggo tutti…». Secondo il capo della polizia, l’accoltellatore avrebbe fatto tutto da solo: «Voleva colpire proprio Reker e l’ha fatto perché ce l’ha con gli stranieri».
Henriette Reker, pur come indipendente, calamita un vasto fronte di opinione favorevole all’integrazione dei migranti extra comunitari, ed è stata favorita finora nella sua corsa elettorale dall’Unione Cristiano-Democratica (Cdu), dai Verdi e dal Partito Liberale (Fdp).
La cancelliera Angela Merkel si è dichiarata «sconvolta» per quanto accaduto, e così il governatore socialdemocratico della Renania, Hannelore Kraft, che ha commentato su Twitter: «Questo è un attacco a tutti noi». Il sindaco uscente di Colonia, Juergen Roters, si è detto «profondamente scioccato» per l’attacco. E il socialdemocratico Jochen Ott, principale rivale di Reker alle elezioni, ha sospeso la sua campagna elettorale. Ma adesso è la Germania intera a preoccuparsi, in un senso o nell’altro, mentre attende che arrivino tutti gli 800 mila profughi previsti per quest’anno. Secondo dati ufficiali citati dalla Bbc, nel Paese vi sono stati quasi 550 attacchi contro centri e case per stranieri, nel 2015: tre volte di più che nel 2014.
Corriere 17.10.15
Tra dissenso interno e sfide dai vicini, Merkel in tensione
di Luigi Ippolito
L’attacco di Colonia mostra che il clima politico in Germania sta raggiungendo rapidamente il punto di saturazione. Mai come ora la cancelliera Angela Merkel si era trovata sotto pressione: dentro e fuori il suo Paese. All’interno, politici e opinione pubblica temono che la buona volontà nell’accogliere i profughi possa infrangersi sotto lo sforzo di ospitare, nutrire e sostenere entro l’anno almeno un milione di nuovi arrivati. Mentre in Europa la decisione di Berlino di aprire le porte ai rifugiati ha trovato pochi sostenitori. A livello nazionale, la linea Merkel incontra le maggiori resistenze nel suo stesso campo conservatore, in primo luogo nella Csu bavarese e nel suo leader Horst Seehofer. Numerosi politici locali hanno firmato una lettera aperta alla cancelliera per chiedere «misure urgenti tese a ridurre l’afflusso di rifugiati». E questa settimana un cartello innalzato a un raduno di partito vicino Lipsia invocava: «Detronizzate Merkel». Non siamo ancora a tanto, ma i sondaggi mostrano un calo di popolarità: solo il 46 per cento ritiene che stia facendo un buon lavoro, mentre il 48 pensa il contrario. Nel frattempo, si moltiplicano gli attacchi contro i centri di accoglienza: 550 quest’anno, con ben 72 incendi. E domani a Dresda si fronteggeranno in piazza i gruppi pro e anti immigrazione. All’estero, la decisione del premier ungherese Viktor Orban di chiudere la frontiera con la Croazia ha sottolineato la distanza fra il governo tedesco e i Paesi dell’Europa centro-orientale: e venerdì mattina la cancelliera è emersa visibilmente provata dall’ennesimo, inconclusivo vertice europeo. Oggi Merkel sarà in Turchia per convincere Erdogan a fare la sua parte. Per la Germania tutta, è la sfida più significativa del passato recente.
Repubblica 18.10.15
Angela e i demoni
LA prima neve è caduta sui campi profughi tedeschi: ormai è una drammatica corsa contro il tempo, prima dell’arrivo dell’inverno.
di Angelo Bolaffi
BISOGNA dare sistemazione alle centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini che hanno scelto di cercare un futuro in Germania. Nella sola Baviera negli ultimi quattro giorni ne sono arrivati più di 8000. Oltre 300mila dall’inizio di settembre. Dopo i giorni dell’accoglienza nelle stazioni delle città tedesche oggi sono quelli del timore, della preoccupazione e in qualche caso anche dell’aperta ripulsa, come successo ieri a Colonia, dove, secondo le prime ricostruzioni, un 44enne tedesco disoccupato ha accoltellato la candidata sindaco Henriette Reker per le sue posizioni a favore dell’accoglienza dei migranti. L’iniziale, entusiastico consenso che aveva sostenuto la scelta di “aprire le frontiere” è sensibilmente calato. A chiedere a gran voce una svolta restrittiva nei confronti dell’afflusso degli stranieri non sono solo gli xenofobi di professione e quanti, come certi manifestanti di Dresda alcuni giorni orsono, pensano di dare risposta a una sfida di dimensioni storiche facendo appello all’odio o innalzando l’immagine di un patibolo, ma l’intera opinione moderata guidata dalla Csu, il partito cristiano sociale bavarese, e dalla stessa Cdu. Perfino nella Spd si è fatta strada la convinzione che sia inevitabile indicare un limite massimo giacché «non possiamo ogni anno accogliere e integrare un milione di profughi». E lo stesso presidente della Repubblica Joachim Gauck si è pronunziato in tal senso, affermando «che la nostra capacità di accoglienza è limitata».
Ma Angela Merkel continua a pensarla diversamente: resta convinta che l’unica strategia possibile almeno nel medio periodo visto che «innalzare recinti attorno alla Germania non servirà a nulla » sia l’ottimismo del “wir schaffen das”, del noi “ce la facciamo”, come disse lo scorso 31 agosto. Una scelta la sua non solo assolutamente spiazzante ma anche molto rischiosa: colei che era stata celebrata come la donna più potente d’Europa dopo Caterina II di Russia, la politica giudicata elettoralmente imbattibile, deve fare i conti con un fortissimo calo di consensi. E fronteggiare una vera e propria rivolta nel proprio partito. Neppure nelle ore più difficili della crisi greca, il dissenso nel gruppo parlamentare democristiano nei confronti della Cancelliera è stato tanto esplicito e aperto come nell’ultima riunione del gruppo prima del dibattito al Bundestag. Facendosi portavoce delle preoccupazioni e delle difficoltà delle autorità locali che ai problemi dei profughi materialmente debbono provvedere e ai diffusi timori di una “stranierizzazione” demografica e culturale del paese, la maggioranza dei deputati democristiani e la totalità di quelli bavaresi hanno chiesto alla Cancelliera di mandare un segnale forte e inequivocabile: indicare un tetto massimo all’arrivo dei profughi. E in tal modo di ristabilire la sovranità tedesca sui confini del paese. Il capogruppo cristiano-bavarese Horst Seehofer ha minacciato di ricorrere ad un voto di sfiducia. E un oscuro deputato ha interrotto la Cancelliera ricordandole che «il popolo può sempre scegliersi un altro governo».
Ma Angela Merkel, tra l’imbarazzato stupore dei media e dell’opinione pubblica tedeschi e l’incuriosita sorpresa delle cancellerie europee, non ha fatto un passo indietro né intende farlo. E a chi polemicamente gli ha rivolto il rimprovero «di aver fatto un errore col quale dovremo ancora a lungo fare i conti» ha risposto a brutto muso: «Devo sinceramente dire che se proprio adesso dobbiamo iniziare a chiedere scusa per aver mostrato un volto amichevole in una situazione d’emergenza, allora questo non è il mio paese». Insomma nel momento più difficile della sua carriera politica dinnanzi ad una crisi potenzialmente traumatica per la Germania, Angela Merkel ha deciso di correre il rischio di restare in minoranza pur di difendere le sue convinzioni. La donna che per dieci anni, è Cancelliera dal 2005, ha sempre e soltanto “ruminato politica” preferendo la via del passo dopo passo, attentissima a non perdere il contatto con l’opinione pubblica e il consenso, ha d’improvviso calzato gli stivali politici delle sette leghe. E, correndo un rischio enorme, ha accettato che “i profughi siano diventati il suo destino”. Sono in molti a interrogarsi sulle ragioni di una tale e radicale svolta politica. Perché si è chiesto Heinrich A. Winkler, il maggiore storico tedesco vivente, la Merkel sembra aver dimenticato che «ciò che conta in politica è tenere in considerazione le possibili conseguenze di quello che facciamo»? Secondo Winkler, questa consapevolezza sembra essere passata in secondo piano in Angela Merkel. Perché colei che fino a ieri era stata indicata come modello di “politico della responsabilità”, per usare la celebre distinzione fatta da Max Weber, consapevole che «la politica consiste in un lento e tenace superamento di dure difficoltà, da compiersi con passione e discernimento» si è trasformata in un «politico della convinzione » per il quale la politica è testimonianza dei propri ideali? La Merkel ha risposto di «aver parlato col cuore», aggiungendo per altro che pensare di poter chiudere ermeticamente le frontiere «nel secolo di internet è una mera illusione». Solo il futuro ci dirà se la scelta secondo coscienza di Angela Merkel si rivelerà un errore fatale o, invece, una decisione lungimirante come solo i “veri capi politici” sanno prendere. Se, dunque, la Cancelliera conoscerà lo stesso destino che condannò alla sconfitta politica il suo predecessore Gerhard Schröder che perse le elezioni nel 2005 per aver fatto le riforme che tutti, la Merkel per prima, hanno col senno di poi giudicate assolutamente giuste. O se, invece, sempre per dirla con Max Weber «è perfettamente esatto, e confermato da tutta l’esperienza storica, che il possibile non verrebbe raggiunto se nel mondo non si ritentasse sempre l’impossibile».
Il Sole 18.10.15
Oggi al voto. Udc al 27% trainata dal «no» ai migranti
In Svizzera la destra populista rischia di vincere le elezioni
di Lino Terlizzi
Destra populista avanti. Miglioramenti per il partito liberal-radicale e per i socialisti, che però subiscono la flessione degli alleati verdi. È quanto emerge dal quarto e ultimo barometro elettorale curato dall’istituto Gfs di Berna, per conto della radiotelevisione svizzera. Ultimo di questa tornata: le elezioni politiche nella Confederazione elvetica si tengono oggi.
Nel dettaglio, il barometro elettorale Gfs, che ha fotografato la situazione a fine settembre, prevede per l’Udc una conferma come primo partito con il 27,9% (26,6% nel 2011), seguita dal partito socialista con il 19,2% (18,7%), dai liberal-radicali con il 16,7% (15,1%), dai popolari democratici (democristiani) con l'11,5% (12,3%) e dai verdi con il 7,2% (8,4%). Vengono poi i verdi liberali con il 5% (5,4%) e i borghesi democratici (centrodestra) con il 4,6% (5,4%).
L’Unione democratica di centro (Udc), che a dispetto del nome rappresenta la destra populista ed antieuropeista, si conferma dunque in crescita nei sondaggi. Se le elezioni per il parlamento dovessero davvero vedere un’avanzata dell’Udc, ci potrebbero essere riflessi su due elementi maggiori dello scenario politico: gli equilibri del Governo (che in Svizzera è eletto dal parlamento ed è composto da sette ministri appartenenti ai partiti principali); i negoziati con l’Unione europea per la revisione degli accordi bilaterali, che hanno già registrato difficoltà dopo il referendum targato Udc che nel febbraio del 2014 ha stabilito uno stop alla libera circolazione con la Ue.
In pratica, l’Udc potrebbe rivendicare una maggiore presenza nel Governo e potrebbe in ogni caso far valere la sua avanzata anche nei rapporti con Bruxelles, frenandoli ulteriormente. È vero d’altro canto che il miglioramento dei liberal-radicali, formazione di centrodestra favorevole ai bilaterali con la Ue, e della sinistra socialista (che sostiene l’intesa con Bruxelles), potrebbe controbilanciare la crescita Udc. Tutto starà nelle proporzioni finali delle rispettive avanzate.
Il primo pacchetto di bilaterali con la Ue, entrato in vigore nel 2002, ha come capitoli la libera circolazione, i trasporti aerei, i trasporti terrestri, l’agricoltura, gli ostacoli tecnici al commercio, gli appalti pubblici, la ricerca. Il secondo pacchetto ha molti altri capitoli, i principali riguardano però l’adesione della Svizzera, dal 2008, alle intese di Schengen sui controlli comuni sulla libera circolazione e di Dublino sull’asilo. Bruxelles era favorevole ad un nuovo bilaterale quadro che ricomprendesse questi e altri capitoli, ma ora non intende trattare sul caposaldo della libera circolazione e minaccia di far decadere i pacchetti già in vigore se Berna reintrodurrà i contingenti per l’immigrazione dalla Ue (il referendum Udc prevede che ciò avvenga entro il febbraio del 2017). Per Berna, le possibilità sono quindi tre: lasciar cadere i bilaterali, con il danno economico e politico conseguente; fare un altro referendum su immigrazione e bilaterali, con le incognite del caso; trovare un compromesso, non facile, con Bruxelles sulla libera circolazione.
Il sondaggio Gfs delinea anche una tendenza per la composizione del Governo. Dei sette ministri attuali, due sono liberal-radicali, due socialisti, uno democristiano, uno Udc e uno borghese democratico. Quest’ultimo, la signora Eveline Widmer-Schlumpf (Finanze), è nel mirino dell’Udc. Già appartenente all’ala moderata dell’Udc, Widmer-Schlumpf è uscita dal partito della destra populista per creare insieme ad altri i borghesi democratici, dopo un duro scontro con il leader dell’Udc, Christoph Blocher. L’Udc rivendica un secondo ministero e la questione potrebbe riproporsi dopo il 18 ottobre. Chiamati a scegliere tra cinque diverse composizioni del Governo, i partecipanti al sondaggio hanno però sottolineato come scelta migliore lo statu quo (29% dei consensi). La conferma dell’attuale composizione piace soprattutto agli elettori socialisti, democristiani e ovviamente borghesi democratici. Da una parte i timori sull’immigrazione spingono in direzione dell’Udc, dall’altra però molti elettori non vorrebbero cambiare troppo. Conciliare le due tendenze non sarà facile. L’arte elvetica del compromesso potrebbe esser chiamata ad un nuovo, difficile esercizio.
La Stampa 18.10.15
Politica e cultura
L’opera di Bobbio compie 60 anni
di Marco Albeltaro
Sessant’anni non sono molti, ma i sessant’anni che ci dividono dal 1955, anno in cui uscì la prima edizione di Politica e cultura (Einaudi), forse il libro più noto di Norberto Bobbio, sembrano un’eternità. Siamo nel cuore della guerra fredda e Bobbio decide di uscire allo scoperto, proponendosi come intellettuale «mediatore» per aprire un dialogo con quelli che Guareschi aveva definito i «trinariciuti» e che i più moderati si limitavano a dipingere come estranei alla civiltà democratica, i comunisti e, in particolare, con il loro segretario, Palmiro Togliatti. Gli argomenti che si affollano nelle dense pagine di Bobbio sono tanti, la democrazia innanzitutto e il suo rispetto nei regimi comunisti, il peso della libertà e il ruolo degli intellettuali, temi di cui si parlerà anche domani e martedì prossimi al Circolo dei lettori di Torino, al convegno che celebrerà l’anniversario dell’uscita del libro.
L’intellettuale, scrive Bobbio, ha il compito «di seminare dei dubbi e non già di raccogliere certezze», un’affermazione che pare accentuare ulteriormente la distanza temporale di questo libro ma che ci restituisce anche tutto l’impegno politico di un filosofo che ha scelto di porsi come un ponte fra le ragioni dei comunisti e i principi delle democrazie liberali. Non fu un dialogo facile e non vi fu convergenza fra le due proposte in campo. Ciò non toglie che non si trattò soltanto di un esercizio accademico fra intellettuali – perché, va ricordato, Togliatti oltre che un politico era anche un intellettuale di razza – ma del più significativo contributo alla distensione all’interno della guerra fredda culturale che si agitava nel nostro paese.
Questi sessant’anni che ci separano dal ‘55 sembrano dunque un’eternità. Il dibattito contenuto in Politica e cultura non può essere, infatti, capito se non si tiene conto che il Novecento è stato il tempo delle ideologie totalizzanti. E oggi non possiamo che guardare al secolo scorso per coglierne le discontinuità con il presente. Ma proprio libri come Politica e cultura ci consegnano non soltanto le chiavi interpretative del passato, ma anche stimoli per il presente e per il futuro.
La Stampa TuttoLibri 17.10.15
Ebraismo, linfa di fede cristiana
di Enzo Bianchi, priore di Bose
«Le confessioni cristiane avanzeranno sul cammino dell’ecumenismo solo se, guidate dallo Spirito di Verità, ritroveranno ognuna la purezza originaria della fede e l’humus nativo della chiesa, che è Israele». Ripensavo a queste parole del cardinale Albert Decourtray leggendo l’agile saggio di Brunetto Salvarani dal lapidario titolo
De Judaeis
(Gabrielli, pp. 156, € 14,00) che cita quelle analoghe del teologo riformato Karl Barth: «Esiste, in ultima analisi, un solo grande problema ecumenico: quello delle nostre relazioni con il popolo ebraico». Convinzione di Decourtray, arcivescovo di Lione negli anni ottanta e novanta del ‘900, era che «il rigetto del popolo ebraico ha ferito quanto mai duramente la fede cristiana poiché l’ha privata della sua linfa e del suo fondamento» e ha originato la plurisecolare categoria del rigetto di altri credenti nel medesimo Dio in nome della fede. Una categoria non solo nefasta nella storia del cristianesimo ma deleteria per le vicende dell’intera umanità.
Ora Salvarani – docente di Missiologia e Teologia del dialogo, esperto di ecumenismo, ebraismo e dialogo interreligioso – riassume in quella che definisce una «piccola teologia cristiana di Israele» gli aspetti più importanti dell’evoluzione del pensiero e della prassi cristiana nei confronti del popolo ebraico dal decreto conciliare Nostra aetate – di cui si celebra quest’anno il 50° anniversario – ai giorni nostri. Che si tratti della questione della «elezione» del popolo di Dio e della sua pretesa sostituzione a favore della chiesa o del significato delle Scritture ebraiche, che ci si interroghi sull’ebraicità di Gesù e dei suoi primi discepoli o sulla tragedia del precoce antigiudaismo cristiano, che si rifletta sulla shoà o sull’esistenza della stato d’Israele, sempre la documentatissima analisi di Salvarani conduce senza sconti il lettore al caso serio del «fare memoria», del custodire il tesoro del passato per ripensare giorno dopo giorno il cristianesimo e per immaginare un futuro proiettato verso il compimento del progetto di Dio sull’umanità tutta.
Ogni capitolo del libro si chiude con un «promemoria per le comunità cristiane» che non vuole restringere la cerchia dei possibili lettori – l’opera infatti ha un pubblico potenziale ben più ampio – ma piuttosto far emergere quanto sia vitale che lo snodo storico e teologico del dialogo cristiano-ebraico si traduca in consapevolezza diffusa e in concreti atteggiamenti quotidiani. Del resto l’autore ha il raro privilegio di tener unita la competenza dello studioso con un vissuto fatto di relazioni personali, di amicizie, di tratti di strada compiuti in comune con credenti di ogni fede e con uomini e donne pensanti di ogni orientamento. E di questa carica di passione umana e di rapporti cordiali sono testimonianze coinvolgenti sia la prefazione di Paolo De Benedetti, maestro insuperabile di sapienza ebraico-cristiana, sia le pagine finali, poste discretamente dall’autore «come un’appendice», ma in realtà foriere di un futuro di riconciliazione e pace.
La Stampa TuttoLibri 17.10.15
Robert Wyatt: non si spegne mai la stella del rock
Le due vite del fondatore dei Soft Machine: dal successo psichedelico Anni 60 alla carrozzella
di Piersandro Pallavicini
Uno dei più bei romanzi di Jonathan Coe, La banda dei brocchi, pubblicato nel 2001, aveva come titolo originale The Rotters Club. Il titolo di Coe, a sua volta, era preso tal quale dal titolo di un disco della band inglese di rock progressivo Hatfield and The North. C’è una relazione tra l’omaggio di Coe a un gruppo semisconosciuto e l’oggetto di questa recensione, Different every time, biografia autorizzata di Robert Wyatt? Eccome. La relazione è Canterbury, una cittadina inglese cento chilometri a est di Londra. Qui, a partire dalla metà degli anni sessanta, si è sviluppata una «scena» musicale tanto irrilevante dal punto di vista commerciale quanto influente sulla musica, l’immaginario e l’intera cultura inglese. Sull’autore della Famiglia Winshaw, per esempio. Hatfield & The North, Soft Machine, Caravan, Gong sono le band più importanti della scena di Canterbury, cui si possono affiancare Matching Mole, National Health, Egg e molte altre ancora. Ma se volessimo individuarne un centro, un fulcro, se volessimo indicare un nome che con gli anni non sia finito sugli scaffali dei collezionisti e sia invece diventato una stella brillante nel firmamento culturale contemporaneo, questo sarebbe Robert Wyatt.
Gli intrecci di biografie delle band che hanno reso di culto la scena di Canterbury sono stati, a partire dalla fine degli anni ’70, oggetto di passione e tormento per i molti fanatici del lato misterioso, surreale e umoristico della psichedelia prima e del rock progressivo dopo. Basti dire che i Soft Machine, gruppo canterburiano guidato da Robert Wyatt (alla batteria e al canto), erano, insieme ai Pink Floyd, la band di casa al leggendario UFO club londinese, nell’anno psichedelico per eccellenza, il ‘67. E si aggiunga che, condividendo il medesimo management, Wyatt e i Soft Machine erano stati portati in tournée negli USA insieme a Jimi Hendrix nel momento della sua esplosione, tra il ’67 e il ’68.
Altro? Il freak australiano Daevid Allen era arrivato in Inghilterra nel 1960 proprio a Canterbury, finendo per abitare nella casa-comune di Honor Wyatt, la madre di Robert, e con questi aveva dato vita ai Soft Machine prima di uscirne e fondare i Gong, la più ineffabile band del rock progressivo, celebre per la sua mitologia a base di spazio, pianeti dell’orgasmo continuo e folletti sballati che si aggirano in teiere volanti. Senza dimenticare, infine, che da Wyatt e dalla casa-comune della madre, prima di tutte queste band che fanno parte della leggenda del rock, si sarebbero formati i Wilde Flowers, nucleo superdenso della scena di Canterbury prima del suo big bang, una formazione della cui vita e composizione – mai testimoniata da registrazioni ufficiali – ogni appassionato di storia della musica avantgarde è assetato di notizie come uno scienziato di informazioni sull’origine dell’universo.
Questo splendido libro di Marcus O’Dair è stato costruito in anni di lavoro, con una documentazione capillare e con informazioni di prima mano raccolte in lunghe chiacchierate con Wyatt, con la sua compagna Alfie, e con gli amici e i musicisti che lo hanno accompagnato in una carriera musicale attiva fino al 2010. Different Everytime scioglie ogni dubbio e dipinge un quadro dettagliato dei primi anni oscuri di Wyatt a Canterbury, e poi a Londra e nelle tournée USA con Hendrix, e svela finalmente il mistero della sua cacciata dalla band che lui stesso aveva creato, i Soft Machine, e racconta nei tremendi dettagli la notte del 1° giugno del 1973, quando il musicista cadde da una finestra durante un party. Sopravvivendo, ma costretto a trascorrere il resto della vita su di una sedia a rotelle. Va dato atto a O’Dair di esser stato bravo a rendere questa prima metà della vita di Wyatt, con squarci ad alta temperatura emotiva sulla bohème londinese negli anni in cui prendeva vita il concetto di rockstar.
Ma se qui O’ Dair giocava su un terreno amico, dove è facile far tornare a galla il fascino di quei giorni lontani e scatenare l’entusiasmo del lettore che li abbia vissuti o ne abbia anche solo sentito parlare, al biografo inglese va dato atto anche di aver raccontato, come in un romanzo avvincente, la rinascita del protagonista di questo libro. Ci viene restituito, così, un secondo Wyatt meno rocker e più artista, più razionale, più umano, più interessante del primo, accompagnando il lettore lungo gli anni thatcheriani dell’adesione di Wyatt al partito comunista e lungo l’evolversi delle sue passioni culturali verso la world music e la musica colta tout court. Different every time apre dunque tali squarci sul mondo dell’arte, della politica, della società, da finire per travalicare l’interesse di un pubblico di soli appassionati e diventare un libro per tutti. Una cronaca vivida, raccontanta da un punto di vista privilegiato, di un pezzo importante di storia recente. Che, per chiudere il circolo, si fregia di un’introduzione appassionata proprio di Jonathan Coe.
La Stampa TuttoLibri 17.10.15
Compagna Müller, bacia la mano al carnefice e (forse) ti salverai
“Volevano processarmi per un acquisto di noci”
Come sopravvivere alle miserie della dittatura romena tra violenze della polizia, fame, follie sanguinarie del socialismo
di Herta Müller
Eravamo convocati a voce, mai per iscritto, in modo da non avere prove. Abitavamo al quinto piano di un caseggiato. Si sentiva bussare alla porta, ed ecco là un uomo con un vestito sudicio – un messaggero. Diceva domani o fra tre giorni o la settimana prossima, alla tale ora dai servizi segreti. Tutto a voce, non aveva niente di scritto, nessuna firma, e non aspettava risposta. Giorno, ora, servizi segreti – il messaggero diceva quelle poche parole e poi se ne andava. E io chiudevo la porta e la testa cominciava a rimuginare. Di cosa si tratterà mai questa volta, si voleva essere pronti. Infiniti scenari venivano discussi con gli amici. I protocolli della memoria venivano riletti, si speculava su eventuali domande e si rifletteva sulle risposte. Allora credevamo di illuminarci l’un l’altro, e che questo aiutasse. I servizi segreti erano probabilmente divertiti dalle nostre «preparazioni» e dalla nostra ingenuità. Oggi si sa che l’appartamento era pieno di microspie e ogni conversazione veniva ascoltata. Pensavamo di proteggerci e aiutarci a vicenda con battute e consigli. E invece ci stavamo consegnando senza saperlo ai microfoni.
È terribile, quando arrivavamo all’interrogatorio avevamo già svelato tutto ai servizi segreti. Quando si era convocati si pensava ogni volta a cosa sarebbe successo se non ci si fosse presentati e basta. Ma si sarebbe stati prelevati, in qualsiasi luogo ci si fosse nascosti. E un nascondiglio non c’era, da nessuna parte. Ed essere prelevati avrebbe significato l’arresto.
Gli interrogatori peggiori erano quelli a cui non si era convocati, ma pescati dalla strada. Una volta stavo andando dal parrucchiere. Lungo la strada, mentre attraversavo il parco, arrivò «per caso» un poliziotto, chiese il mio documento, diede una rapida occhiata e disse: «Vieni». Aveva con sé un cane lupo, un manganello e una pistola. Mi portò nel sotterraneo di un pensionato studentesco. Era una stanza lunga e stretta, e là c’erano tre tizi che mi aspettavano. Il poliziotto diede il tesserino a uno magro con la pelle che pareva conciata e un incisivo dorato nella bocca.
Era il capo. Lui fece cadere più volte la mia carta di identità sul pavimento e io dovetti riprenderla e ridargliela in mano. Dozzine di volte, e se non mi piegavo abbastanza rapidamente lui mi dava un calcio alle reni e sul sedere. Diceva che ero una puttana, una cagna in calore, che avevo rapporti sessuali con otto studenti arabi e mi facevo pagare in cosmetici e collant. «E così ci si rivede, bambolina» disse. Non l’avevo mai visto prima. La Securitate mi stava tutto il tempo alle calcagna, dissi, sapeva che non conoscevo un solo arabo. «Se noi lo vogliamo ne conosci anche venti» disse il tizio, «vedrai, sarà un bel processo». Aveva una risata gracchiante. Quando cominciava anche gli altri due attaccavano a ridere, come cani abbaianti. Ridevano più forte e più a lungo di lui, per adularlo e prolungare l’effetto della risata.
Al lungo tavolo, dov’erano seduti, fui costretta a mangiare otto uova sode con cipolla e sale grosso. Attraverso una porta chiusa sulla parete posteriore una voce di donna gridò. Io mi sforzavo di non far vedere la paura, inghiottivo quella roba e speravo che la voce fosse solo registrata. Per gli amici ero dal parrucchiere. Nessuno sapeva che ero finita dai servizi segreti. Si poteva sparire e non ritornare mai più. Nessuno avrebbe mai immaginato cos’era successo e dove si trovava la persona. C’erano molti misteri di quel tipo nel paese, quanti erano i luoghi clandestini dove si trovavano i servizi segreti – un labirinto delle torture sparso per la città e il paese.
Centinaia di stanze d’albergo, appartamenti requisiti, rimesse di ogni tipo.
Una volta ero andata al mercato a comprare delle noci e da lì fui trascinata in un cortile interno dove c’erano delle baracche di legno. Fui accusata di aver falsato il normale prezzo delle noci, cioè di averle pagate troppo. Ma non c’era un prezzo normale, noci lo stato non ne aveva. In una di queste baracche di legno c’era un tizio seduto dietro una macchina per scrivere, che compilava un protocollo sulla mia colpa. Circa dieci clienti prima di me avevano comprato noci allo stesso prezzo e dopo di me erano state ugualmente care. E il contadino con le noci era un venditore privato. Erano tutti motivi inventati, pura vessazione. Mi rifiutai di firmare il protocollo appena battuto a macchina. Qualche settimana dopo ricevetti una convocazione in tribunale. Ma poi si fece arenare la cosa. Essere prelevata a sorpresa era la mia paura più grande. Subito dopo veniva quella di un processo costruito – una condanna vera con prove inventate e testimoni ricattati.
© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano and by arrangement with Marco Vigevani & Associati Agenzia Letteraria
Herta Müller (nata Nitchidorf, Romania, nel ’53) ha pubblicato, tra l’altro: «In viaggio su una gamba sola» (Marsilio); «Bassure», «L’altalena del respiro», «Oggi avrei preferito non incontrarmi», «La paura non può dormire» (Feltrinelli); «Il paese delle prugne verdi» (Keller)
La Stampa TuttoLibri 17.10.15
“Libertini e libertari, io sono i miei fantasmi”
“Esordisco nella narrativa con storie di spettri e affini: sono lì a rappresentare il nostro animo tormentato”
intervista di Mirella Serri
Giulio Giorello, nato a Milano nel 1945, insegna filosofia della scienza Scienza all’Università degli Studi di Milano. Ha pubblicato una quarantina di libri: tra gli ultimi, «Senza Dio. Del buon uso dell’ateismo», «Il tradimento», «La filosofia di Topolino», «Noi che abbiamo l’animo libero»
Tra quadri barocchi, porcellane e orologi in stile Napoleone III una testa di moro intagliata nel legno, dagli occhi bianchi e inquietanti, calamita l’attenzione della visitatrice dell’antica villa. Davanti a quel pregevole manufatto, conservato nella settecentesca dimora del Conte esperto d’arte, il cucciolone terranova della graziosa ospite ringhia e mostra i denti. Nella notte inoltre il reperto sembra animarsi: in preda al terrore la signora finisce per trovar conforto sotto le lenzuola con il prestante domestico indiano che, come in una sorta di diabolico maleficio, ha le stesse fattezze di quel mostruoso volto ligneo. Visioni provenienti dall’al di là, larve e fantasmi hanno conquistato Giulio Giorello, noto filosofo della scienza: il famoso allievo di Ludovico Geymonat, il matematico esegeta delle relazioni tra etica e politica, l’ ateo convinto (autore di Senza Dio. Del buon uso dell’ateismo), ora esordisce con suggestivi racconti Il fantasma e il desiderio (Mondadori). Proprio in questi giorni sta uscendo anche il bel saggio Libertà (Bollati Boringhieri) in cui Giorello, ispirato dal Giulio Cesare di Shakespeare, sviscera la sua trinità laica: «Liberty», «Freedom» ed «Enfrachisement». Dove ci spiega quali sono le libertà a cui dobbiamo tenere nel mondo moderno e che dobbiamo custodire a costo anche di strenue lotte, a cominciare dall’indipendenza nella ricerca scientifica, per passare alla tutela dell’autonomia delle scelte individuali e all’emancipazione o «affrancamento da qualsiasi condizione servile».
Fantasmi e libertà: professor Giorello, come convivono in lei queste anime apparentemente antitetiche, l’intellettuale razionalista e sempre mosso dal dubbio e lo scrittore gotico che scruta il buio e fruga nell’indicibile?
«Negli ultimi anni ho giocato su due tavoli: mi dedicavo al lavoro speculativo e faticavo molto perché mi trovavo a fare i conti con gli autori e i testi fondanti del mio passato, da Geymonat a John Stuart Mill. Ad aiutarmi ad andare avanti c’è stata l’esperienza narrativa che si è rivelata un terreno affascinante e sconosciuto».
Ma come mai ha scelto di dare vita, si fa per dire, a spettri e affini?
«Il retroterra di questa raccolta affonda le sue radici nella lettura di Topolino e la casa dei sette fantasmi: da bambino ero conquistato dal fumetto di Walt Disney che risaliva alla metà degli anni Trenta in cui i famosi personaggi dei cartoons erano impegnati nel ruolo di ghostbusters. Mentre tifavo per Topolino alle prese con uno dei suoi peggiori nemici, il terribile fantasma criminale Macchia Nera, è poi arrivato l’”Inferno di Topolino” con quest’ultimo che rivestiva i panni di Dante, mentre Pippo era Virgilio. C’era persino l’arbitro venduto Ugolino intento a rosicchiare un pallone poiché a Pisa, per salvare la squadra che gli aveva dato i quattrini, non aveva fischiato un rigore. Ma tutta la Divina commedia si può leggere come una grande storia di spiriti, una meravigliosa recita spettrale».
Da adulto?
«In seguito mi sono dedicato agli ectoplasmi shakespeariani: Amleto, principe di Danimarca, è spinto dal fantasma del padre a vendicarne la morte; l’ombra di Cesare appare in sogno a Bruto, annunciandogli la sua prossima sconfitta; Riccardo III è assediato dalle visite notturne delle numerose persone che ha fatto uccidere. Altri appassionanti coinvolgimenti me li hanno offerti Montague Rhodes James con i suoi tranquilli villaggi in cui irrompe il soprannaturale, Oscar Wilde con il Fantasma di Canterville, Charles Dickens con l’avaro Scrooge visitato la notte di Natale dal defunto socio in affari Marley, Henry James con Il giro di vite, pieno di emozionanti sorprese».
Tombe, atmosfere cimiteriali, manieri abbandonati, drappi bianchi e catene contraddistinguono di solito le ghost stories: i suoi visitors spesso sono alquanto disinvolti e libertini, come nel racconto «Fuoco nella pianura» dove la fiamma che arde è anche quella nelle vene di una procace ricercatrice universitaria conquistata sessualmente da un terrificante incappucciato…
«Uno dei miei scrittori preferiti è Joyce, gran maestro d’ironia nell’Ulisse. E le larvali presenze che io metto in scena, come nel caso della bella accademica alle prese con un essere misterioso, sfidano le convenzioni non senza un pizzico di humour. Il mio primo racconto ha come protagonista Spinoza, un gigante del pensiero anche se paragonato a Platone, Cartesio, Kant, e molto “inattuale” in senso nietzschiano, poiché va sempre controcorrente, contro il pensiero dominante. Per le sue idee che criticavano le credenze teologiche degli ebrei fu persino espulso dalla Sinagoga».
Spinoza era solito sentenziare «i fantasmi sono un’offesa all’intelligenza di Dio». Cosa ne pensa?
«La mia amica Margherita Hack diceva che non vi avrebbe creduto nemmeno se ne avesse visto spuntare uno da dietro il frigorifero: anch’io sono scettico. Quando sono stato in un pub irlandese noto per essere frequentato da ospiti provenienti dall’oltretomba, il barista mi assicurò di aver visto passare un mastino dagli occhi di fuoco. Diceva di non essere ubriaco ma di aver bevuto “solo”, ripeto “solo”, sette pinte di birra… Forse aveva letto il Mastino dei Baskerville di Arthur Conan Doyle».
Allora cosa sono per lei larve e spiriti disincarnati?
«Rappresentano il nostro animo tormentato, l’insofferenza e l’irrequietezza nei confronti di tutto quello che ci circonda. Esprimono il piacere di costruirsi un mondo d’immaginazione, quello che definirei “il desiderio del desiderio”. Non siamo noi a dare vita ai nostri fantasmi: sono loro che la danno a noi».
I suoi spiriti oltre che libertini però sono anche libertari. E’ così?
«Ho sentito il bisogno di scrivere questi racconti, la cui stesura si è intrecciata con quella del saggio sulla libertà, proprio perché non sono ottimista sul nostro futuro. Credo che oggi occorra rafforzare l’Enfranchisement o l’impegno per fare della nostra libertà lo strumento per avere ancora più libertà. Temo un buio avvenire, pieno di barriere e di steccati, come quelli che, per esempio, stanno sorgendo in tutto il mondo, dall’Ungheria al Messico, per limitare l’afflusso di chi fugge la violenza e lo sterminio. Non vorrei trovarmi tra qualche anno a intitolare il mio prossimo libro alla maniera di Luis Buñuel: Il fantasma della libertà».
La Stampa TuttoLibri 17.10.15
Quando il tubo catodico rendeva mitico Togliatti
Come si comunicava la politica nella Prima Repubblica tv: in centocinquanta immagini uno stile slow e solenne
di Massimiliano Panarari
C’erano una volta le «mitiche» Tribune (politiche ed elettorali). Ai loro esordi, naturalmente, l’Italia non era quella Repubblica dei media che sarebbe diventata in seguito, bensì una nazione in bianco e nero come la televisione del monopolio, pubblica e pedagogica, rispettosissima (anzi, deferente) nei confronti della classe politica. Niente storytelling e framing (a quest’ultimo ci pensavano le ideologie…), e men che meno personalizzazione della leadership: proprio un altro mondo insomma, e in questo contesto il format della Tribuna elettorale, nata l’11 ottobre del 1960, rappresentò un’innovazione profonda per il cittadino-elettore, ritrovatosi per la prima volta nelle vesti di cittadino-telespettatore in una sorta di contatto diretto con i rappresentanti politici. Da vari punti di vista, si trattava dell’antesignano del talk-show, senza risse e ispirato a una notevole (e «dorotea») compostezza. E pure, in un’altra ottica ancora, di qualcosa di simile a un’aurorale «disintermediazione», ma con l’idea, come scrivevano i dirigenti del servizio pubblico radiotelevisivo, che potesse «contribuire notevolmente all’educazione democratica della nostra Nazione».
«Manifesto visivo» della democrazia dei partiti, questa rivoluzione tv è stata raccontata da una recente mostra presso la Camera dei deputati realizzata da Rai Teche insieme alla Direzione Relazioni esterne della Rai; ed è ora anche un interessante volume-catalogo, Cari elettori, care elettrici. Le immagini della prima Repubblica nelle Tribune della Rai, con testi di Maria Pia Ammirati, Laura Boldrini, Pietrangelo Buttafuoco, Filippo Ceccarelli, Guido Crainz, Nuccio Fava, Dario Franceschini, Monica Maggioni, Barbara Palombelli, Leone Piccioni, Barbara Scaramucci, Marcello Sorgi e Giovanni Valentini, curato da Edoardo Novelli (professore di Comunicazione politica all’Università di Roma Tre) e Stefano Nespolesi (responsabile delle Bibliomediateche e della Fototeca Rai).
Guardando buona parte delle 150 fotografie raccolte nel volume ci scorre davanti l’iconografia di una politica slow e solenne (e nei decenni iniziali decisamente «in grisaglia»), nella quale il terreno di gioco (e, dunque, di rappresentazione) si conformava a una serie di regole certe e precise, sorvegliate da conduttori lottizzati e, al tempo stesso, professionali e assai misurati. Un altro mondo, per l’appunto, dove la politica non inseguiva i sondaggi, ma ordinava e plasmava la società per via ideologica e mediante l’allocazione delle risorse (con l’economia delle partecipazioni statali). Nessuna nostalgia, dunque, ma la sensazione di un’epoca televisiva davvero distante nel tempo, e sicuramente (cosa che non guasta mai in generale…) beneducata, intrisa del garbo dei moderatori delle tribune, i quali peraltro, come nel caso di Jader Jacobelli, si preoccupavano di inventare delle formule per «movimentarle» un po’. E, infatti, non ci volle molto perché il programma – che, a partire dal 1964, si era convertito in rubrica permanente – perdesse lo slancio vitale e la spinta propulsiva del debutto per rimanere ancorato a una dimensione ormai soltanto propagandistica e di megafono del sistema partitico; e lo certificava, nel ’70, un’indagine del Servizio Opinioni Rai dalla quale emergeva come solo il 41% degli intervistati ritenesse valida la trasmissione. E se oggi, passati per la lunga stagione degli ipermuscolari e chiassosissimi talk che mettevano in scena le guerre fine di mondo tra berlusconiani e antiberlusconiani, le tribune ci appaiono come i prototipi (anche perché ritualizzati) del bon ton e del galateo applicato alle relazioni tra competitor politici, in verità nel loro dietro le quinte si infuocavano gli animi e le polemiche. Come quella volta in cui Guido Gonella, ministro della destra dc del III governo Fanfani, si scagliò contro il tubo catodico che aveva fatto «innamorare» gli italiani di Togliatti e delle «ballerine».
Poi, con l’arrivo della turbopolitica anni Ottanta (un’etichetta terminologica coniata dallo stesso Novelli), per colmare i ritardi le tribune fecero il loro ingresso nella società dello spettacolo politico (grazie innanzitutto ai radicali di Marco Pannella). Tentando così di trovare un modus vivendi con i cambiamenti della logica mediale dello stesso servizio pubblico, fino a che, con il 1994, tra Tangentopoli e l’irruzione sulla scena di Forza Italia, anche il nostro Paese è stato scaraventato nell’era della politica postmoderna e della fast politics. E nella stagione della campagna elettorale permanente, che ha reso appunto superate le care e vecchie «tribune»...
Repubblica 18.10.15
Si racconta il brutto perché brutta è l’Italia oggi
di Giancarlo De Cataldo
Nel 1952 Giulio Andreotti, censore di opere d’arte e spettacoli, accusò Vittorio De Sica di aver mandato in giro l’immagine distorta di un Paese misero, arrogante con i deboli, ossequioso sino all’untuosità con i potenti. La colpa di De Sica e del suo sceneggiatore Cesare Zavattini si chiamava Umberto D. . Un film che faceva del “disfattismo”: termine con il quale i poteri alla ricerca di consenso marchiano le voci critiche. La presa di posizione andreottiana si può leggere come un’imposizione di un limite: la rappresentazione del “brutto”. Andreotti esorta a tacere delle magagne nazionali perché suscettibili di seminare sfiducia: il brutto resti al di fuori dell’arte perché politicamente controproducente.
L’estetica del brutto era già stata affrontata dall’Ottocento. In un celebre saggio, il filosofo tedesco Karl Rosenkranz concedeva al brutto diritto di cittadinanza nell’arte a patto che fosse l’elemento soccombente nella dialettica col bello. Da qui la condanna di Hugo, Dumas e Sue (non a caso autori molto popolari e politicamente attivi).
Il tema di fondo lega il filosofo e il politico Andreotti: per opposte, ma convergenti ragioni, si prescrive all’artista di astenersi dal rappresentare l’osceno e il volgare. A meno di non relegarlo nel grottesco o nel comico. Negli ultimi anni, però, l’estetica del brutto ha fatto passi da gigante. È divenuta una cifra stilistica del contemporaneo: soprattutto in Italia, grazie a film e serie televisive che hanno avuto risonanza anche oltre i confini nazionali. L’idea che si possa rappresentare ed esportare un’immagine nazionale molto lontana dalla grandezza di Michelangelo o dal folklore non è più vista con scandalo.
L’estetica del brutto resta una questione solcata da un viluppo di profili tecnici (la rappresentazione) ed etico-politici (se sia legittimo imporre dei limiti). Perché è vero, da un lato, che le narrazioni di territori degradati, di violenza a volte insensata, di esistenze disperate, sono merce corrente, molto meno dirompente di un tempo, ma è altrettanto vero che la voce della critica “etica” (o di quella politica mascherata da etica) è forte. Non a caso il contrasto più acuto è sul terreno del crime.
Oltre ad aver dato origine al termine, di uso globale, “Mafia”, l’Italia è un Paese nel quale si dubita delle verità ufficiali e pressoché in ogni epopea criminale si assiste a patti inconfessabili fra Strada e Palazzo, coinvolgimenti di insospettabili, la presenza ossessiva della criminalità organizzata. Presenza resa tangibile dal “brutto” degli agglomerati di periferia o del caos di grandi centri urbani. Se questa è la “modella Italia”, come possono i pittori raffigurarla diversamente? E altro che consenso: le critiche fioccano. Romanzo Criminale fu accusato di rendere eroici dei delinquenti. A Gomorra- la serie una simile accusa fu risparmiata perché i Savastano and co. sono troppo brutti per suscitare immedesimazione, e allora si ripiegò su altri versanti: Napoli non è solo camorra, l’Italia non è solo degrado. Andreottianamente: se è vero che, dopo averlo criticato, Andreotti esortò De Sica a prendere atto che «ovunque vi sono rivoli di bene, che, individuati, fruttificano». Ma il compito dell’artista può ridursi alla glorificazione del Bene?
Corriere Salute 18.10.15
Adolescenza
Come (e perché) la mente cambia
La grande «potatura» nel cervello dei ragazzi
Durante questa fase della vita nel cervello si verificano un «taglio» delle connessioni nervose e una riduzione dei meccanismi di controllo, che servono a sganciare i ragazzi dalle protezioni della famiglia e a spingerli ad affrontare situazioni rischiose per «mettersi alla prova» in vista dell’età adulta
di Danilo di Diodoro
In generale si va affermando un’accentuata «predisposizione» dei giovanissimi a fare scelte e a compiere azioni che hanno valore, e comportano vantaggi, soprattutto sul breve periodo
Un essere umano adulto ha nel suo cervello circa 85 miliardi di neuroni, ma all’interno della scatola cranica, in realtà, queste cellule si formano e si disfano continuamente, così come anche le connessioni fra di esse, le cosiddette sinapsi .
Dunque il cervello non è affatto un organo immutevole, fissato una volta per tutte, come si credeva in passato, anzi, la ricerca più recente ha dimostrato che, soprattutto in certi periodi dell’esistenza, è tutto un fare e disfare. Specie durante l’adolescenza, quando avvengono cambiamenti epocali, come il misterioso pruning , la potatura di una gran quantità di sinapsi.
Sembrerebbe un controsenso, perché proprio nel momento in cui la persona esce dall’età infantile e deve affrontare problemi più complessi e avrebbe bisogno del massimo della sua potenza cerebrale, avviene la drastica riduzione delle connessioni nervose.
Ma in realtà è un fenomeno che serve a migliorare l’efficienza, a sfoltire quello che non serve. Così il cervello si prepara a una rivoluzione, cambia gli equilibri che avevano retto per anni e anni.
Il nuovo assetto adolescenziale modifica i rapporti tra i principali sistemi neurali e i loro differenti neurotrasmettitori, le sostanze che in quantità infinitesimali regolano gli scambi fra le sinapsi. «Si ha uno squilibrio nell’integrazione fra i principali sistemi neurali fortemente associati ai comportamenti a rischio» spiega André Luiz Monezi Andrade del Dipartimento di Psicobiologia dell’Università Federale di San Paolo, in Brasile, in uno dei capitoli del libro “Drug Abuse in Adolescence” (Springer, 2015).
Fra questi il sistema dopaminergico , un insieme di circuiti neuronali che utilizzano la dopamina come mediatore chimico, e che è coinvolto nella percezione del piacere e della gratificazione, nelle emozioni (attraverso l’ amigdala ) e nei processi decisionali (mediante la corteccia prefrontale ).
«La maturazione della corteccia prefrontale e delle sue aree mediale e ventrale è ritardata negli adolescenti» specifica Monezi Andrade. «Questo fenomeno influenza il comportamento dei ragazzi, rendendoli più vulnerabili alle scelte che hanno maggior valore nel breve tempo».
Dunque c’è una causa neurobiologica che giustifica l’attrazione degli adolescenti verso la scoperta di emozioni e piaceri immediati.
È, non a caso, il momento in cui si è attratti dalle passioni, dal sesso, dall’alcol e dalle droghe, dalle nuove esperienze.
«La vulnerabilità degli adolescenti alle sostanze psicotrope è supportata non solo dai cambiamenti nella loro struttura cerebrale, ma anche dal mutamento di diversi sistemi di neurotrasmissione, tra i quali spiccano il sistema dopaminergico, quello serotoninergico , noradrenergico e glutammaergico ».
Ad esempio, l’aumento di attività del sistema dopaminergico tende a inibire l’attività della corteccia prefrontale, così che si riducono le capacità critiche di valutazione dei rischi e si è più esposti a comportamenti impulsivi, allo sperimentare droghe.
«Disabilità e mortalità aumentano del 200 per cento in questo periodo» sottolinea Ronald Dahl, psichiatra infantile dell’University of Pittsburgh Medical Center, in un articolo pubblicato sulla rivista “Annals of the New York Academy of Sciences”.
«Questo raddoppio nei tassi di disabilità e decessi tra la fase della prima età scolare e la tarda adolescenza non è il risultato di malattie: le principali cause sono correlate proprio a difficoltà nel controllo del comportamento e delle emozioni».
Ma di questa rivoluzione cerebrale l’adolescente ha bisogno, per affrontare i compiti della crescita.
Dopo l’età infantile, caratterizzata dalla protezione familiare, è necessario questo scossone che proviene dall’interno, la chiamata verso il nuovo, il passionale e l’imprudente.
«Apprendiamo nell’adolescenza molti degli schemi di comportamento che adotteremo da adulti e il motivo di ciò può essere proprio il pruning » rinforza David Bainbridge, docente di anatomia clinica veterinaria all’Università di Cambridge e autore di diversi libri divulgativi su temi di neuroscienze, come per esempio “Adolescenti” (Einaudi, 2009).
«Le aree della corteccia cerebrale sottoposte alla potatura più drastica durante l’adolescenza sono quelle che più di tutte associamo al comportamento dei teenager. La corteccia parietale viene sfoltita senza pietà nel secondo decennio di vita, un periodo in cui iniziamo ad attribuire interpretazioni estremamente sottili e complesse alle nostre percezioni».
Corriere Salute 18.10.15
Psicologia
È anche l’età in cui si sviluppa il senso morale
di D. d. D.
Un documento dell’Organizzazione della Sanità dedicato all’adolescenza pubblicato nel 2014, intitolato «Health For The World’s Adolescents, A second chance in the second decade», indica questa fase della vita come il momento cruciale durante il quale si sviluppano le abilità più diverse: il ragionamento e la valutazione morale, la capacità di pensiero astratto e di giudizio razionale.
L’adolescente impara a immedesimarsi nella prospettiva degli altri e a tenerne conto nella relazione interpersonale. Per la prima volta si interessa di temi sociali nei quali alcuni si lanciano con il cuore in mano. Il senso di sé si consolida,
si definisce l’identità sessuale, si diventa sensibili ai punti di vista dei pari, mentre cresce l’autonomia rispetto alle opinioni dei familiari. Si stanno rompendo gli schemi e le barriere di protezione,
si va verso il mondo.
Corriere Salute 18.10.15
Gli anni in cui la memoria si espande e la musica diventa indimenticabile
di D. d. D.
L’adolescenza e l’ infanzia sono definite dai neuroscienziati periodi sensitivi , a indicare un momento dello sviluppo psicobiologico in cui il cervello è massimamente pronto a ricevere certi stimoli e a rispondere in modo ottimale.
Sono i momenti in cui l’apprendimento avviene più facilmente. Ed è per questo che l’adolescenza viene anche chiamata una seconda finestra di opportunità .
Dice in proposito Delia Fuhrmann dell’Institute of Cognitive Neuroscience dell’University College di Londra in un articolo pubblicato sulla rivista Trends in Cognitive Sciences: «Un organismo “si aspetta” di essere esposto a certi particolari stimoli durante questi periodi di sviluppo».
Un esempio di favorevole finestra adolescenziale è rappresentato dalla memoria. «All’età di 35 anni è più facile ricordare memorie autobiografiche comprese fra i 10 e i 30 anni rispetto a memorie precedenti o successive» si puntualizza nell’articolo. Ci si riferisce a questo fenomeno con in termine di picco della reminiscenza .
Probabilmente è esperienza comune rendersi conto del fatto che oltre agli eventi autobiografici, nella memoria di ognuno spicca il ricordo di libri letti o film visti durante quegli anni.
La musica poi occupa un posto di particolare rilievo su questo podio mnemonico, allacciata com’è alle prime esperienze passionali e all’aggrovigliarsi di sentimenti che caratterizza l’adolescenza.
I brani ascoltati in quegli anni non saranno mai più dimenticati. «Ma perfino gli eventi banali che accadono durante l’adolescenza e nella prima età adulta sembrano essere sovra-rappresentati nella memoria» sottolinea ancora Delia Fuhrmann, «facendo pensare che la capacità mnemonica sia accresciuta durante questo periodo della vita»
D.d.D.
Corriere La Lettura 18.10.15
Aristotele che fisico!
Le sue teorie scientifiche godono di cattiva fama
Ma a torto: furono la base dei successivi progressi
di Carlo Rovelli
Bibliografia
La Fisica e Del Cielo di Aristotele si trovano nel terzo volume delle sue Opere edite da Laterza (traduzioni di Antonio Russo e Oddone Longo, 1973). La metafora della barca e dei marinai dello studioso austriaco Otto Neurath (1882-1945) è citata dal filosofo americano Willard Van Orman Quine (1908-2000) nel libro Parola e oggetto (introduzione e traduzione di Fabrizio Mondadori, Il Saggiatore, 1970). Il riconoscimento di Galileo Galilei nei riguardi di Aristotele si trova nella «Lettera a Fortunio Liceti, 15 settembre 1640», a pagina 247 nel diciottesimo volume delle sue Opere (Giunti-Barbera, 1890). Carlo Rovelli ha approfondito questi temi nell’articolo Aristotle’s Physics: A Physicist’s Look («La fisica di Aristotele: lo sguardo di un fisico»), uscito di recente sulla rivista «Journal of the American philosophical association». Il famoso saggio dell’epistemologo americano Thomas Kuhn (1922-1996) La struttura delle rivoluzioni scientifiche è stato pubblicato in Italia nel 1969 da Einaudi (traduzione di Adriano Carugo)
Cadono alla stessa velocità oggetti di peso diverso? A scuola ci raccontano che Galileo Galilei avrebbe mostrato che la risposta è sì, lasciando cadere delle palle dalla torre di Pisa. Nel corso dei due millenni precedenti, invece, sarebbero stati tutti accecati dal dogma di Aristotele secondo cui oggetti più pesanti cadono più in fretta; curiosamente, a nessuno era mai venuto in mente di provare. Galileo e i suoi contemporanei osservano la natura, e si liberano dalla camicia di forza del dogmatismo aristotelico. Bella storia, ma c’è un problema. Provate a buttare dal balcone una biglia di vetro e una pallina di carta. Neanche per idea arrivano assieme: la biglia pesante cade molto più veloce, esattamente come dice Aristotele.
Qualcuno obietterà che questo avviene a causa dell’aria. Ma Aristotele non ha mai scritto che le cose cadrebbero a velocità diversa se togliessimo l’aria. Ha scritto che le cose cadono a velocità diversa nel nostro mondo, dove l’aria c’è. E non sbagliava. Aveva osservato la natura con attenzione. Meglio di generazioni di insegnanti e studenti moderni, che si bevono nozioni senza pensarci, e senza provare.
La fisica di Aristotele gode di cattiva stampa. Viene descritta come costruita a priori, svincolata dall’osservazione, palesemente sbagliata. È un giudizio largamente ingiusto. La fisica di Aristotele è rimasta a lungo la teoria di riferimento per la civiltà mediterranea: non perché fosse dogmatica, ma perché è ottima. Descrive bene la realtà, e offre uno schema concettuale così efficace che per due millenni nessuno è riuscito a fare di meglio. Il succo della teoria è che, in assenza di altre influenze, un oggetto si muove verso il suo «luogo naturale»: più in basso per la terra, un po’ più in alto per l’acqua, ancora più in alto per l’aria, ancora più in alto per il fuoco; la velocità del «moto naturale» cresce con il peso e diminuisce con la densità del fluido in cui l’oggetto è immerso. Una teoria semplice e generale che rende conto con eleganza di una grande varietà di fenomeni, per esempio perché il fumo va in alto, o perché un pezzo di legno scende in aria, ma sale in acqua. Ovviamente la teoria non era perfetta, ma se è per questo neanche la scienza moderna è perfetta.
Il cattivo nome di cui soffre la fisica di Aristotele è in parte colpa dello stesso Galileo, che nei suoi scritti attacca Aristotele a testa bassa, e fa apparire sciocchi i suoi seguaci. Ne aveva bisogno a fini polemici. In parte è dovuto alla separazione che si è scioccamente allargata fra le culture scientifica e umanistica-filosofica. Chi studia Aristotele in generale conosce poco la fisica e chi si occupa di fisica si interessa poco ad Aristotele. La genialità scientifica dei libri di Aristotele come il De Coelo , o la Fisica , il libro che ha dato il nome alla disciplina, passa facilmente inosservata.
Ma c’è un altro fattore per la cecità odierna alla genialità di Aristotele scienziato. Ed è quello più interessante: l’idea che non si possa, anzi non si debba, confrontare pensieri prodotti da universi culturali così lontani, come Aristotele e la fisica moderna. Molti storici oggi inorridiscono all’idea di guardare la fisica aristotelica come approssimazione della fisica newtoniana. Per capire l’Aristotele originale, sostengono, dobbiamo studiarlo alla luce del suo tempo, non con schemi concettuali successivi di secoli. Questo è vero se siamo interessati a meglio decifrare Aristotele, ma se siamo interessati a capire il sapere di oggi, come è emerso dal passato, sono le relazioni fra mondi distanti che ci interessano.
I filosofi e storici della scienza Karl Popper e Thomas Kuhn, che hanno avuto grande influenza sul pensiero odierno, hanno sottolineato l’importanza delle rotture nel corso dell’evoluzione del sapere. Esempi di tali «rivoluzioni scientifiche», dove si abbandona la vecchia teoria, sono i passaggi dalla fisica di Aristotele a Newton, o da Newton ad Einstein. Nel corso di tali passaggi ci sarebbe, secondo Kuhn, una ristrutturazione radicale del pensiero, al punto che le idee precedenti diventano irrilevanti, addirittura incomprensibili: «incommensurabili» con la teoria successiva, scrive Kuhn. Popper e Kuhn hanno avuto il merito di mettere a fuoco questo aspetto evolutivo della scienza e l’importanza delle fratture, ma la loro influenza ha portato a una assurda negazione degli ovvi aspetti cumulativi del sapere. Peggio, a non voler vedere le chiarissime relazioni logiche e storiche fra teorie prima e dopo ogni passo avanti: la fisica di Newton è perfettamente riconoscibile come approssimazione della relatività generale di Einstein; la teoria di Aristotele è perfettamente riconoscibile come approssimazione all’interno della teoria di Newton.
Non solo, ma all’interno della teoria di Newton si riconoscono aspetti della struttura della fisica aristotelica. Per esempio, la grande idea di distinguere il movimento «naturale» di un corpo da quello «forzato», sopravvive intatta nella fisica newtoniana, e poi in quella di Einstein. Cambia il ruolo della gravità: causa di moto forzato in Newton (dove il moto naturale è rettilineo uniforme), parte del moto naturale in Aristotele, e, curiosamente, di nuovo in Einstein (dove il moto naturale, chiamato «geodetico», torna ad essere quello di un oggetto in caduta libera, come per Aristotele). Gli scienziati non avanzano né per solo accumulo, né per rivoluzioni totali, in cui tutto è buttato e si ricomincia da zero. Avanzano piuttosto, come in una bella analogia di Otto Neurath spesso citata da Willard Van Orman Quine, «come marinai in mare aperto che devono ricostruire la loro barca, ma non possono farlo da zero: dove tolgono una trave devono subito rimpiazzarla (…), in questo modo, pezzo a pezzo avanza la ricostruzione». Nella grande nave che è la fisica moderna si riconoscono ancora antiche strutture — come la distinzione fra moto naturale e forzato — della vecchia barca del pensiero aristotelico.
Torniamo allora ai corpi che cadono nell’aria o nell’acqua, e vediamo cosa effettivamente succede. La caduta non è né a velocità costante e dipendente dal peso, come voleva Aristotele, né ad accelerazione costante e indipendente dal peso, come voleva Galileo (neanche se trascuriamo l’attrito!). Quando un corpo cade, attraversa una prima fase in cui accelera, per poi stabilizzarsi a velocità costante, maggiore per i corpi pesanti. Questa seconda fase è ben descritta da Aristotele. La prima fase invece è di solito molto breve, difficile da osservare, e per questo è sfuggita ad Aristotele. L’esistenza di questa fase iniziale era già stata notata nell’antichità: nel terzo secolo prima della nostra era, per esempio, Stratone di Lampsaco (città sullo stretto dei Dardanelli) osserva che un filo d’acqua che cade si rompe in gocce: questo indica che le gocce cadendo accelerano, come una fila di auto che si sgrana man mano che le auto prendono velocità.
Per studiare questa fase iniziale, difficile da osservare perché tutto avviene in fretta, Galileo scova uno stratagemma geniale. Invece di osservare corpi che cadono, osserva palle che rotolano lungo una lieve pendenza. La sua intuizione, difficile da giustificare al suo tempo ma corretta, è che la «caduta rallentata» delle palle che rotolano riproduca il moto di oggetti che cadono liberi. In questo modo, Galileo riesce a notare che all’inizio della caduta è l’accelerazione ad essere costante, non la velocità. Forte di questa nuova capacità di interrogare la natura, e di una padronanza della matematica che mancava ad Aristotele, Galileo è riuscito a stanare il dettaglio quasi impercettibile ai nostri sensi dove la fisica di Aristotele funziona male. È come l’osservazione all’inizio del Novecento usata da Einstein per superare Newton: il movimento del pianeta Mercurio, a ben guardare, non segue esattamente le orbite di Newton. Il diavolo è nei dettagli.
Einstein farà di Newton quello che Galileo e Newton hanno fatto di Aristotele: mostrerà che nonostante la sua efficacia, anche questa fisica è solo buona in prima approssimazione. Oggi sappiamo che anche la fisica di Einstein non è perfetta: sbaglia là dove entra troppo in gioco la meccanica quantistica. Anche la fisica di Einstein ha bisogno di essere migliorata. Ma non siamo ancora ben sicuri di come.
Galileo non ha costruito la sua nuova fisica ribellandosi a un dogma o dimenticando Aristotele. Al contrario, ha saputo modificare aspetti della cattedrale concettuale aristotelica, imparando a fondo da Aristotele: non c’è incommensurabilità fra lui e Aristotele, c’è serrato dialogo. Credo che sia lo stesso fra le culture, le persone, i popoli. Non è vero che, come oggi si ama ripetere, mondi culturali diversi sono intraducibili, impermeabili. È vero il contrario: le frontiere fra teorie, discipline, epoche, culture, popoli, persone, sono terribilmente permeabili, e il nostro sapere si nutre degli scambi attraverso questa permeabilità. Anzi, il sapere è il risultato in continua evoluzione di questa fitta rete di scambi. Quello che ci interessa di più è proprio questo scambio: confrontare, scambiare idee, imparare, costruire dalle differenze. Mescolare, non tenere separato.
C’è grande distanza fra l’Atene del IV secolo e la Firenze del XVII. Ma né rottura radicale, né incomprensione. È perché sa dialogare con Aristotele, e penetrare a fondo la sua fisica, che Galileo riesce a trovare il passaggio stretto dove correggerla e migliorarla. Lo dice splendidamente lui stesso, in una lettera scritta in tarda età: «Io mi rendo sicuro che se Aristotele tornasse al mondo, egli riceverebbe me tra i suoi seguaci, in virtù delle mie poche contraddizioni alla sua dottrina».
Corriere La Lettura 18.10.15
E l’etica laica creò il (nuovo) mondo
di Edoardo Boncinelli
Poche settimane fa la rivista scientifica «Science» ha dedicato quattro pagine a un argomento decisamente inconsueto per una pubblicazione del genere: lo sviluppo e la diffusione delle grandi religioni, quelle che tirano in ballo i cosiddetti Grandi Dei, vale a dire le divinità la cui predicazione ha chiari intenti moralizzatori.
Qualche anno fa lo psicologo americano di origine libanese Ara Norenzayan avanzò appunto una tesi molto interessante sul tempo e il modo con cui si sono originate e diffuse quelle religioni che fanno del comportamento morale dei fedeli un punto cruciale della loro predicazione. Come mai un tema del genere è trattato con ampiezza su una rivista come «Science»? Il punto in discussione, non sorprendentemente, è una possibile strategia per dimostrare, o confutare, sperimentalmente la veridicità della ricostruzione storica di Norenzayan.
Tutto parte dalla constatazione che gli dei delle più importanti religioni del mondo d’oggi sono dei moralizzatori, cioè premiano la virtù e puniscono, dopo la morte, le persone egoiste e crudeli. Per la gran parte della storia dell’umanità, tuttavia, gli dei di questo stampo hanno rappresentato l’eccezione. Se ci possiamo basare sull’osservazione delle popolazioni di cacciatori e di raccoglitori esistenti ancora oggi, per migliaia di anni i nostri antenati riuscirono a immaginare soltanto divinità prive di grandi preoccupazioni morali, cioè sostanzialmente indifferenti alle vicende umane e in particolare al fatto che un individuo si comporti bene oppure male.
Il punto centrale è quello di capire come popolazioni diverse ai quattro angoli del mondo siano giunte a venerare, invece, divinità con una spiccata inclinazione a una predicazione morale, e perché. Ogni cultura del genere non è giunta per caso, se seguiamo quest’idea, alla concezione di dei moralizzatori, ma è stata la fede in quelli che ha favorito lo spirito collaborativo dei fedeli e ha permesso la nascita e la sopravvivenza di società grandi e complesse. In tale ottica, senza un incentivo «soprannaturale» alla cooperazione, queste estese e complesse forme di civiltà non sarebbero state in grado di decollare. I grandi dei, onniscienti per natura, sanno sempre dove tu sei e che cosa alberga nel tuo animo. Una volta nati i Grandi Dei e le loro vaste società, la fede in questi ha contribuito a far sì che religioni diverse come l’islam o le convinzioni dei mormoni si diffondessero così tanto, attraverso la comparsa di gruppi veramente collaborativi e quindi vincenti o, almeno, assai più validi di altri.
Si tratta di un’ipotesi di vasto respiro, più comprensiva di molte teorie proposte dagli studiosi tradizionali di cose religiose, che di solito prendono in considerazione una confessione alla volta. Il loro contributo è stato fondamentale, ma adesso è arrivato il momento, dice l’articolista, di fare una valutazione più ampia e di cercare di verificarla.
Dati sperimentali raccolti in questi ultimi anni, sia in esperimenti di laboratorio sia in studi sul campo, hanno rivelato che gli adepti delle grandi religioni come il cristianesimo o l’islam sono più generosi con gli estranei e più altruisti di individui che seguono credi di tipo diverso. Norenzayan, la cui suggestiva tesi è esposta magistralmente nel suo libro Grandi Dei. Come la religione ha trasformato la nostra vita di gruppo (Raffaello Cortina, 2014), ritiene che tale correlazione tra la fede in divinità moralizzatrici e comportamenti diciamo così «prosociali» — inclinati cioè a perdere magari personalmente qualcosa pur di assicurare il benessere degli altri — sia in grado di aiutarci a comprendere l’evolversi delle diverse religioni.
In società di piccole dimensioni il comportamento prosociale non dipende dal credo religioso, ma piuttosto dal fatto che tutti o quasi si conoscono. Se qualcuno ruba o mente, prima o poi tutti lo verranno a sapere, e non vorranno più collaborare con lui. È insomma la paura di una brutta reputazione che spinge in questi casi gli individui ad attenersi agli standard della collettività. Quando le società crescono di dimensioni, un tale continuo monitoraggio sociale non è più possibile o è sempre meno facile. Non c’è così più niente che ci impedisca di trarre vantaggi dal lavoro e dalla buona disposizione d’animo degli altri, senza dare loro niente in cambio. Non restituire un prestito o non tenere fede alla parola data sembrano non avere conseguenze, se si sa che non si incontreranno mai più le persone danneggiate, e non esiste ancora un’amministrazione pubblica della giustizia. Ma se tutti fanno così la società crolla. E certo non può crescere.
Anche da un’esposizione tanto sommaria si capisce che si tratta di una tesi molto interessante. Ma è vera o, meglio, quanto è vera? Un team di ricercatori si propone ora di mettere alla prova le diverse affermazioni della tesi in questione. Per prima cosa, si tratta di estendere l’analisi su un maggior numero di casi, per verificare se sia sempre vero che una fede in divinità prosociali rende le diverse persone meno egoiste e ostili verso gli altri. In secondo luogo occorre verificare se sia sempre vero che le religioni moralizzatrici tendono a favorire società più estese e complesse. Infine, va considerata e valutata l’ipotesi che questa teoria sia in grado di predire con accuratezza quali religioni si espanderanno e quali no.
Si tratta di un bel programma di lavoro e non possiamo che essere curiosi sulle conclusioni che si raggiungeranno dopo tanto dispendio di energie. Occorre comunque notare che oggi la situazione è un po’ diversa e va evolvendo da vari punti di vista. C’è sempre meno corrispondenza fra gruppi religiosi e gruppi territoriali, così che spesso gruppi religiosi eterogenei si trovano fianco a fianco, distribuiti sullo stesso territorio a macchia di leopardo. In questo modo la forza coesiva della religione viene a convivere con una sua potenzialità dirompente, che comporta ogni genere di contrasti, generando anche laceranti dilemmi morali. Questo perché molti precetti morali sono uniformi all’interno di una stessa religione, ma spesso significativamente diversi fra una religione e l’altra.
Nessuno sa come, da questo punto di vista, la situazione potrà effettivamente evolvere. Circola da tempo però un’altra istanza, almeno in certi ambienti intellettuali e sociali occidentali: il ripudio di una morale religiosa, per abbracciare, invece, una morale autenticamente laica. Molti sono oggi convinti, incluso me, che si possano seguire i precetti di un’etica laica, figlia della cultura e della ragione, e svincolata da ogni imposizione di natura religiosa. Questa posizione, decisamente più moderna ed evoluta, anche se non sappiamo quanto diffondibile, mostra diversi vantaggi di natura ideale, ma anche pratica.
Dal punto di vista ideale, non si vede perché una persona non si dovrebbe comportare bene indipendentemente da comandi e minacce, facendo del proprio retto comportamento un valore in sé, di statura morale e intellettuale assolutamente eccezionale, con un’assunzione di responsabilità personali che non hanno uguali nella storia. Dal punto di vista pratico, tale linea di condotta potrebbe ovviare ai contrasti spesso stridenti che caratterizzano morali religiose diverse, soprattutto sulle questioni sulle quali queste divergono. Così facendo la morale, tanto pubblica quanto privata, ritornerebbe a essere una forza sociale unificante, invece che dirompente.
È chiaro che non è semplice concordare tutti su un’unica morale laica, ma a mio avviso una strategia mista — basata su una variazione sul tema dell’imperativo categorico kantiano per quanto riguarda il comportamento individuale e una sorta di etica della responsabilità per quanto riguarda gli aspetti sociali — potrebbe rivelarsi una scelta molto saggia. Soggetta nel tempo ad adattamenti e miglioramenti come la conoscenza scientifica.
Corriere La Lettura 18.10.15
Il compito ingrato dei Gap, figliastri del Pci
di Antonio Carioti
«La Gap quand’è che arriva non manda lettere né bigliettini». Anche Dario Fo ha celebrato in una canzone il mito dei Gruppi d’azione patriottica (Gap), nuclei clandestini per la guerriglia urbana creati dal Partito comunista durante la Resistenza. Li ha dipinti come intrepidi vendicatori della classe operaia, resi inafferrabili dalla rete protettiva della solidarietà proletaria: «In fabbrica fanno retate, torturano gente, non parla nessuno».
La realtà storica, che Luigi Borgomaneri ha ricostruito in riferimento a Milano nel libro Li chiamavano terroristi (Unicopli), è parecchio diversa. Così come è difforme dal simmetrico antimito costruito dalla destra neofascista: i gappisti come fanatici e sanguinari esecutori di un piano volto a mettere in moto la guerra civile con gli agguati agli esponenti di Salò.
La lotta fratricida in verità era nei fatti già all’indomani dell’8 settembre, con gli italiani divisi senza rimedio tra chi appoggiava i tedeschi e chi li combatteva. Il ruolo ingrato e rischiosissimo demandato ai Gap, in una fase che vedeva il movimento partigiano ancora in embrione, fu colpire subito, nell’unico modo possibile vista la sproporzione delle forze, l’ordine imposto dai nazisti, nella logica di guerra totale che straziava l’Europa già da quattro anni. Oggi le uccisioni a freddo attuate dai gappisti possono inorridire, ma reagivano all’occupazione di una potenza razzista e genocida: nessun parallelo è plausibile, nota Borgomaneri, con le Brigate rosse, che spargevano il terrore in tempo di pace e democrazia.
D’altronde il libro mostra che i Gap, a Milano come altrove, furono per il Pci una sorta di figliastri, poco consoni alla sua vocazione per le lotte di massa. Era difficile convincere i militanti fidati a compiere attentati individuali, per cui non di rado si reclutavano elementi inaffidabili o comunque indocili alla disciplina, che poi magari venivano accusati (solitamente a torto) di trotskismo o di banditismo. Era inoltre quasi impossibile rispettare le rigide norme cospirative. E sotto tortura la gente spesso parlava. Lungi dal risultare imprendibili, i Gap milanesi furono più volte sgominati dai nazifascisti e si dovette ricostituirli da capo.
Sono innumerevoli gli episodi citati da Borgomaneri da cui emergono difficoltà nei rapporti tra i Gap e il partito. Tra i più gravi, la misteriosa uccisione, dopo il 25 aprile, del guerrigliero Carlo Camesasca, detto «Barbisùn», che aveva eliminato nel dicembre 1943 il leader dei fascisti milanesi Aldo Resega, e l’oblio caduto sul comandante gappista Luigi Campegi, reo di un cedimento psicologico. Lo stesso Giovanni Pesce, leggenda dei Gap e medaglia d’oro al valor militare, citato nella ballata di Fo, scrisse nel gennaio 1945 una dura relazione in cui denunciava la negligenza del Pci verso i combattenti più esposti. La sua 3ª brigata Gap pare non abbia neppure partecipato alla sfilata della Liberazione.
Poi sono venute l’esaltazione e la denigrazione, entrambe poco rispettose di una vicenda eroica, spietata e dolorosa, tuttora piena di enigmi, su cui Borgomaneri può vantare il merito di aver finalmente indagato con gli strumenti appropriati della ricerca storiografica.
Corriere La Lettura 18.10.15
La famiglia allargata dei Celti
di Livia Capponi
La mostra Celts: art and identity espone al British Museum di Londra oggetti artistici originali, ma anche rivisitazioni dal Medioevo a oggi, tratti dal mondo celtico. Ma chi erano i Celti? Per i Greci, i Keltòi erano tutti i barbari del Nord, ma essi non si erano dati questo nome. Erano vari popoli guerrieri, spesso in lizza fra loro, uniti da una lingua simile e simili usanze religiose e culturali, stanziati in tutta l’Europa, fra cui Britanni, Irlandesi, Belgi, Celtiberi e Galati o Galli. La loro storia coincide con l’età del ferro (VIII-I sec. a.C.). Che fossero davvero legati da un unico sostrato culturale è, però, tuttora discusso.
I Celti vivevano in famiglie allargate, dove i figli dei nobili erano allevati dallo zio paterno, un vero genitore adottivo. I clan erano raggruppati in tribù, ciascuna con i propri costumi e i propri dèi. Costruivano fortini su colline, circondati da fossati, e vivevano in capanne.
Quando non combattevano, coltivavano la terra e la loro innovazione più importante fu l’aratro di ferro. La ricchezza era nella quantità del bestiame posseduto. Le donne potevano gestire loro proprietà, scegliersi il marito, e anche comandare un esercito, come nel caso della regina degli Iceni (nell’odierno Norfolk), Boudicca dalla rossa chioma, che si ribellò a Nerone arrivando a saccheggiare Londra.
La lingua celtica era ricca di tradizioni orali, tramandate da bardi e poeti. La religione era gestita dai druidi, sacerdoti, guaritori e giudici, con cerimonie presso boschi, pozzi e sorgenti d’acqua, ritenuti sacri. Credevano nell’immortalità dell’anima e per questo tagliavano le teste dei nemici, considerate sede della vita, e le impalavano come trofei fuori dalle loro case o le attaccavano alla cintura. Andavano alla guerra dipinti di blu dalla testa ai piedi, o anche nudi, gridando urla terrificanti. Famosi erano i loro banchetti organizzati gerarchicamente, in cui ci si sfidava a duello per il migliore pezzo di carne. Ma erano bellicosi anche fra loro, e non riuscirono mai a costituire un fronte unito per battere definitivamente i Romani. Un frammento dell’opera storica di Catone il Censore, politico e scrittore romano, notava la loro passione, oltre che per la guerra, per le battute di spirito.
Per Roma, alcune regioni popolate da Celti, come la Cisalpina, diventarono presto parte dell’impero, ma altre, come la Britannia, erano terre ai confini del mondo, la cui conquista aveva un alto valore propagandistico. Il generale Agricola, suocero di Tacito, negli anni 80 del I secolo d.C. aveva ottenuto vittorie fino al Monte Graupio, ignota località della Scozia, prima di essere richiamato in Italia dall’invidioso imperatore Domiziano. Ma intanto aveva fondato scuole di latino in tutta l’isola, dove i Celti si dimostrarono ottimi studenti. E proprio a un capoclan scozzese, Calgaco, Tacito mette in bocca la critica più dura all’arroganza dei Romani: «Dove fanno il deserto, lo chiamano pace». Forse anche la simpatia di Tacito può essere spiegata come orgoglio celtico, se è vero che egli era della Gallia Narbonense.
Come in Gallia, anche in Britannia si sviluppò una cultura mista: i luoghi sacri dei Celti divennero templi pagani, e poi chiese. Gli scavi sul Vallo di Adriano e quelli in corso a Londra hanno riportato alla luce testimonianze scritte di un mondo di soldati e civili dai nomi celtici, ma che comunicavano in perfetto latino con il resto dell’impero. Ancora prima dei Romani, i Greci avevano conosciuto i Celti fin dal IV secolo a.C. e Aristotele li paragonava agli Spartani per l’austerità con cui tiravano sui bambini. Giulio Cesare si accorse che i druidi conoscevano già da tempo l’alfabeto greco. A Marsiglia, colonia ellenica, i Galli compravano dai Greci vino in cambio di ferro e schiavi, e poi impararono anche a produrlo, scoprendo un nuovo modo di ubriacarsi che fece impallidire la birra e l’idromele.
In Gran Bretagna il nome dei Celti suscita ancora oggi forti emozioni. Gli scozzesi si credono più celti degli inglesi, i gallesi del Nord disprezzano quelli del Sud chiamandoli sassoni. Qualcuno addirittura piange nel giorno della battaglia di Hastings (14 ottobre 1066), dopo la quale gli Anglosassoni furono dominati dai Normanni. A parole, dunque, l’esposizione si prefigge di sfatare il mito di un solo «popolo celtico», mostrandone le mille sfaccettature antiche, e sorridendo delle fantasiose interpretazioni moderne. Si apre con una statua-menhir alta due metri dalla Germania del sud, e spazia dalle spille all’argenteria con animali stilizzati, alle miniature spiraliformi dei vangeli di Lindisfarne, al revival dell’ordine dei druidi nel 1781, alle fascinazioni romantiche di William Blake, fino alla maglia dei Boston Celtics. Ma, involontariamente o no, la mostra finisce per resuscitare una civiltà duratura e potente, che è sopravvissuta a Roma mescolandosi con essa, ha interiorizzato il Cristianesimo ed è riemersa intatta negli stati del Medioevo.
Dopo secoli passati a ritenersi i veri eredi dell’Impero romano, con questa mostra i britannici si specchiano in un passato che è rimasto sempre underground , ma non è mai diventato «lingua morta». Naturalmente criticano i preconcetti, spesso inquietanti, creati dai moderni attorno a questa cultura. Sicuramente nei tratti migliori dei Celti — nobiltà selvaggia, insensibilità alle intemperie del clima e della vita, viscerale legame con la natura, donne combattive, originale senso artistico e musicale, humour — a molti europei piacerà riconoscersi. E altrettanti turisti prenderanno ulteriore nota del pluralismo culturale su cui si fonda il Vecchio Continente.
Corriere La Lettura 18.10.15
C’è una dittatura liberale : in Francia serve Cincinnato
Dopo oltre 80 opere, Michel Onfray, lei pubblica «Cosmo» e dice di considerarlo il suo vero primo libro. Perché?
intervista di Stefano Montefiori
«È il primo volume che scrivo dopo un evento fondamentale nella vita di un uomo: la morte di suo padre. Aggiungiamo a questo che è stato il primo libro scritto dopo il decesso della mia compagna di 37 anni di vita comune, in seguito a 13 anni di un lungo cancro vissuto al suo fianco. È dunque un libro carico di esperienze esistenziali che mi hanno trasformato. Il libro di una maturità obbligata».
Pubblichiamo qui accanto un estratto delle prime pagine, con il racconto della morte di suo padre, operaio agricolo che le ha insegnato a scegliere «le lezioni della natura anziché le peregrinazioni della cultura». Come concilia il mondo rurale delle origini con il mondo della cultura che le è comunque diventato proprio?
«La sociologia mostra in effetti che i filosofi francesi provengono raramente da ambienti modesti e dalla campagna. Io ho questa doppia appartenenza: padre operaio agricolo, madre donna delle pulizie e nascita, studi e vita in Normandia, tra villaggi e piccole città. Peraltro vivo ancora in Normandia. All’inizio queste origini non hanno contato molto, fino a quando ho compreso che erano invece determinanti rispetto ai filosofi del mio tempo, urbani, provenienti da un ambiente borghese, normalisti, cattedratici, parigini. Sono fedele a quel che sono, come potrebbe essere altrimenti?».
«Cosmo» si fissa l’obiettivo di «trasformare una catastrofe in fedeltà». Come il suo lutto personale diventa il punto di partenza di una teoria filosofica universale?
«Mi sta chiedendo di raccontare in due righe quel che sviluppo in un libro di un milione di caratteri... Diciamo che la morte di un padre è la trasmissione di una saggezza alla quale dobbiamo andare incontro per conoscerla e quindi esserne degni. È un’eredità: mio padre era un uomo retto, forte, onesto, coraggioso, lavoratore. Il mio dovere ormai è essere all’altezza di questa eredità».
Quando, nella polemica politica, lei si lancia nella difesa del popolo «old school», all’antica, contro la sinistra di governo e l’Europa neo-liberale, è appunto la fedeltà a suo padre e alla sua compagna, insegnante delle scuole medie, che la ispira?
«Sì, assolutamente, lei ha ragione. Fedeltà ai miei genitori, fedeltà alla mia compagna che insegnava in una scuola media di sottoprefettura, fedeltà a mio fratello che si occupa della manutenzione in una cava, fedeltà a mia nuora che lavora in una mensa, fedeltà ai senza voce, ai poveri dimenticati dalla classe politica al potere. Questo popolo è stato cancellato con un tratto di penna dalla sinistra liberale che, una decina di anni fa, ha puntato da un punto di vista elettorale sui bobo ( bourgeois-bohème , espressione coniata nel 2000 dall’americano David Brooks, in Francia termine poco lusinghiero per indicare giovani facoltosi e di sinistra, ndr ), dicendo che questo popolo dimenticato era ormai passato dalla parte dei Le Pen. Amo questo popolo old school , ma non quelli che confiscano la sua sofferenza per trarne unicamente un profitto elettorale».
Lei si è sempre professato di sinistra e lo fa ancora, ha fondato l’università popolare di Caen come risposta al 21 aprile 2002, quando Jean-Marie Le Pen arrivò al secondo turno delle presidenziali, ma in Francia alcuni la accusano di essere un «nuovo reazionario», un «lepenista oggettivo». Il Front national ne approfitta per sollecitarla a dialogare con Marine Le Pen. Che cosa risponde?
«Quelli che mi accusano di questa infamia sono quelli che, da 25 anni, ci vendono l’Europa liberale come la fine di tutti i mali: votare “sì a Maastricht” doveva liberarci dalla disoccupazione, assicurare il pieno impiego, aumentare il livello di vita, sopprimere le guerre, realizzare l’amicizia tra i popoli! Dopo un quarto di secolo di propaganda mediatica e di pieni poteri a questa politica, oltre la miseria, la disoccupazione e la povertà in espansione, abbiamo in Europa, in ogni Paese, un quarto dell’elettorato che vota per partiti del genere di Marine Le Pen, senza contare gli astensionisti. Le persone responsabili di questo stato di cose, i media come “Libération” o “Le Monde” , non faranno autocritica. Riesce loro più facile prendersela con chi segnala l’ampiezza del loro insuccesso. D’altro canto, non dimentichiamo che questo ambiente liberale ha bisogno del Front national al ballottaggio delle elezioni presidenziali: è il solo scenario che permetterà loro di avere un liberale al potere. Poco importa che sia di destra o di sinistra. E poco importa ugualmente che il popolo ne faccia ancora e sempre le spese. La Francia vive sotto un regime di dittatura liberale. Chiunque lo denunci passa per uno scherano del Front national. Logica normale di questo genere di regime, che ha rinunciato al pensiero a vantaggio dell’insulto».
Cosa si sente di dire ai francesi che sarebbero pronti a votare Marine Le Pen — uno su tre secondo l’ultimo sondaggio Ifop — alle presidenziali del 2017? Avrebbe voglia di scoraggiarli? E con quali argomenti?
«Per quanto mi riguarda, non voto più. Dunque né per gli uni né per gli altri. Marine Le Pen a destra fa la stessa improvvisazione elettorale di Jean-Luc Mélenchon a sinistra. Dilettanti, cinici, opportunisti e demagoghi, gente che non mi interessa più dei loro avversari».
Esistono veri punti in comune tra lei, Michel Houellebecq, Alain Finkielkraut, Éric Zemmour? Per esempio sull’Europa? È vero che gli intellettuali stanno prendendo il posto lasciato libero dai politici?
«Ci sono sempre dei punti di convergenza tra chiunque! E si potrà sempre mettere insieme Hitler che amava la pittura e Jean Moulin (eroe della Resistenza francese, ndr ) che era gallerista... Il mio problema non è sapere che cosa ho in comune con questo o quello, o ciò che me ne separa. Loro sono loro, io sono io. Quanto al potere: gli intellettuali non ne hanno più dei politici, che fingono di averlo, ma obbediscono alle direttive burocratiche di Bruxelles».
Una nuova egemonia culturale «contro il politicamente corretto» si sta formando in Francia, nonostante i benpensanti che lei spesso denuncia?
«Lei indica una creazione dei media, che radunano persone eterogenee e mettono un’etichetta per fabbricare dei fenomeni editoriali che fanno vendere delle copie. Dopo l’insulto che “Libération” mi ha inflitto in prima pagina, non si contano più le copertine che la stampa ha consacrato a creare un evento che in realtà non esiste. Il vero evento è il crollo del loro ideale liberale europeo. L’adagio è noto: “Quando il saggio indica la luna, lo stolto guarda il dito”. Molti giornalisti indicano il dito. Ma quel che bisogna vedere è la fine del modello liberale venduto in Francia, con i pieni poteri dei media, a partire dal 1983, data dell’adesione di François Mitterrand al liberalismo poi sfociato nel trattato di Maastricht».
Si è parlato di una serata in suo sostegno il 20 ottobre alla Mutualité di Parigi con Alain Finkielkraut, Régis Debray, Pascal Bruckner e altri. Conferma che si terrà?
«Questa serata avrà luogo, ma senza di me. Lo dico da settimane, ma ci si sforza di non capirlo. Sono un uomo libero e solo. E mi sta bene così. Non sono strumentalizzabile da niente e da nessuno».
Lei auspica l’emergere in Francia di un nuovo candidato espressione della società civile, anti-Bruxelles e anti-sistema, come fu già il comico Coluche. Che opinione ha dell’esempio italiano di Beppe Grillo e del suo Movimento Cinque Stelle?
«La Francia ha una unicità gollista che mi interessa più degli altri modelli. La voglia di finirla con i comici della politica non giustifica l’impegno a favore dei buffoni che fanno politica. I Paesi meritano di più. Il politico di professione non vale niente di più del giullare di professione. Serve un Cincinnato che posa l’aratro, fa quel che c’è da fare e poi, una volta compiuta la sua missione, ritorna al suo aratro. La Roma antica ha contribuito molto alla mia costruzione spirituale. Bisogna leggere o rileggere Plutarco».
Corriere La Lettura 18.10.15
L’eredità di mio padre morto
di Michel Onfray
Mio padre è morto tra le mie braccia venti minuti dopo l’inizio della notte dell’Avvento, in piedi, come una quercia che, colpita da un fulmine, accetta il proprio destino pur rifiutandosi di cadere. Sradicato ormai da quella terra che aveva lasciato improvvisamente, l’ho preso fra le mie braccia, portandolo come Enea aveva portato suo padre al momento di abbandonare Troia. L’ho fatto sedere su un muricciolo e poi, quando fu chiaro che non si sarebbe più riavuto, l’ho disteso in tutta la sua lunghezza per terra, come per adagiarlo in quel nulla che sembrava aver raggiunto senza essersene reso conto. In pochi secondi, avevo perso mio padre. Ciò che così tante volte avevo temuto era infine successo in mia presenza.
Non sono mai andato a tenere conferenze in Australia o in India, in Giappone o negli Stati Uniti, in America del Sud o in Africa nera senza pensare al fatto che mio padre sarebbe potuto morire mentre ero via. Mi immaginavo con terrore il lungo viaggio in aereo che avrei dovuto affrontare per tornare da lui, sapendolo morto. E invece moriva lì, con me, di fronte a me, fra le mie braccia. Approfittava della mia presenza per lasciare il mondo, e me.
Scapolo a lungo, era diventato padre tardi, all’età di trentotto anni. Quando io avevo dieci anni, lui ne aveva quarantotto, e quando io ne avevo venti, lui ne aveva cinquantotto. Agli occhi dei bambini o degli adolescenti della mia età, questo significava un vecchio signore che, una volta in pensione, i miei coetanei scambiavano qualche volta per mio nonno. Assecondare questo sguardo degli altri, che lo trasformavano in mio nonno, equivaleva a tradirlo; respingerlo significava essere il figlio di un vecchio — come dicono i bambini, che sguazzano nella crudeltà come i piranha nell’acqua. Avere un padre anziano costringe fin da giovani ad affrontare la cattiveria dei propri simili. Più tardi, però, si riconosce che ciò è una fortuna, un dono: si scopre infatti di avere un padre saggio, posato, calmo, sereno, privo di qualsiasi affettazione giovanile e sufficientemente navigato da non lasciarsi più ingannare dagli specchietti per le allodole che luccicano ovunque nella nostra società.
Sono finalmente diventato il figlio di mio padre quando ho capito che lui stava vivendo la sua vita senza preoccuparsi di corrispondere alle mode che imponevano allora dei padri moderni, dei padri che indossassero gli stessi vestiti dei figli (pantaloni corti o scarpe da ginnastica, camicie colorate o tute sportive) e che parlassero la loro stessa, trascurata lingua, dei padri compagni, dei padri complici e buontemponi, dei padri amiconi, dei padri distesi, dei padri bambini o adolescenti, dei padri non finiti…
La mia fortuna fu di aver avuto un padre come ne esistevano prima che i padri diventassero i figli dei propri figli. (...)
Non credo all’immortalità dell’anima, alla sua dipartita verso il cielo. Non credo a nessuno dei racconti religiosi che vorrebbero convincerci che la morte non esiste e che la vita continua anche quando il nulla si è preso tutto. Non credo a niente che assomigli, da vicino o da lontano, alla metempsicosi o alla metensomatosi. Non credo ai segni post mortem . Credo però, per averlo vissuto, per averlo sperimentato, che quella sera, in quell’istante, in quella precisa occasione, mio padre mi abbia trasmesso un’eredità.
Mi invitava a scegliere la rettitudine anziché le strade di traverso, la linea diritta anziché il zig-zag, le lezioni della natura anziché le peregrinazioni della cultura, la vita in piedi, la parola piena e la ricchezza di una saggezza vissuta. Mi dava una forza senza nome, una forza che obbliga e che non autorizza. (...)
Noi ci meritiamo quello che ereditiamo. Ciò che è certo è che Cosmo è un libro scritto da me, per me, per meritare questa eredità.
(traduzione di Michele Zaffarano )
Corriere La Lettura 18.10.15
La storia resta di sasso
Dall’Età del Ferro alle Crociate la memoria è nei graffiti del Garda
Ulivi e limoni, più qualche giacimento di limonite. Alberi mediterranei, più una miscela di ossidi di ferro che un migliaio di anni prima di Cristo, durante l’Età del Ferro, è stata la generosa miniera del prezioso minerale, indispensabile alla forgiatura delle nuove armi che avrebbero surclassato quelle in bronzo — lega di rame e stagno fino a quel momento insuperabile — e segnato un passaggio di civiltà. Un elemento, il ferro, che assieme a ulivi e limoni, come vedremo, ci dirà molte cose sulle incisioni rupestri di questo ramo del lago di Garda che fa parte del Veneto e che nel tratto che va da Garda a Torri del Benaco, fino a Crero, conserva, in un’area di 40 chilometri quadrati, un patrimonio ancora pochissimo conosciuto di 6 mila raffigurazioni di epoche diverse: dalle armi dell’Età del Ferro alle croci di epoca romana, longobarda e del periodo delle Crociate, dai guerrieri della protostoria alle imbarcazioni e ai cavalieri di alcuni secoli fa.
I graffiti sono incisi su circa trecento rocce, all’aperto o in grotte o sotto ripari, che vengono chiamate «liscioni» perché sono state levigate dalla serie di glaciazioni dell’era Quaternaria (convenzionalmente ricompresa tra 2,5 milioni di anni fa e il V-IV millennio avanti Cristo), quando i ghiacciai delle Alpi erano arrivati a mangiarsi anche la pianura padana, prima di ritirarsi, «appena» 12 mila anni fa.
Il lago di Garda è davvero un’isola del Mediterraneo che sta sotto le Alpi. Ha un clima da Europa del Sud e le montagne di quella del Nord. Ci sono i pescatori, associati nella più antica corporazione ancora in vita, nata a metà del Quattrocento e sopravvissuta fino a oggi nonostante le ricorrenti crisi della pesca, e ci sono gli scalatori di cime innevate. Chi lo osserva almeno per un po’ e lo attraversa almeno una volta, capisce subito che il lago di Garda, il più grande d’Italia, è un incrocio in tutti i sensi. È strategico dal punto di vista viario, come appare chiaro dall’alto della Rocca di Garda (dal tedesco Warta , posto di guardia, guardare, da cui il nome del lago), da dove si poteva controllare anche la Valle dell’Adige. Ed è strategico anche dal punto di vista emozionale, perché ha sempre dato qualcosa a tutti coloro che sono venuti a trovarlo. Alla gente comune, che lo ha portato con sé attraverso l’immagine di una cartolina, ma anche a quei grandi scrittori che l’hanno conosciuto per le ragioni più diverse e poi hanno voluto raccontarlo. Franz Kafka e Thomas Mann, che agli inizi del Novecento trovarono qui la giusta cura idroterapica ai loro malanni, e prima ancora Friedrich Nietzsche, David H. Lawrence, Wolfgang Goethe, e ovviamente Gaio Valerio Catullo, che nel I secolo avanti Cristo a Sirmione fece costruire quella che è considerata la più bella dimora di ozio dell’Italia settentrionale, la Villa di Catullo. E infine, duemila anni dopo, André Gide, che viene a godersi il lago nel 1948, l’anno dopo aver vinto il premio Nobel, Maria Callas, che sposò l’italiano Giovanni Battista Meneghini e visse qui con lui per alcuni anni, e Gabriele d’Annunzio, anch’egli entusiasta del luogo al punto da farsi costruire — come Catullo, manco a dirlo, ma a Gardone Riviera — il «Vittoriale degli Italiani», che oggi è un museo.
Il Garda però, ecco la meraviglia, è Mediterraneo anche per le incisioni rupestri, molte delle quali sono pressoché identiche a quelle presenti nel santuario di San Michele a Monte Sant’Angelo, sul Gargano, alle pitture di Porto Badisco, vicino a Otranto, e ai graffiti della necropoli romana di via dei Cappuccini a Brindisi. Incisioni, ecco l’altra meraviglia, che hanno lo stesso significato sia sulle rive del lago sia sulle sponde del Basso Adriatico e del mare Jonio, come spiega Fabio Gaggia nel suo Graffiti sul Garda (edizioni del Centro studi per il territorio Benacense): «La croce, e in particolare quella greca a bracci uguali, fra tutte le incisioni rupestri del Garda è la figura più rappresentata. È un simbolo precristiano — sostiene Gaggia — diffusissimo durante il Neolitico nell’area mediterranea e in certi casi, come a Porto Badisco, ripetuto in maniera ossessiva. Così è anche per la figura umana, che nel periodo preistorico è quasi filiforme, con la testa che è un punto ingrossato, mentre con l’età storica si arricchisce di particolari anatomici, al punto che spesso è un solo particolare anatomico, un volto o soprattutto una mano, quest’ultima elemento importante dell’iconografia cristiana, a sintetizzare il ritratto dell’uomo, com’è avvenuto sul Garda e sul Gargano».
La scoperta di queste incisioni è il risultato della passione e quasi dell’ostinazione dell’archeologo Mario Pasotti, che nel 1964 intuisce che su questo versante del Garda dovevano esserci graffiti non meno importanti di quelli che aveva visto in Val Camonica, in Lombardia. La sua intuizione è presto premiata. Le incisioni cercate ci sono, e se non sono così numerose e «d’impatto» come quelle della Val Camonica, o come quelle delle Alpi Marittime sul confine italo-francese, sono di sicuro più varie e più complesse e, soprattutto, sono riconducibili alle altre che lungo tutto l’arco alpino raffigurano armi. E le armi, si sa, sono gli oggetti che meglio di ogni altro aiutano gli archeologi a datare i graffiti. Quale migliore «arsenale» allora delle oltre cento figure di asce, spade, daghe, pugnali, elmi, scudi, scoperto sui liscioni dei sentieri che costeggiano il lago, che è a 64 metri sul livello del mare, e che si infilano nel bosco di roverelle, carpini, frassini e lecci, fino ai 600 metri di altitudine, ai piedi dei monti Baldo e Luppia?
Pasotti aveva vinto la sua scommessa ma la sua avventura era appena cominciata. Coinvolge i suoi discepoli, tra i quali Fabio Gaggia, che ne raccoglierà l’eredità, e con loro comincia a esplorare, a rimuovere la terra che ricopre le rocce, a portare alla luce le incisioni, a classificarle. E fa tutto questo, prima che con gli occhi, con le mani. Poiché i graffiti non sono immediatamente visibili, deve prima cercarli con il tatto, come un cieco che per leggere utilizzi il metodo Braille, e poi bagnare la roccia, e infine riempire di gesso i solchi delle incisioni. I risultati sono sorprendenti, le immagini nitide, si capisce subito che non c’è bisogno di tagliare e asportare interi pezzi di roccia per mostrare al mondo i graffiti, come qualche folle avrebbe voluto fare e qualche «collezionista» ha già fatto, perché i calchi sono perfetti. E infatti, si possono ammirare nel museo del Castello Scaligero di Torri del Benaco, che molto deve alla cura e alla passione di Giorgio Vedovelli, un altro «esploratore» benemerito, autore di molti libri di storia locale e anche lui, come Gaggia, tra i fondatori del Centro studi per il territorio Benacense.
Ci son voluti più di vent’anni di studi e di ricerche per arrivare a una sistemazione scientifica dei graffiti scoperti. «È stato necessario — dice Vedovelli alla “Lettura” — ricorrere all’aiuto incrociato di archeologia, letteratura orale popolare e cultura ecclesiastica, anche per non incorrere nell’errore più comune, cioè quello di associare tout court graffiti e preistoria, quando invece le incisioni di epoca storica, come quelle del Garda, costituiscono capitoli molto importanti della nostra storia». Il vero «museo» però è quello all’aperto, sui sentieri dei liscioni, dove Gaggia e Vedovelli portano i ragazzini delle scuole medie, liberandoli dalla noiosa prigionia dei banchi e istruendoli nella tecnica del frottage (strofinamento) per eseguire i calchi dei graffiti. Bastano una spazzola, per ripulire la superficie della roccia, un foglio di carta bianca e un ciuffo di foglie di scotano ( rus cotini ) raccolte lungo il sentiero per scatenare l’interesse, l’entusiasmo e lo stupore dei ragazzi, che con questa tecnica semplice, ideata dall’archeologo Ausilio Priuli per le incisioni della Val Camonica, vedono comparire sotto i loro occhi le imbarcazioni e i guerrieri della «Roccia delle griselle» (la grisella è la scala di corda per arrampicarsi sull’albero delle barche che solcavano il lago), o i dodici soldati a cavallo della «Pietra dei cavalieri», e viaggiano, comprendendole a fondo, nella storia, nell’economia e nelle leggende della terra in cui vivono.
Quei liscioni sono la loro lavagna magnetica, che, più multimediale di un personal computer, li trasporta dall’Età del Ferro alle battaglie napoleoniche contro gli austriaci, e li avvicina a tutti quei popoli – Paleoveneti, Reti, Galli, Romani, barbari, fino alle signorie degli Scaligeri e dei Visconti e agli eserciti della Prima guerra mondiale — che non hanno esitato a lanciarsi in armi su questo lago e su questa parte d’Italia, sulla via del Brennero, snodo strategico tra le Alpi e la pianura padana.
A rendere preziose queste incisioni non è soltanto la loro antichità, ma il fatto che esse siano il racconto di storie, avvenimenti, usanze, che proprio perché di epoche diverse si possono leggere «sfogliando» le rocce come le pagine di un libro. Lo stupore dei ragazzi è anche il nostro, quando mettiamo le mani su queste rocce, cimentandoci con il frottage e ottenendone meraviglie. Ma è anche uno stupore di altra natura, più simile alla delusione, per non dire all’amarezza.
I cartelli che dovrebbero guidare i visitatori lungo il percorso delle incisioni rupestri sono rari e spesso vengono divelti. Molte rocce ricadono all’interno di aree appartenenti a privati, i quali, non avendo interesse a pubblicizzare molto i graffiti poiché convinti che il turismo del lago sia già fiorente, sbarrano l’accesso alle loro proprietà. Ma soprattutto, i liscioni sono abbandonati a se stessi e il tempo prima o poi ne cancellerà i disegni, tanto da far dire a Gaggia e Vedovelli che pur di non perderli, annegati, prima che nel lago, nel disinteresse delle istituzioni, sarebbe meglio ricoprirli di nuovo di terra.
Repubblica 18.10.15
Lenin, la passione per la bella Inessa
di Silvana Mazzocchi
Di questo amore non si deve sapere di Ritanna Armeni Ponte alle Grazie, pagg. 235, euro 16
Non è solo la storia di Inessa Armand, francese ma russa d’adozione, affascinante e contraddittoria, una borghese divenuta rivoluzionaria, moglie e anche amante, di un cognato e poi addirittura di Lenin.
Di questo amore non si deve sapere racconta anche il volto inedito del capo dei bolscevichi, capace di accettare i sentimenti e di piangere, nel 1920, per la morte dell’amata. Lenin aveva incontrato Inessa nel 1909; con lei aveva vissuto la passione, ma aveva cercato di piegarla alla sua politica. Senza riuscirci e sempre con sua moglie accanto. Questa storia era sepolta nel conformismo di regime. Armeni scandaglia archivi e fa rivivere, con abilità e rigore, una donna coraggiosa e moderna.
Repubblica 18.10.15
Stefano Rodotà
Se il diritto è incompatibile con l’amore
di Simonetta Fiori
Nel nostro paese si fa fatica ad approvare perfino le unioni civili tra coppie omosessuali: il conflitto politico di questi giorni ne è l’ennesima dimostrazione. Ma l’attuale impasse si può leggere anche come l’ultimo atto di una lunga storia che merita di essere riassunta in termini brutali: diritto e amore, in Italia, sembrano inconciliabili. Solo un giurista come Stefano Rodotà, lettore appassionato di Montaigne, da sempre sostenitore della pienezza del vivere contro il carattere intollerante della norma, poteva scrivere un libro come Diritto
d’amore : un’affascinante storia culturale che ripercorre il difficile rapporto tra giurisprudenza e sentimento. Una relazione tumultuosa che ha lasciato molte vittime (un tempo le donne, oggi gli omosessuali) e soprattutto tende a sacrificare il principio stesso dell’amore. Perfino i nostri padri fondatori – figure nobili come Calamandrei e Nitti – esitarono nel riconoscere «l’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi » perché in contrasto con la norma del codice civile che sanciva la superiorità del marito. Una gerarchia inaccettabile che da noi è sopravvissuta fino alla metà degli anni Settanta, quando intervenne la mano santa dei riformatori a ristabilire l’equità. Ma anche quel contributo fondamentale, pur avendo imboccato la giusta strada degli affetti, si fermò paralizzato davanti alla parola amore, che non viene mai pronunciata. «Fedeltà», «coabitazione», «collaborazione », ma mai «amore». E a restituire oggi la forza simbolica del sentimento a un’istituzione in crisi sembrano proprio le coppie omosessuali che invocano quel contratto essendone dolorosamente escluse (nonostante i richiami della carta europea dei diritti). Una lettura preziosa, Diritto d’amore, tra giurisprudenza e poesia, storia politica e storia sociale. In uscita da Laterza, a metà novembre.
Speriamo che Rodotà non debba mai finire nella galleria di Non li abbiamo ascoltati . Peggio per noi . Titolo azzeccatissimo per una nutrita pattuglia di intellettuali il cui allarme non è mai stato raccolto. Poeti, registi, scrittori, artisti, filosofi mai estranei alla politica, che poi significa cercare le risposte ai bisogni collettivi. Sul finire del Novecento, a dispetto della discontinuità, avevano già captato fenomeni e dissoluzioni oggi ampiamente compiuti. «Il sentimento di ineluttabilità», lo chiama Eugenio Garin, quella sorta di anestetico morale con cui si tende ad accettare tutto, in nome del realismo. E poi l’impoverimento culturale denunciato da Attilio Bertolucci, l’Italia smemorata di Mario Luzi, l’insipienza di un’Europa sempre più muta avvistata da Mario Monicelli. Hanno lo sguardo lungo Nuto Revelli, Carlo Tullio-Altan, Tonino Guerra, Ettore Scola, Giuseppe Pontiggia, Dino Risi e i tanti maîtres à penser intervistati nel corso di vent’anni da Eugenio Manca, giornalista dell ’Unità scomparso di recente. Un volume di Ediesse, curato da Carlo Ricchini e Sergio Sergi, ne propone a novembre trenta testimonianze che sembrano raccolte in questi giorni. Segno che qualcosa si poteva fare, se fossimo stati un po’ meno sordi. Peggio per noi.
Repubblica 18.10.15
Digitale o carta? Il futuro èil libro ibrido
di Stefania Parmeggiani
Ebook o carta? Alla Fiera di Francoforte è nato il “libro ibrido”. L’aula del futuro, sezione dedicata all’educazione e alle nuove tecnologie, ha presentato un libro di testo molto simile a quello tradizionale: carta con testo e immagini. Solo che basta avvicinare alle pagine uno smartphone per “attivare” una filigrana invisibile e quindi connettersi con altri contenuti, digitali e aggiornabili. Un ponte tra i vecchi libri e i nuovi strumenti didattici: gli insegnanti e gli studenti potranno lavorare insieme al materiale integrativo, aggiungere riflessioni e approfondimenti. Potranno costruire da sè il manuale che serve ai loro studi. Se il “libro ibrido” entrerà mai nello zaino degli studenti è tutto da vedere, ma la manager a cui si deve questa sezione, Martina Wolff de Carrasco, si è dichiarata soddisfatta di avere presentato ai visitatori della Fiera questa piccola rivoluzione: «Il nostro obiettivo è quello di mostrare che l’istruzione può essere innovativa e internazionale, e che gli editori possono trovare nuovi modi di fornire materiali per il futuro ». Lo scopo del “libro ibrido”, almeno per ora, è quello di fare discutere.
Repubblica 18.10.15
Perché i miti resistono al nostro tempo
Filosofie del mito nel Novecento
di Moreno Montanari
Incrocio e innesto di relazioni di potere e di sapere, (Agamben) oscuro ed evidente al tempo stesso, (Adorno e Horkheimer) mobilita credenze, valori, saperi, senso comune (Vernant) e costruisce identità personali e collettive (Mauss); è «una componente vitale della civiltà umana, una forza attiva e operante» (Malinowski) che «pensa negli uomini a loro insaputa » (Lévi-Strauss); costituisce un bisogno antropologico (De Martino) e, attraverso «una codifica culturale, si offre come la cornice di senso nella quale si canalizzano le energie psichiche degli uomini» (Sloterdijk); per Jung è indispensabile alla vita che altrimenti si ammala; nonostante Frazer lo considerasse “la filosofia” rozza e prelogica “dei primitivi”, il tentativo di confinarlo in un periodo storico ormai superato, non regge alla celebre massima di Salustio per il quale «non è mai esistito ma non cessa di accadere ». Stiamo parlando del mito, quella singolare forma di “razionalità aconcettuale” (Blumenberg), con la quale il nostro tempo, se vuole orientarsi, deve tornare a fare i conti. Per questo il libro curato da Giovanni Leghista ed Enrico Manera, Filosofie del mito nel Novecento fornisce un bagaglio ermeneutico capace di confrontarsi con questo fenomeno. Ma se rimuovere l’incidenza del mito è dannoso, non meno pericoloso è accoglierla letteralmente ed identificarsi con essa; per questo occorre esercitarsi a comprenderne e ripensarne costantemente il significato, partendo proprio dalle chiavi di lettura riproposte nel testo. Provare ad adottarle potrebbe farci scoprire che forse il nostro tempo non è, come si è creduto, privo di grandi narrazioni ma di persone che sappiano comprenderle e ripensarne il senso.
Filosofie del mito nel Novecento a cura di Giovanni Leghista e Enrico Manera Carocci, pagg.347, euro 28
Repubblica 18.10.15
Miró
Dentro l’universo del poeta dei colori
Joan Miró a Villa Manin. Soli di notte a Villa Manin, Passariano
di Chiara Gatti
Joan Miró a Villa Manin. Soli di notte a Villa Manin, Passariano, Codroipo (UD) fino al 3 aprile 2016. A cura di Elvira Cámara López. Musiche: Teho Teardo Mostra promossa dall’Azienda Speciale Villa Manin e dalla Regione Friuli Venezia Giulia, insieme alla Fundació Pilar i Joan Miró di Palma di Maiorca. Orari: da martedì a domenica 10-19. Biglietti: intero 12 euro; ridotto 10. Info: Azienda Speciale Villa Manin, tel. 0432821211; info@villamanin.it; www.villamanin.it
Una sola fotografia, scattata da Cartier-Bresson nel 1972, dice tutto su chi fosse Joan Miró. Chiuso nel silenzio del suo studio, fra barattoli di pennelli ordinatissimi e attrezzi da carpentiere appesi alle pareti come in un’officina meccanica, strizza fra le mani una scultura d’argilla e incide dettagli con precisione chirurgica. Un camice bianco incornicia il volto di un uomo tranquillo. Non ha nulla di bohémien. A settantanove anni Mirò è ancora l’artista introverso e metodico che neanche la Parigi di Montparnasse, di Modigliani e di Chagall, notturna e tragica, è riuscito a cambiare. Testa bassa, lavora con rigore. «Lavoro come un giardiniere» confessa in uno dei suoi scritti più famosi. «Il mio atelier è come un orto. Bisogna tagliare le foglie affinché crescano i frutti». Nella sua umida stanza francese, nel quartiere della Rouche, erano sbocciati i primi prati. Per dipingere “La fattoria”,capolavoro degli anni Venti, aveva osser
vato per ore un mazzetto di fili d’erba portato con sé dalla casa di famiglia a Montroig, in Catalogna. Adesso, nel luminoso studio di Maiorca, spunta riccioli di ceramica e irrora vegetazioni astratte. Sono passati decenni, ma il vecchio giardiniere ha ancora un orto da coltivare perché, scrive, «i quadri fecondano l’immaginazione». A raccontare questi ultimi trent’anni di solitudine, è la grande mostra Joan Miró. Soli di notte (catalogo Skira) alla Villa Manin di Passariano, vicino Udine, dove sono esposte duecentocinquanta opere, fra dipinti, sculture, disegni, stampe e schizzi concessi in prestito dalla Fundació Pilar i Joan Miró di Palma di Maiorca e dalle collezioni degli eredi; il tutto coronato da oggetti personali usciti dal suo atelier, statuette tribali e ceramiche maiorchine, fonte d’ispirazione inesauribile, oltre a una carrellata intensa di ritratti fotografici scattati, fra i tanti, da Cartier-Bresson, Mulas, Brassaï, List, Man Ray. I curatori Elvira Cámara López e Marco Minuz hanno scelto di indagare il periodo della maturità, per scoprire un altro Miró. Che non è il cubista sulle tracce di Cézanne o di Picasso. E neppure il surrealista amato da Breton, che ha sconfitto incubi, ansie ed erotismo opaco con gioia, humour e candore disarmante. Quando, con l’invasione nazista della Francia, è costretto a ritornare in Spagna, inizia infatti per lui una fase nuova, imprevista, della sua ricerca.
Nella stagione più tetra della storia d’Europa, mentre la crisi della pittura risuona ovunque come un boato, Miró crea l’universo fatato delle sue “costellazioni” oniriche, un cosmo immaginifico dove dimenticare i drammi del quotidiano, che si fa sempre più visionario fra gli anni Cinquanta e Sessanta. Nel 1956, dopo una parentesi a Barcellona, si trasferisce definitivamente a Palma di Maiorca, la terra de- gli antenati materni. Qui aveva conosciuto Pilar, diventata sua moglie nel 1929. Qui era riparato per sfuggire al conflitto. Isolato dal mondo, ora ascolta la musica di Varèse, Béla Bartók, Schoenberg, ricorda con nostalgia l’epoca trascorsa a disegnare scenografie per i balletti russi e rilegge le lettere gentili di Kandinskij, raffinato violoncellista, «arrivato alla musica per volare via lontano». Lui, per volare, stende carte gigantesche sul pavimento e ci gira intorno lanciando getti di colore come ha visto fare a Pollock, conosciuto durante il viaggio negli States alla fine della guerra. La mostra infila una sequenza ipnotica di inchiostri e dripping , in cui le macchie, le sgocciolature di inchiostro nero come la pece, sono ombre, stagni, sterpi, selve oscure.
Occhi sbarrati nel buio fanno pensare a uccelli rapaci, civette dalla voce malinconica. Le notti stellate del Mediterraneo, notti di luna piena, luminosa come il sole (si spiega il titolo della mostra), nutrono decine di disegni degli anni Settanta, nei quali si mescolano ricordi del suo cuore catalano: i cocci di maiolica seminati da Gaudí al Parc Güell, le statuette folcloristiche delle Baleari, le antiche pulegge corrose del Museo marittimo di Barcellona che, con i lori buchi per le sartie, sembravano volti primitivi, totem da issare per riti ancestrali.
Tutto ritorna nei suoi personaggi teneri e grotteschi, grandi come una caffettiera. Volti di donna e orologi a vento hanno la stessa grazia; Miró impasta ninnoli trovati sulla spiaggia con la terra cruda, li fonde nel bronzo e li lascia fuori, all’acqua e al vento, perché assorbano la patina del tempo e un’aria di eternità. Altre costellazioni, altri uccelli lunari crescono nel suo studio sul mare dalla piccola dimensione a quella monumentale degli interventi pubblici, dal Labirinto Miró per la Fondazione Maeght di Saint Paul de Vence ai murales e le sculture per le piazze di mezzo mondo. Pagine di taccuini strappati narrano la genesi di ogni progetto, esposti accanto ai frutti del suo amore assoluto: le litografie passate sotto i torchi del leggendario laboratorio di Mourlot. Ricordiamo che nel 1954 Miró aveva conquista il Gran Premio per l’incisione alla Biennale di Venezia. In una foto splendida, “rubata” da Herbert List nella stamperia parigina, l’artista accarezza i fogli bagnati insieme a Joan Prats.
Il collezionista, il mecenate, l’amico di sempre, che dopo una vita insieme, a pochi mesi dalla scomparsa di Miró, la notte di Natale del 1983, ancora si stupisce della sua capacità di trasformare in arte tutto ciò che tocca. «Quando io raccolgo un sasso, è un sasso – dice – quando lo raccoglie Miró è un Miró».
Repubblica 18.10.15
Spiando il maestro all’opera nel suo studio
di Franco Marcoaldi
Nel percorso espositivo viene ricostruito parte dell’atelier del pittore negli anni di Maiorca
Qualche anno fa uscì un bel libro di Michael Peppiatt sullo studio parigino di Alberto Giacometti. «Tra quelle quattro mura», sosteneva il critico, «erano visibili tutte le diverse tracce della battaglia intrapresa dall’artista nel corso di quarant’anni di indefesso lavoro per esprimere una peculiare visione dell’uomo».
Insomma, niente di meglio del famoso “buco” di rue Hyppolite, per capire l’amore di Giacometti per l’ombra, oltre che per una vita povera, spoglia, monacale. Quello studio grigio e polveroso, in un edificio dall’aspetto derelitto, «era allo stesso tempo teatro e archivio, scenario di sublimi realizzazioni e, cosa forse ancor più interessante, deposito di ripetute sconfitte ». Ecco perché la sua visione, e la sua accurata descrizione, rappresentano – secondo Peppiatt – il modo migliore per affrontare il labirinto Giacometti.
A pensarci bene, non accade lo stesso con tutti gli artisti? Il loro studio-antro, o stanza dei giochi e degli incubi, o Wunderkammer, che si trasforma in personalissima fabbrica d’arte, non è forse lo specchio più fedele della loro anima? Ci sarà una ragione se la “familiarità” degli oggetti raffigurati da Giorgio Morandi si andava accumulando nel contesto altrettanto familiare della sua casa bolognese, dove l’artista viveva con madre e sorelle. Per contro: il caos assoluto dello studio londinese di Francis Bacon, con fotografie e tele stracciate e calpestate, abbandonate a terra al loro destino, non rimanda in qualche modo alle disiecta membra dei corpi martoriati che compaiono sulle sue Bacon lavorava nel caos assoluto Giacometti tra polvere e oscurità
tele? E l’immagine del radioso studio di Calder a Parigi, non rivela immediatamente qualcosa della sua specialissima arte – così aerea, gioiosa, circense?
Per non parlare poi di tutti gli innumerevoli casi in cui lo studio, l’atelier, diventa esso stesso soggetto dell’opera. A partire dal misterioso quadro di Courbet, La bottega del pittore , affollato delle persone più diverse («è il mondo che viene a farsi dipingere da me»), per arrivare al nostro Gianfranco Ferroni, dove l’umano invece è ormai scomparso e sulla moquette del proprio spazio di lavoro rimangono soltanto cicche di sigaretta, fili della luce strappati, bottiglie rovesciate.
La questione del rapporto studio-artista, con la ricostruzione dello spazio creativo, si ripropone ora nella mostra di Villa Manin dedicata all’ultima fase di Miró, quella del suo trasferimento a Maiorca. Finalmente il sogno di un grande ambiente suo e solo suo sta per realizzarsi. La moglie di Miró – si legge nel catalogo – convince l’amico e architetto Josep Lluís Sert a disegnare un edificio che combini i tratti della nuova architettura razionalista con il gusto mediterraneo. La luce naturale viene sfruttata al massimo grazie a “lucernari zenitali”, in ambienti che dialogano costantemente con il territorio circostante. Stilemi tradizionali si alternano all’uso del calcestruzzo a vista. E, non pago di questo spazio tanto grande e luminoso, nel 1959 Miró acquista anche una costruzione maiorchina a poche centinaia di metri dalla precedente, dove poter «creare tele e sculture monumentali oltre che per decongestionare lo studio».
A suo tempo, Leonardo da Vinci aveva sostenuto che lo studio dell’artista «dovrebbe essere piccolo, perché gli spazi piccoli favoriscono la concentrazione mentale, mentre quelli grandi spingono alla distrazione ». Miró, evidentemente, non la pensava allo stesso modo.
Il Sole Domenica 18.10.15
Sesso e gender senza pregiudizi
Da «maschio e femmina» si è passati a un genere variabile in base alle scelte della libertà individuale. Su questo complesso orizzonte è intervenuta, raccogliendo la sfida, anche la Chiesa cattolica
di Gianfranco Ravasi s.j.
Chi non ricorda le due caselle con M e F dei vecchi documenti pubblici del passato? Il governo australiano ora di caselle ne propone ben 23 e Facebook Usa invita a scegliere il proprio “genere” tra 56 opzioni differenti! Altro che il codificato Lgbt già allargato al Lgbtq, con l’apparizione anche del queer dal genere variabile e indefinibile. La questione del gender, come si usa ormai classificarlo, è divenuta una sorta di vessillo impugnato da fronti opposti, un vessillo piuttosto sbrindellato, dai colori “arcobaleno” (con tutte le semantiche metaforiche che si assegnano a questo delizioso fenomeno di rifrazione solare).
Il termine-nebulosa gender sboccia dalla tensione tra due concezioni antropologiche antitetiche. Da un lato, è insediato l’“essenzialismo” naturale, convinto della struttura duale di base dell’essere umano a livello biologico e psicologico: in sede teologica si basa sull’antropologia biblica secondo la quale l’“immagine” di Dio nell’umanità è nel suo essere «maschio e femmina» e, quindi, nella capacità generativa che continua l’opera del Creatore (Genesi 1,27). D’altro lato, si è presentato il “costruzionismo” socio-culturale, convinto che le differenze di genere siano frutto di un’elaborazione della comunità sociale e culturale, secondo il celebre motto femminista primordiale del Secondo sesso (1949) di Simone de Beauvoir: «Donna non si nasce, ma si diventa». In realtà su questa bipolarità essenzialista-costruttivista è passata una bufera che ha rimescolato le carte.
Infatti il “genere” essenziale maschile e femminile, superato dal gender costruzionista che si congedava dal sesso biologico per aprirsi a una configurazione molteplice, ha visto l’entrata in scena della “decostruzione” formulata da Derrida e trasferita anche nella sede specifica del “genere” e del gender, con lo scompiglio di cui è emblema appunto il queer con la sua “plasticità” incontrollabile (si legga, al riguardo, la programmatica Disfatta del genere, proposta dalla statunitense Judith Butler nel suo saggio tradotto da Meltemi nel 2006). Come è evidente, da un tema di base abbastanza netto ci si è allargati a una visione molto ramificata e dispersa.
In tal modo, invece di un “genere” univocamente fissato si è passati a un gender variabile in base alle scelte mutevoli della libertà individuale. Si è, così, assistito al passaggio dalla famiglia “bicolore” a quella “arcobaleno” con le relative denominazioni “genitore 1 o 2”; si è creata una dissociazione tra la genitorialità affettiva e l’effettiva generazione del bambino, introducendo poi quella che Connel, prima Robert maschio, divenuto poi Raewyn donna transessuale, ha definito come l’“arena riproduttiva” nelle sue Questioni di genere, tradotte dal Mulino nel 2011. La massa intricata delle questioni si è affacciata anche nell’areopago della politica, soprattutto con le quattro Conferenze mondiali delle donne, promosse dall’Onu tra il 1975 e il 1995, in particolare con la quarta tenutasi a Pechino, dagli effetti piuttosto dirompenti. Progressivamente si è fatta strada, oltre l’indiscutibile necessità del riconoscimento della piena parità di diritti tra donne e uomini, una ben più variegata serie di istanze legislative: dalla registrazione anagrafica sotto sesso neutro o multiplo o alternativo rispetto alla dualità tradizionale M-F all’abolizione della terminologia di paternità e maternità sostituita da quella genitoriale neutra, dall’accesso al matrimonio in qualsiasi combinazione fino all’adozione da parte delle unioni omosessuali e così via.
In questo complesso orizzonte – che ha indubbiamente posto sul tappeto l’importanza di considerare natura e cultura come un binomio da integrare – è intervenuta raccogliendo la sfida anche la Chiesa cattolica, innanzitutto a livello “politico-diplomatico” durante le citate Conferenze mondiali, ribadendo che «uguaglianza non significa necessariamente identità (sameness) e differenza non è inequality». Ma lo ha fatto soprattutto in ambito antropologico-teologico attraverso i documenti della Congregazione vaticana della Dottrina della Fede e gli interventi magisteriali papali di Benedetto XVI ai quali si devono aggiungere quelli espliciti recenti di papa Francesco. Per far conoscere questa prospettiva ermeneutica specifica un teologo morale milanese, Aristide Fumagalli, ha elaborato una sintesi puntuale e nitida, affidata ad alcune coordinate che risulteranno utili per qualsiasi lettore credente, diversamente credente o non credente.
Infatti, due capitoli, fotografando la galassia socio-culturale che si è creata attorno al gender, illustrano sia l’evoluzione che si è verificata in questi decenni nel dibattito pubblico, popolare e filosofico, sia la relativa incidenza politico-giuridica. Altri due capitoli delineano, invece, la posizione della Chiesa cattolica nei suoi pronunciamenti magisteriali, registrando anche le diversità di approccio in sede teologica, e propongono in finale un progetto antropologico conclusivo. Le tendenze ecclesiali oscillano tra due impostazioni. Da un lato, si configura un rifiuto radicale e fortemente critico soprattutto delle teorizzazioni ideologiche riguardo al gender, considerate come una «strategia abilmente orchestrata tramite la manipolazione del linguaggio e la forte pressione di potenti lobbies negli organismi politici internazionali», destinate a camuffare un’antropologia “s-corporata”, affidata all’assoluta libertà individuale e tesa a screditare sessualità, matrimonio e famiglia nella loro tipologia strutturale classica.
D’altro lato, c’è però anche il tentativo di vagliare criticamente la prospettiva di genere così da produrre una più compiuta versione antropologica che, «lungi dal dissociare e screditare il sesso biologico rispetto al genere socio-culturale, riconosca il corpo sessuato nella duplice forma maschile e femminile come elemento-base sul quale si innesta e si sviluppa l’identità soggettiva, inevitabilmente connotata in senso sociale, culturale e politico». In questa linea va la proposta finale del teologo milanese (che aggiunge anche una “coordinata biblica” un po’ posticcia). Egli, infatti, afferma la necessità di un’interpretazione e di un’interazione delle «dimensioni costituite dell’essere umano, vale a dire la natura corporea, il sentimento psichico, la relazione interpersonale, la cultura sociale e, last but not least, la libertà personale».
Si approda, allora, a una reciprocità interpersonale simultanea ma anche asimmetrica che viene espressa simbolicamente attraverso lo sguardo: «Chi guarda può vedere l’altro ma non guardarsi, eppure può vedersi nello sguardo dell’altro». Fuor di metafora, nella dialettica del riconoscimento, la piena «identità maschile è acquisita all’uomo nell’incontro con la donna e, viceversa, l’identità femminile è acquisita alla donna nel suo incontro con l’uomo... L’uomo e la donna non si riconoscono come tali in proprio, ma l’uno attraverso l’altro». Tra l’altro, dobbiamo segnalare che la citata Judith Butler nel suo saggio più recente Fare e disfare il genere (Mimesis 2014) ha rettificato il tiro della sua tesi sulla “disfatta del genere” introducendo una riflessione significativa: «Il sesso biologico esiste, eccome! Non è né una finzione, né una menzogna, né un’illusione... La sua definizione, però, necessita di un linguaggio e di un quadro di comprensione... Noi non intratteniamo mai una relazione immediata, trasparente, innegabile con il sesso biologico. Ci appelliamo invece sempre a determinati ordini discorsivi. Ed è questo che mi interessa».
Aristide Fumagalli, La questione gender. Una sfida antropologica , Queriniana, Brescia, pagg. 108, € 9
Giulia Galeotti, Gender. Genere , Viverein, Roma 2010, pagg. 101, € 5
Pier Davide Guenzi, Sesso/Genere. Oltre l’alternativa , Cittadella, Assisi (PG) 2011, pagg. 128, € 9,80
Marguerite Peeters, Il gender. Una questione politica e culturale , San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2014, pagg. 160, € 17,50
Il Sole Domenica 18.10.15
Virtù e conoscenza
Non possiamo non dirci socratici
di Armando Massarenti
Che ne siamo consapevoli o meno, nella vita moderna, siamo tutti, chi più e chi meno, seguaci di Socrate. La conoscenza viene prima della morale, o perlomeno non può non influenzarla. Altrimenti ci facciamo del male. Questa era l’idea del grande filosofo greco e la ricerca empirica nel campo della psicologia morale gli sta dando ragione. Oggi che la conoscenza si esprime per lo più attraverso la scienza (quella scienza cui dobbiamo la possibilità di vivere meglio di quanto sia mai successo in precedenza all’umanità) è proprio con questa che dobbiamo spesso fare i conti, anche nelle nostre convinzioni morali. Lungi dal fornirci rassicuranti certezze la scienza però ha spesso la funzione opposta: scompiglia le carte e mette in dubbio le nostre convinzioni più radicate.
La questione del sesso e del genere ci fornisce lo spunto per un esercizio che permette di capire quanto, dal punto di vista morale, siamo davvero “socratici”. Ci possono aiutare due libri della filosofa Vera Tripodi, editi da Carocci: il recentissimo F ilosofie di genere e il precedente Filosofia della sessualità.
L’idea che i sessi in natura siano solo due e che si può nascere o maschio o femmina è fortemente radicata nella nostra cultura, anche scientifica. Così, quando un caso di intersessualità si presenta alla nascita, il sesso viene assegnato sottoponendo il neonato a interventi chirurgici per “normalizzare” i genitali e in seguito a trattamenti ormonali. Secondo il protocollo sanitario attuale, per esempio, i genitali devono essere omologati a quelli maschili o femminili. È giusto che sia così? In un articolo pubblicato nel 1993, The Five Sexes: Male and Female are not Enough, Anne Fausto-Sterling, biologa, suggeriva su basi scientifiche di aggiungere tre sessi a quelli noti, popolando il genere umano di tre varianti dell’ermafroditismo. La stessa scienziata ci avvertiva che siamo noi ad attribuire un primato ai genitali nell’assegnazione del sesso: in natura ci sono delle differenze tra questi sessi dal punto di vista anatomico e biologico, ma ciò non ci obbliga a definire il genere su quella base. Eppure noi continuiamo a usare quella definizione nel nostro quotidiano, e a regolarci sulla base di quel “pregiudizio”.
Ma se le cose stanno come dice la scienza, non dovremmo forse avere qualche riserva morale in più su chi interviene chirurgicamente sui genitali di un bambino per deciderne il sesso? Non dovremmo cioè, socraticamente, mutare la nostra morale fondandola sulla nuova conoscenza, orientandoci ad esempio verso i valori della tolleranza, cioè dell’accettazione di una naturale variabilità anche delle caratteristiche biologiche della sessualità umana?
La conoscenza non può non incidere sull’etica. Altrimenti negheremmo che il valore più importante, nella nostra vita terrena, è la verità. Dunque i casi sono due: o i valori si piegano alla verità, o la verità si piega ai valori. Delle due, la seconda si è sempre rivelata la soluzione più violenta.
Il Sole Domenica 18.10.15
Non c’è una formula per fare un best-seller
«Einstein, la scoperta più bella». È la prima delle 7 brevi lezioni. È la bellezza della fisica, che non ha nulla da invidiare a quella dell’arte, della musica e della letteratura
di Carlo Rovelli
Da ragazzo, Albert Einstein ha trascorso quasi un anno a bighellonare oziosamente. Era a Pavia, dove aveva raggiunto la famiglia, dopo avere abbandonato gli studi in Germania. Se non si perde tempo non si arriva da nessuna parte, fatto che spesso dimenticano i genitori degli adolescenti. Era l’inizio della rivoluzione industriale, e il padre, ingegnere, installava le prime centrali elettriche in Italia. Poi Albert si era iscritto all’Università di Zurigo e si era immerso nella fisica. Pochi anni dopo, nel 1905, aveva spedito tre articoli in un’unica busta alla principale rivista scientifica del tempo, gli «Annalen der Physik». Ciascuno dei tre valeva un Nobel. Il primo mostrava che gli atomi esistono davvero. Il secondo apriva la porta alla Meccanica dei Quanti, di cui spero di dire qualcosa in futuro su questa pagina. Il terzo presentava la Teoria della Relatività (oggi chiamata «relatività ristretta»), che chiarisce che il tempo non passa eguale per tutti: due gemelli si ritrovano di età diversa, se uno dei due ha viaggiato velocemente. Einstein diventa un fisico rinomato e riceve offerte di lavoro da diverse università. Ma qualcosa lo turba: la sua Teoria della Relatività non quadra con quanto sappiamo sulla gravità. Se ne accorge scrivendo un articolo di rassegna sulla nuova teoria, e si chiede se la vetusta e paludata «gravitazione universale» del grande padre Newton non debba essere riveduta anch’essa, per renderla compatibile con la nuova relatività. S’immerge nel problema. Ci vorranno dieci anni per risolverlo. Dieci anni di studi pazzi, tentativi, errori, confusione, idee folgoranti, idee sbagliate. Finalmente, nel novembre del 1915, manda alle stampe un articolo con la soluzione completa: una nuova teoria della gravità, cui dà nome «Teoria della Relatività Generale», il suo capolavoro. La «più bella delle teorie» l’ha chiamata il grande fisico russo Lev Landau.
Ci sono capolavori assoluti che ci emozionano intensamente, il Requiem di Mozart, l’Odissea, la Cappella Sistina, Re Lear... Coglierne lo splendore può richiedere un percorso di apprendistato. Ma il premio è la pura bellezza. E non solo: anche l’aprirsi ai nostri occhi di uno sguardo nuovo sul mondo. La Relatività Generale, il gioiello di Albert Einstein, è uno di questi.
Ricordo l’emozione quando cominciai a capirne qualcosa. Era estate. Ero su una spiaggia della Calabria, a Condofuri, immerso nel sole della grecità mediterranea, al tempo dell’ultimo anno di università. Studiavo su un libro un po’ rosicchiato dai topi, perché l’avevo usato per chiudere le tane di queste bestiole, di notte, nella casa un po’ malandata sulla collina umbra, dove andavo a rifugiarmi dalla noia delle lezioni universitarie di Bologna. Ogni tanto alzavo gli occhi dal libro per guardare lo scintillio del mare: mi sembrava di vedere l’incurvarsi dello spazio e del tempo immaginati da Einstein. Era come una magia: come se un amico mi sussurrasse all’orecchio una straordinaria verità nascosta, e d’un tratto scostasse un velo dalla realtà, per svelarne un ordine più semplice e profondo. Da quando abbiamo imparato che la Terra è rotonda e gira come una trottola pazza, abbiamo capito che la realtà non è come ci appare: ogni volta che ne intravediamo un pezzo nuovo è un’emozione. Un altro velo che cade. Ma il salto compiuto da Einstein è un salto forse senza eguale.
Perché? Per prima cosa, perché una volta capito come funziona, la teoria è di una semplicità mozzafiato. Provo a riassumerne l’idea. Newton aveva cercato di spiegare perché le cose cadono e i pianeti girano. Aveva immaginato una «forza» che tira tutti i corpi l’uno verso l’altro: l’aveva chiamata «forza di gravità». Come facesse questa forza a tirare le cose da lontano, senza che ci fosse niente in mezzo, non era dato sapere. Newton aveva anche immaginato che i corpi si muovessero nello spazio, e lo spazio fosse un grande contenitore vuoto, uno scatolone rigido per l’Universo. Un’immensa scaffalatura nella quale corrono diritti gli oggetti, fino a che una forza non li faccia curvare. Di cosa fosse fatto questo «spazio» contenitore del mondo, neppure era dato sapere. Ma pochi anni prima della nascita di Albert, due grandi fisici britannici, Faraday e Maxwell, avevano aggiunto un ingrediente nuovo al freddo mondo di Newton: il campo elettromagnetico. Il campo è un’entità reale diffusa, che porta le onde radio, riempie lo spazio, può vibrare e ondulare come la superficie di un lago, e “porta in giro” la forza elettrica. Einstein, affascinato fin da ragazzo dal campo elettromagnetico, che faceva girare i rotori delle centrali elettriche che costruiva papà, capisce che anche la gravità, come l’elettricità, deve essere portata da un campo: ci deve essere un «campo gravitazionale»; e cerca di capire come possa essere fatto e quali equazioni lo possano descrivere.
E qui arriva l’idea straordinaria, il puro genio: il campo gravitazionale non è diffuso nello spazio, il campo gravitazionale è lo spazio. Lo «spazio» di Newton, nel quale si muovono le cose, e il «campo gravitazionale», che porta la forza di gravità, sono la stessa cosa. È una folgorazione. Una semplificazione impressionante del mondo: lo spazio non è più qualcosa di diverso dalla materia; è una delle componenti «materiali» del mondo. Un’entità che ondula, si flette, si incurva, si storce. Non siamo contenuti in una invisibile scaffalatura rigida: siamo immersi in un gigantesco mollusco flessibile. Il Sole piega lo spazio intorno a sé e la Terra non gli gira intorno perché è tirata da una misteriosa forza, ma perché sta correndo diritta in uno spazio che si inclina. Come una pallina che rotoli in un imbuto: non ci sono forze misteriose generate dal centro dell’imbuto, è la natura curva delle pareti a fare ruotare la pallina. I pianeti girano intorno al Sole e le cose cadono perché lo spazio si incurva.
Come descrivere questo incurvarsi dello spazio? Il più grande matematico dell’Ottocento, Carl Friedrich Gauss, «principe dei matematici», aveva scritto la matematica per descrivere le superfici curve bidimensionali, come la superficie delle colline. Poi aveva chiesto a un suo bravo studente di generalizzare il tutto a spazi curvi di dimensione tre o più. Lo studente, Bernhard Riemann, aveva prodotto una ponderosa tesi di dottorato, di quelle che sembrano completamente inutili. Il risultato era che le proprietà di uno spazio curvo sono catturate da un certo oggetto matematico, che oggi chiamiamo la curvatura di Riemann e indichiamo con R. Einstein scrive un’equazione che dice che R è proporzionale all’energia della materia. Cioè: lo spazio si incurva là dove ci sia materia. È tutto. L’equazione sta in una mezza riga, non c’è altro. Una visione e un’equazione.
Ma dentro quest’equazione, c’è un universo rutilante. E qui si apre la ricchezza magica di questa teoria. Una successione fantasmagorica di predizioni che sembrano i deliri di un pazzo, e invece sono state tutte verificate dall’esperienza. L’equazione descrive come si curva lo spazio intorno a una stella. A causa di questa curvatura, la luce devia. Einstein predice che il Sole devii la luce. Nel 1919 viene compiuta la misura, e risulta essere vero. Non è solo lo spazio a incurvarsi, ma anche il tempo; ed Einstein predice che il tempo passi più veloce in alto e più lento in basso, vicino alla Terra. Si misura, e risulta essere vero. Di poco, ma il gemello che ha vissuto al mare ritrova il gemello che ha vissuto in montagna un poco più vecchio di lui. È solo l’inizio. Quando una grande stella ha bruciato tutto l’idrogeno, si spegne e quanto resta viene schiacciato sotto il proprio stesso peso, fino a curvare lo spazio così fortemente da sprofondare dentro un vero e proprio buco. Sono i famosi buchi neri. Quando studiavo all’università, erano poco credibili predizioni di una teoria esoterica. Oggi sono osservati nel cielo a centinaia. Ma non basta. Lo spazio intero può distendersi e dilatarsi; anzi, l’equazione indica che non può stare fermo, deve essere in espansione. Nel 1930, l’espansione dell’Universo viene effettivamente osservata. E la stessa equazione predice che l’espansione debba essere nata dall’esplosione di un giovane universo piccolissimo e caldissimo: è il Big Bang. Ancora una volta, nessuno ci crede, ma le prove si accumulano, fino a che nel cielo viene osservata la radiazione cosmica di fondo: il bagliore diffuso che rimane dal calore dell’esplosione iniziale. E ancora, la teoria predice che lo spazio si increspi come la superficie del mare, e gli effetti di queste «onde gravitazionali» sono osservati nel cielo sulle stelle binarie, e combaciano con le previsioni della teoria con la sbalorditiva precisione di una parte su cento miliardi. E così via.
Insomma, la teoria descrive un mondo colorato e stupefacente, dove esplodono universi, lo spazio sprofonda in buchi senza uscita, il tempo rallenta abbassandosi su un pianeta, e le sconfinate distese di spazio interstellare si increspano come la superficie del mare... e tutto questo, che emergeva pian piano dal mio libro rosicchiato dai topi, non era una favola raccontata da un idiota in un accesso di furore, o l’effetto del sole della Calabria, un’allucinazione sul baluginare del mare. Era realtà. O meglio, uno sguardo verso la realtà, un po’ meno velato di quello della nostra offuscata banalità quotidiana. Una realtà che sembra anch’essa fatta della materia di cui son fatti i sogni, ma pur tuttavia più reale del nostro annebbiato sogno quotidiano. E tutto questo, il risultato di un’intuizione elementare: lo spazio e il campo sono la stessa cosa. E di un’equazione semplice, che non resisto a ricopiare qui, anche se il lettore non potrà certo decifrarla, ma vorrei che almeno ne vedesse la semplicità: Rab - ½ R gab = Tab . Tutto qui.
Certo, ci vuole un percorso di apprendistato per digerire la matematica di Riemann e impadronirsi della tecnica per leggere quest’equazione. Ci vuole un po’ d’impegno e fatica. Ma meno di quelli necessari per arrivare a sentire la rarefatta bellezza di uno degli ultimi quartetti di Beethoven.
Il Sole Domenica 18.10.15
Le tre regole della buona divulgazione
Entusiasmare, chiarire, portare lontano
di Luciano Maiani
Sette brevi lezioni di fisica, di Carlo Rovelli è il libro che ognuno di noi avrebbe voluto scrivere. Entrare in una libreria a caso e vedere il libro esposto in prima linea, tra le novità della settimana, ha suscitato in me un misto di entusiasmo e di invidia.
Comunicare le idee e le scoperte che animano il nostro lavoro è il desiderio reale di noi che dedichiamo alla scienza la nostra vita, per vedere riflesso negli altri lo stupore e l’entusiasmo che avevano suscitato in noi quando le abbiamo apprese per la prima volta. Ahimè, il più delle volte lo scopo fallisce, i nostri argomenti si fanno complicati (anche per la preoccupazione del: che diranno i colleghi?) e l’attenzione del lettore si volge ad altro.
Una trappola che Rovelli evita accuratamente, è voler trasformare il lettore in un novello matematico (o fisico o chimico), suggerendo tracce di ragionamenti che dovrebbero fargli ricostruire, partendo da zero, i nostri bellissimi risultati. Che so, la formula di Bohr per l’atomo di idrogeno o la legge di Keplero. Qui già Hawking ci aveva messo in guardia, dicendoci che l’unica formula da usare è E=mc², incomprensibile ai più ma tanto famosa da non suscitare la caduta immediata dell’attenzione del lettore. Innovando su questo, Rovelli lancia un’altra formula di Einstein: Rab -1/2 R gab =Tab , meno famosa e altrettanto incomprensibile, ma è alla fine del capitolo e non fa danno.
Però, proprio qui forse sta il segreto. I libri (o articoli, o lezioni) che molti di noi fanno (o, almeno, che io faccio) sono volti a creare dei proseliti. A suscitare nel giovinetto o nella giovinetta il desiderio di intraprendere la strada che, da giovane, mi fu indicata dai libri di divulgazione del passato (primo fra tutti il libro di Einstein e Infeld, edito da Einaudi, Dio lo benedica, che sta ancora nella mia libreria). È qui che serve (forse) far vedere la forza del pensiero che trasforma le idee in formule concrete da applicare poi al mondo intorno a noi.
Rovelli non cade neanche in questa trappola. Il suo libro è rivolto al lettore colto che vuole farsi un’idea di quello che succede nella scienza. Proprio come noi, scienziati, vogliamo ogni tanto curiosare nella storia o nella filosofia, senza perderci nei dettagli della ragion pratica o del De Bello Gallico.
Regola aurea di ogni seminario (ma vale anche per i libri) è di essere entusiasmanti all’inizio, chiari nel seguito, e di sentirci autorizzati, alla fine, a parlare di cose che neanche noi forse capiamo a fondo. Rovelli segue questa regola e coglie pienamente nel segno. Complimenti.
Il Sole Domenica 18.10.15
Genova, il Festival della scienza 2015
La giusta percezione del rischio
di Jared Diamond
L’altra mattina sono uscito indenne da una situazione alquanto pericolosa. No, nessun ladro armato si è intrufolato in casa, né mi sono trovato faccia a faccia con un puma durante una passeggiata di bird-watching. Ciò a cui sono sopravvissuto è la mia doccia quotidiana. Sapete, le cadute sono una causa di morte comune per le persone anziane come me (ho 75 anni). Fra i miei amici e quelli di mia moglie, nostri coetanei, per cadute sui marciapiedi uno è rimasto invalido a vita, un altro si è rotto una spalla e un altro ancora una gamba. Un amico è ruzzolato giù dalle scale e un altro potrebbe non sopravvivere ad una recente caduta. «Ma dai!» potreste esclamare. «Quante probabilità ho di cadere nella doccia? Una su mille?». La mia risposta è: forse, ma non è neanche lontanamente una buona casistica. L’aspettativa di vita per un americano della mia età, in buona salute, è di circa 90 anni (da non confondere con l’aspettativa di vita di un americano alla nascita, che è solo di 78 anni). Se davvero raggiungerò la mia quota statistica di altri 15 anni di vita, significa che mi aspettano circa 365 per 15, ovvero 5.475 docce giornaliere. E se non mi importasse che il rischio di scivolare nella doccia ogni volta sia di una probabilità su 1000, morirei o diventerei invalido circa cinque volte prima di raggiungere la mia aspettativa di vita. Devo quindi ridurre il rischio di incidenti nella doccia a molto, molto meno di uno su 5.475. Questo calcolo mette in pratica la lezione più importante che ho imparato in cinquant’anni di lavoro sul campo nell’isola della Nuova Guinea: la crucialità di essere vigili nei confronti di quei pericoli che sono a basso rischio ogni singola volta ma che si ripetono frequentemente. Ho scoperto questo atteggiamento di fronte ai rischi da parte degli abitanti dell’isola durante un’escursione nella foresta, quando mi proposi di piantare le tende sotto un albero bellissimo e molto alto. Con mia sorpresa, gli amici guineani si rifiutarono categoricamente, spiegando che l’albero era morto e avrebbe potuto caderci addosso. Sì, dovetti convenire che era effettivamente morto, ma obiettai che era così solido da poter restare in piedi per molti anni ancora. I guineani non si persuasero affatto e preferirono dormire all’aperto senza tenda. Pensai che le loro paure fossero davvero esagerate, tendenti alla paranoia. Negli anni successivi, però, mi sono reso conto che ogni notte che mi accampavo nella foresta della Nuova Guinea sentivo crollare un albero. E quando feci un rapido calcolo della frequenza del rischio, capii il loro punto di vista.
Pensateci: se siete un guineano che vive nella foresta e prendete la cattiva abitudine di dormire sotto agli alberi, le probabilità che ve ne precipiti addosso uno in una notte in particolare sono solo uno su 1000 eppure morireste entro pochi anni. In effetti, mia moglie è stata quasi uccisa dalla caduta di un albero l’anno scorso e io sono scampato a diverse situazioni analogamente fatali in Nuova Guinea. Ora, quindi, considero l’atteggiamento iper-vigile dei guineani verso i tanti e ripetuti piccoli rischi come una «paranoia costruttiva»: una paranoia apparente che in realtà è assai razionale. Avendola adottata anch’io, adesso esaspera molti dei miei amici americani ed europei. Tre di loro tuttavia, che hanno a che fare in prima persona con paranoie costruttive – un pilota di piccoli aerei, una guida sulle rapide e un poliziotto londinese che pattuglia le strade disarmato – hanno appreso quell’atteggiamento come ho fatto io, cioè assistendo alla morte di persone indifferenti a quei rischi. I guineani tradizionali devono tenere molto in considerazione i pericoli perché non hanno dottori, poliziotti o pattuglie del 911 che possano salvarli. Di contro, il pensiero degli americani sul pericolo è assai confuso: siamo ossessionati dalle cose sbagliate e perdiamo di vista i rischi reali.
Alcuni studi hanno confrontato la scala di pericolo percepita dagli americani con quella dei pericoli effettivi, misurati o attraverso esempi di incidenti realmente occorsi o con i dati e le stime sugli incidenti evitati. Ne è risultato che esageriamo la percezione del rischio di eventi al di fuori del nostro controllo, che potrebbero causare molti decessi in una volta sola o uccidere in modi spettacolari – pistoleri impazziti, terroristi, disastri aerei, radiazioni nucleari, colture geneticamente modificate. Allo stesso tempo, sottovalutiamo i pericoli degli eventi che possiamo controllare («Non potrebbe mai capitare a me, io sono prudente!») e di quelli che uccidono in modo banale, comune. Avendo imparato sia da questi studi che dai miei amici della Nuova Guinea, sono diventato costruttivamente paranoico riguardo a docce, scale a pioli, scalinate e marciapiedi bagnati o sconnessi – proprio come i mie amici guineani lo sono a proposito degli alberi morti. Mentre guido, sono sempre all’erta per evitare miei possibili errori (soprattutto di notte) e per prevenire ciò che altri guidatori incauti potrebbero fare. La mia iper-vigilanza non mi paralizza né limita la mia vita: non salto la doccia mattutina, continuo a guidare la macchina e a tornare in Nuova Guinea. Tutte queste attività pericolose mi piacciono. Cerco solo di pensare sempre come un guineano e di mantenere il rischio di incidenti ben al di sotto di quell’uno su 1000, ogni volta.
Il Sole Domenica 18.10.15
Jacques Le Goff (1924-2014), Jean-Pierre Vernant (1914-2007)
Le fratture della lunga durata
Il dialogo tra il medievista e l’antichista, registrato in un colloquio radiofonico nel 2004
di Massimo Firpo
Tra i temi la tragedia greca e il suo declino nel medioevo, il lavoro e l’identità europea
Nati a dieci anni di distanza l’uno dall’altro, rispettivamente nel 1914 e nel 1924, Jean-Pierre Vernant e Jacques Le Goff, entrambi ormai scomparsi, sono stati tra i massimi storici della loro generazione, e non solo in ambito francese, noti anche al grande pubblico grazie alla loro capacità di rivolgersi ad esso con opere di impianto non accademico. Storico, studioso delle religioni antiche, antropologo, autore di numerosissime opere, Vernant ha incentrato le sue ricerche sul pensiero greco, sulla tragedia, sul passaggio tra mito e ragione come premessa della nascita della polis e della democrazia, mentre Le Goff è stato un medievista di fama mondiale, anch’egli autore prolifico e capace di spaziare su temi molto diversi, dal ruolo degli intellettuali alle origini della dottrina del purgatorio, dalla biografia di san Luigi al sostituirsi del tempo del mercante (l’orologio) a quello della Chiesa (le campane), dai banchieri e usurai a san Francesco, da opere di sintesi a scritti di metodo storico. Due grandi studiosi, di cui questo libriccino ripropone un vivace colloquio radiofonico del 2004.
Prospettive in parte diverse, quelle di Le Goff e Vernant, variamente segnate dal confronto tra la storia e le altre scienze sociali, storia delle religioni e sociologia, antropologia ed economia, e dal dialogo critico con maestri illustri quali Fernand Braudel e Maurice Lombard per Le Goff, Louis Gernet e Ignace Mayerson per Vernant, Georges Dumézil e Claude Levi-Strauss per entrambi, ma accomunate dall’essere state al cuore della straordinaria esperienza storiografica delle «Annales», la celebre rivista fondata nel 1929 da Marc Bloch e Lucien Febvre, volta a rinnovare profondamente temi e metodi della ricerca ponendo al centro delle indagini non più una storia politica e diplomatica tutta evénémentielle o una storia della cultura come mera storia delle idee ancora egemoni alla Sorbona, ma la storia sociale, le lunghe durate, le strutture, lo sguardo dal basso, l’incrocio tra discipline diverse. Quando «ci mettemmo a leggerle […] fu un incantamento, poiché ci apriva orizzonti straordinari», afferma Le Goff nell’evocare quel vero e proprio paradigma storiografico destinato a segnare mezzo secolo e oltre di egemonia della scuola storica francese. Di essa tanto lui quanto Vernant sono stati esponenti illustri, anche se da punti di vista diversi, nutriti della loro diversa esperienza umana e intellettuale – maestri, incontri, letture, interessi – e maturata nelle loro ricerche sul campo. Non stupisce affatto che entrambi ne parlino con giusto orgoglio, mentre rimane più sbrigativa e sfocata la loro riflessione sulla crisi di quel modello, come del resto era prevedibile da parte di uomini ormai anziani, più propensi a discutere del passato che del futuro e del resto chiamati a parlare anzitutto di sé.
Non a caso, le pagine più interessanti di questo dialogo tra due grandi vecchi sono quelli in cui si affrontano temi comuni, come per esempio laddove Le Goff, dopo aver ascoltato le parole di Vernant sulla tragedia, ne sottolinea la sostanziale scomparsa nel medioevo, durante il quale il suo ruolo nella vita sociale fu assolto piuttoso dai riti della liturgia cristiana; oppure quando essi discutono del diverso ruolo del lavoro nel mondo greco e in quello medievale; o ancora quando si confrontano sulla crisi della storia al giorno d’oggi e sulle sue prospettive per il futuro o sulla necessità di «impiantarsi» su uno specifico terreno di ricerca per poter acquisire padronanza delle fonti, sottraendosi al mero gusto dell’innovazione o dello sperimentalismo metodologico, fermo restando il principio teorizzato da Bloch, secondo cui sempre lo storico è e deve essere come l’orco che indirizza la sua caccia ovunque avverte l’odore della carne umana. Particolarmente interessanti sono le pagine in cui al centro del dibattito si pone il ruolo avuto nella loro formazione culturale dallo strutturalismo di Levi Strauss, cibo difficilmente digeribile dallo storico, in genere più ghiotto del mutamento che della continuità: «Non sono sicuro che si possa passare senza grandi precauzioni dai miti greci ai miti africani o amerindi. E non sono nemmeno sicuro che si possa esplorare il funzionamento dell’intelligenza umana senza far riferimento all’idea che esistono cambiamenti, soglie, rotture, modificazioni nella logica, nella scienza, nella sensibilità», afferma Vernant (ed è difficile dargli torto), concludendo che «anche la psicologia è, dunque, storica» e che non esistono «società fredde» e «società calde», poiché tutte le società sono «più o meno calde», conoscono trasformazioni, sono immerse nel tempo e nella storia e quindi, per converso, che non esiste alcuna «storia immobile».
Grandi maestri di cui molti hanno letto i libri affascinanti e di cui merita riascoltare la voce, entrambi fiduciosi sul ruolo che la conoscenza storica tornerà ad avere nel futuro, nella convinzione che, se si riuscirà davvero a costruire un’Europa che abbia senso, occorrerà anzitutto recuperarne l’identità storica e quindi pensare anche «a quello che sono stati e che hanno portato la città antica e il mondo medievale».
Jacques Le Goff, Jean-Pierre Vernant, Dialogo sulla storia. Conversazioni con Emmanuel Laurentin , Roma-Bari, Laterza, pagg. 70, € 14,00
Il Sole Domenica 18.10.15
Capitalismo responsabile
Torna l’etica calvinista?
Uno stimolante saggio di Ralf Dahrendorf sulle cause e gli effetti della crisi finanziaria del 2008 scritto 6 anni fa ancora molto attuale
di Valerio Castronovo
Che quella esplosa nel 2008 in Occidente sia divenuta una crisi economica e sociale è una realtà sotto gli occhi di tutti. Quel che oggi ci si chiede è se essa, per i suoi effetti “a catena”, stia generando anche una svolta politica radicale. Si tratta di un interrogativo che Ralf Dahrendorf si poneva in uno dei suoi ultimi scritti (comparso nel maggio 2009), nell’intento di dare una spiegazione plausibile delle cause della recessione nonché delle sue conseguenze, al di là di certe versioni di corto respiro che andavano per la maggiore. Perciò la sua analisi, sia per la lucidità e la visione d’insieme che la caratterizzano, riproposta oggi, a sei anni da quando venne pubblicata nella rivista tedesca Merkur, offre interessanti elementi di riflessione per un’interpretazione dei motivi di fondo della crisi e una diagnosi dei suoi possibili esiti.
Secondo Dahrendorf, all’origine del sisma finanziario, provocato da un’overdose di affarismo speculativo, nonché da una sorta di eresia fondamentalista (all’insegna di una fede incondizionata nelle capacità di autoregolamentazione del mercato), è dato riscontrare soprattutto, ben più dei giochi d’azzardo dei banchieri e dell’imprevidenza dei politici (che pur hanno avuto il loro peso), un fenomeno come il passaggio, in corso a partire dagli anni Ottanta, dal «capitalismo di risparmio» al «capitalismo di debito». Una metamorfosi che non era solo il parto di imprenditori e manager, bensì il risultato di un cambiamento di mentalità che, coinvolgendo man mano gran parte della gente, ha creato una società sempre più fortemente orientata al consumo. Di qui l’erosione di requisiti come il lavoro e il risparmio, che avevano seguitato a costituire (sia pur con alcune varianti) altrettanti cardini di riferimento nella condotta di vita individuale e avevano reso possibili gli sviluppi e i successi del sistema capitalistico; e il sopravvento, alla lunga, di altri parametri con una crescente attrattiva per i loro risvolti edonistici, consistenti nell’appagamento immediato dei propri desideri, e non più in un soddisfacimento differito dei frutti del proprio lavoro. Anche a costo di contrarre, appunto, un debito dopo l’altro, pur di usufruire largamente di determinati beni di consumo e di più ragguardevoli standard di vita.
Non per questo, Dahrendorf auspicava il ritorno a un’etica di marca calvinista, come quelli a cui Marx Weber attribuiva la genesi dell’impegno operoso e dello «spirito acquisitivo» con cui la borghesia avrebbe forgiato l’economia capitalistica. D’altronde, dopo Keynes, non sarebbe comunque questa la chiave di volta per venire a capo della crisi dei giorni nostri. Egli si augurava bensì una «rivitalizzazione di antiche virtù», in quanto, a suo giudizio, «lavoro, ordine, servizio, dovere rimangono prerequisiti essenziali del benessere», senza il quale non ci sarebbero, del resto, «godimento, divertimento, piacere, distensione».
Come osserva Laura Leonardi nella postfazione, Dahrendorf si proponeva, con il suo saggio, di suscitare un fattivo confronto di idee su una questione altrettanto cruciale che aperta come quella concernente lo scenario del futuro e le sue prospettive. Anche perché prevedeva e insieme temeva una reazione indiscriminata alla crisi: come, «una diffusa individualizzazione dei conflitti sociali» e un’«indignazione collettiva sotto forma di esplosioni di violenza», dovute a un impasto di rabbia e sfiducia di tante persone di fronte a un deterioramento delle loro condizioni di vita e delle loro aspettative. Avrebbe finito così per dissolversi quel fecondo compromesso politico fra capitalismo e democrazia che, da metà Novecento aveva dato vita a un’economia di mercato altrettanto dinamica e competitiva quanto orientata a un costante miglioramento del reddito e dei servizi collettivi, che aveva reso possibile sia una più equa ripartizione della ricchezza prodotta sia ampie possibilità di avanzamento e autorealizzazione individuale.
Oggi è evidente che quella stagione d’impronta socialdemocratica, descritta da Dahrendorf in alcuni autentici classici di sociologia politica, è ormai giunta al tramonto, in quanto destinata a essere sopraffatta dalle conseguenze di un eccesso di deregulation ultraliberista, da una crescente disoccupazione e quindi dall’insostenibilità di un sistema generalizzato di protezione sociale, nonché dagli effetti della rivoluzione digitale che ha introdotto nuovi modi di lavorare e di scambio e persino d’impiego del tempo libero. Tuttavia Dahrendorf riteneva che la crisi in atto avrebbe creato le premesse, per opera di alcune minoranze d’avanguardia, di un «capitalismo responsabile». E ciò in virtù di comportamenti pratici e di abiti mentali individuali più consapevoli e realistici (a cominciare da una concezione del tempo, nell’economia e nella società, non più rapsodica, rapportata al breve termine) e quindi alternativi ai paradigmi dominanti, alimentati da un’ideologia eminentemente consumistica e sempre più avulsi da valori come la solidarietà, l’uguaglianza dei diritti civili e la coesione sociale.
Ralf Dahrendorf, Dopo la crisi. Torniamo all’etica protestante? , postfazione di Laura Leonardi, Laterza, Roma-Bari, pagg. 64,€ 9,00
Il Sole Domenica 18.10.15
Nobel economia 2015
La grande fuga da Malthus
di Alberto Mingardi
«L’errata diagnosi dell’esplosione della popolazione da parte della stragrande maggioranza degli economisti e degli scienziati sociali, insieme alle calamità causate dalle politiche sbagliate che ne sono conseguite, hanno rappresentato i più gravi fallimenti intellettuali ed etici di un secolo che, di fallimenti, non è certo stato avaro». La citazione viene da La grande fuga. Salute, ricchezza e origini della disuguaglianza (pubblicato in Italia dal Mulino con prefazione di Giovanni Vecchi), il libro di Angus Deaton, Premio Nobel per l’Economia 2015. Sin dal titolo, è evidente il richiamo a Fuga dalla fame. Europa, America e Terzo Mondo (1700-2100), un aureo saggio di Robert Fogel, Premio Nobel per l’Economia 1993. Fogel, uno dei pionieri della cliometria (la storia economica fatta coi numeri), ha dato conto del miglioramento parallelo di salute e standard di vita. Aspettativa di vita alla nascita, altezza e peso tendono a progredire assieme. Gli esseri umani sono diventati più ricchi e più grossi perché hanno cominciato a mangiare di più. Ciò a sua volta esige una maggiore produzione di cibo. Che è possibile solo quando la rivoluzione industriale cambia radicalmente le tecniche produttive.
Deaton non è uno storico dell’economia, le motivazioni del Premio Nobel segnalano i suoi studi sui comportamenti di consumo, ma sulla scia del lavoro di Fogel ha scelto di allargare le maglie del concetto di “benessere”. Così facendo, è riuscito ad offrire un quadro più completo della “grande fuga” dalla condizione “normale” dell’umanità: la miseria. Dal 1850 al 2000, nel Regno Unito la speranza di vita alla nascita è praticamente raddoppiata. Nei sei decenni che ormai ci separano dalla seconda guerra mondiale, possiamo osservare riduzioni senza precedenti nei tassi di mortalità e una rapida crescita del reddito medio, ovunque nel mondo. Anche le diseguaglianze vanno “lette” guardando anzitutto alla salute degli individui. Nei Paesi poveri, ogni anno un terzo dei morti sono bambini sotto i cinque anni. In quelli ricchi, più dell’80% dei decessi riguardano individui oltre i sessant’anni. Sono queste le dimensioni della diseguaglianza che ci debbono allarmare (anche se Deaton è allarmato da come, in Occidente, la concentrazione delle ricchezze potrebbe determinare meccanismi di cattura del potere politico). È la crescita economica il fatto cruciale: «la crescita pone più denaro nelle tasche delle famiglie, che sono maggiormente in grado di nutrire i loro figli, così come nelle tasche dei governi, mettendoli in condizione di migliorare acquedotti, fognature e di eliminare gli animali nocivi».
Proprio l’attenzione alle diverse determinanti del benessere ha portato Deaton a prendere posizioni eterodosse. Egli ritiene, dando ragione a Peter Bauer, a lungo tempo profeta inascoltato, che gli aiuti allo sviluppo possano fare più male che bene, consolidando leadership politiche per nulla illuminate. E, come già ricordato, ha preso di petto l’idea che la diminuzione dei tassi di incremento della popolazione sia un viatico verso un maggiore benessere (riduciamo le bocche da sfamare, ce ne sarà di più per tutti). Per Deaton, ci possono essere buone ragioni per provare a limitare la dimensione dei gruppi familiari ma esclude ve ne siano per una forma di «controllo delle nascite da parte di soggetti estranei, quali governi stranieri e istituzioni internazionali».
I chierici del mondo ricco hanno tradito i dannati della terra, pensando che una dimensione tanto privata e tanto importante del loro essere uomini e donne fosse “pianificabile” da altri. Ma prima ancora che la prognosi, era la diagnosi ad essere sbagliata. «A dispetto dei profeti di sventura, l’esplosione della popolazione non ha precipitato il mondo nella carestia e nella miseria più nera. Anzi, l’ultimo mezzo secolo ha visto non solo la riduzione della mortalità che ha prodotto l’esplosione, ma anche una fuga di massa proprio da quella povertà e quelle privazioni che avrebbero dovuto essere causate dall’aumento della popolazione stessa». La grande fuga è per l’appunto quella dalla trappola malthusiana.
Angus Deaton, La grande fuga. Salute, ricchezza e le origini della disuguaglianza , Il Mulino, Bologna, pagg.384, € 28,00. Prima della traduzione italiana il libro è stato recensito da Giorgio Barba Navaretti nell’inserto Domenicale del 5 gennaio 2014
Il Sole Domenica 18.10.15
Viaggio nei «paradisi» immortalati da Gauguin
Tra le opere spiccano quelle giunte da Copenhagen provenienti dal lascito di Mette, moglie danese di Paul
di Ada Masoero
Nessun artista della modernità, più di Gauguin, incarna nel suo lavoro la fascinazione esercitata dalle culture «primitive» su molti di coloro che, alla fine dell’800, si trovarono ad affrontare lo choc della nuova, caotica vita metropolitana (la vie moderne così cara invece agli impressionisti, della generazione appena precedente), frutto del progresso tecnologico generato dal positivismo, che con l’industrializzazione e l’urbanesimo aveva spezzato il rapporto dell’uomo con la natura. E nessuno più di lui, anche per via delle sue radicali scelte di vita, seppe manifestare il fastidio per la “dittatura della ragione” -figlia anch’essa del positivismo- andando in cerca di una verginità dello sguardo e di una “purezza primigenia” che lo mettessero in connessione con l’interiorità più profonda e autentica dell’uomo. Lui del resto rivendicava tale matrice “primitivista” anche in virtù del sangue peruviano ereditato dalla nonna materna, la scrittrice proto-femminista Flora Tristán con cui, bambino, visse alcuni anni in quel Perù al quale avrebbe reso omaggio con i numerosi vasi antropomomorfi da lui modellati nella terracotta, ispirandosi ai vasi-ritratto andini.
Era perciò quasi inevitabile che il MUDEC, nell’avviare la sua regolare programmazione, gli dedicasse un omaggio. Certo la scelta poteva apparire rischiosa, a pochi mesi dalla grande e magnifica mostra, commentata su queste pagine, della Fondation Beyeler di Basilea. Ma i curatori della rassegna milanese, Line Clausen Pedersen e Flemming Friborg, curatrice e direttore della Ny Carlsberg Glyptotek di Copenhagen, hanno scelto una strada diversa e, accanto alla settantina di opere di Gauguin, hanno puntato anche su manufatti e immagini dei luoghi remoti in cui l’artista visse, per documentare le fonti visive (alcune estranee alla sua vicenda biografica ma presenti nel suo bagaglio visivo, come l’arte egizia, la cambogiana, la giavanese) cui attinse nel comporre il suo universo favoloso.
Né deve stupire che i curatori siano danesi: sebbene le opere giungano da 12 musei e collezioni internazionali, il nucleo più ricco appartiene alla Ny Carlsberg Glyptotek di Copenhagen, che grazie ai lasciti di Mette, la moglie danese di Gauguin, e degli Jacobsen (i proprietari del birrificio Carlsberg, suoi avidi collezionisti) possiede ben 47 sue opere.
Intitolata «Gauguin. Racconti dal paradiso», la mostra presenta suoi dipinti, incisioni e sculture (di legno o terracotta, che tanto avrebbero contato per più di un maestro del XX secolo, da Picasso a Matisse, a Kirchner), seguendolo passo passo nei suoi viaggi verso il «primordio»: prima in Bretagna, una terra aspra, isolata dalla Francia anche dalla lingua di ceppo celtico e caratterizzata da una religiosità visionaria e arcaica; poi a Panama e in Martinica, poi di nuovo in Bretagna, con soste mal sopportate a Parigi, fino alla prima partenza, nel 1891, per la Polinesia, dove visse tra Tahiti (due soggiorni, con un rientro penoso in Francia, minato dalla miseria) e le remotissime Isole Marchesi, dove sarebbe morto nel 1903 e dove è sepolto.
Le prime tre sezioni si aprono con un autoritratto e proseguono esplorando dapprima la sua ossessione per le arti «primitive», poi esibendo opere-chiave realizzate in Bretagna, in Danimarca, a Parigi e ad Arles, durante la breve, tragica convivenza con van Gogh. La quarta mette a confronto un dipinto degli esordi, il fosco Veliero al chiaro di luna, 1878, ancora tardo-romantico, con Arearea no varua ino, un capolavoro realizzato in Bretagna nel 1894, dopo il primo soggiorno a Tahiti, che condensa tutte le innovazioni della stagione matura, dai colori irreali ed espressivi, stesi poi in piatte campiture, alle nette, innaturali linee di contorno delle figure, ispirate ai cloison delle vetrate gotiche. Un’opera, questa, a prima vista sensuale ed edenica, in realtà enigmatica e angosciosa: accanto alle languide tahitiane Gauguin pone infatti una divinità sanguinaria e uno spiritello maligno (il titolo significa «il divertimento dello spirito maligno»), metafora della sua condizione esistenziale dolorosa, segnata dalla miseria. Da ultimo, la quinta sezione prende in esame il costante intreccio nel suo lavoro tra mito, fantasia, sogno e realtà, e la sesta esplora la sua tensione mai allentata verso un’arte vicina alla vita e alla natura, svincolata dalla cultura visiva europea e dalle asfittiche norme accademiche che la imprigionavano.
Gauguin. Racconti dal paradiso , MUDEC, dal 28 ottobre 2015 al 21 febbraio 2016. Biglietto € 12,00
Il Sole Domenica 18.10.15
Arte rinascimentale
Il fascino del Dio pagano
di Lucetta Scaraffia
Nell’inverno del 1406 Firenze fu coperta da nevicate così abbondanti che i suoi cittadini riuscirono a costruire un Ercole di neve alto sei metri, armato di scudo e clava, affiancato da un leone. La familiarità dei fiorentini con l’eroe greco non deve stupire: con l’Umanesimo e il Rinascimento gli dei pagani, quelli che il cristianesimo aveva sconfitto, tornavano alla luce. L’amore per l’antico era all’origine di scavi, scoperte di statue, e i testi dei poeti classici – Ovidio fu la fonte più influente – tradotti e ripresi da autori di successo come Boccaccio.
Ma il progetto non era solo quello di risuscitare il passato, bensì «il ritrovamento della scintilla che gli aveva dato la vita». Questo implicava far rivivere divinità ed eroi dell’antichità, dar loro un nuovo habitat e nuove identità, intrecciarli con i problemi del tempo. A questo facile ingresso degli antichi dei nella cultura europea contribuirono da un lato la moralizzazione dei miti, che li rendeva accettabili ai lettori cristiani, dall’altro l’astrologia, che poteva suggerire legami fra divinità pagane, eroi ed esseri umani mediante la loro configurazione planetaria. Nel corso del Cinquecento l’iconografia mitologica divenne così un linguaggio visivo paneuropeo, potenzialmente comprensibile in Polonia come a Venezia e Parigi, anche se la distribuzione delle opere di questo genere rimase irregolare.
L’oggetto sul quale più spesso venivano rappresentate scene mitologiche era il cassone che conteneva il corredo matrimoniale, ma anche i deschi da parto e le scatole portaoggetti, suggerendo un legame fra la mitologia e la sfera femminile. Legame confermato dal fatto che gli stessi soggetti apparivano poi negli oggetti di uso e di decorazione della casa: scodelle e piatti, arazzi. Gli affreschi della Farnesina, dimora romana del banchiere Chigi, costituirono uno spartiacque per la decorazione delle stanze interne: molte di esse infatti vennero affrescate con soggetti mitologici, e l’esempio fu presto imitato in altre dimore nobiliari e nelle corti.
Altri luoghi prescelti per far spazio agli dei pagani erano le fontane e i giardini, mentre all’interno delle dimore meno sontuose le divinità venivano invece confinate in spazi privati, come la camera da letto, il bagno, lo studio. La loro diffusione – afferma Bull – fa pensare a una vera e propria rivoluzione culturale, anche se in fondo dei ed eroi rimasero sempre degli stranieri, intrusi nella società cristiana. Essi infatti non funsero da alternativa all’arte cristiana, ma piuttosto da complemento. L’arte mitologica colmava lacune nel campo della sessualità e della fertilità, ma anche nelle celebrazioni del potere secolare – gli dei governano in cielo così come i principi sulla terra – e nella creazione di immagini decorative meno impegnative.
Nell’iconografia rinascimentale le divinità dominanti erano sei: Ercole, Giove, Venere, Bacco, Diana e Apollo. Ciascuna di esse tendeva a diventare protagonista nei racconti dove figurava, e che si svilupparono con alcune costanti: una figura femminile e una maschile in situazioni erotiche. I soggetti più richiesti, infatti, erano gli amori di Giove, Venere con Marte e con Adone, Cupido e Psiche, Bacco e Arianna, Apollo e Dafne, oppure quelle dove comparivano nudi femminili come il giudizio di Paride. Per ognuna di queste figure mitologiche il libro di Bull ricostruisce ora le diverse rappresentazioni e le fonti alle quali queste si ispirarono, intrecciando a una ineccepibile erudizione una leggera ironia, che rende il testo di lettura decisamente piacevole.
Malcom Bull, Lo specchio degli dei. La mitologia classica nell'arte rinascimentale , Einaudi Milano, pagg.424, € 36