venerdì 16 ottobre 2015

Corriere 16.10.15
I passi necessari della Cina (se vuole evitare turbolenze)
Come scoprirono i Paesi europei negli anni Ottanta non è possibile allo stesso tempo avere stabilità del cambio, mercati liberalizzati ed economia assistita. Occorrono riforme strutturali



I timori di un forte rallentamento dell’economia cinese, che si erano diffusi durante la scorsa estate, sembrano essersi rapidamente evaporati dopo la fiducia ribadita dalle istituzioni internazionali, in occasione delle recenti riunioni del Fondo monetario. In effetti, il governo e la banca centrale cinese hanno dimostrato varie volte in passato di saper usare gli strumenti di politica monetaria e di bilancio per sostenere la crescita economica, evitando la recessione e il contagio al resto del mondo. D’altra parte, i tassi d’interesse cinesi non hanno ancora raggiunto la soglia minima dello zero, come nella gran parte dei Paesi industriali, e possono dunque essere ulteriormente ridotti se necessario. Inoltre, il disavanzo e il debito pubblico sono ancora su livelli contenuti, e vi è spazio per una eventuale manovra di rilancio fiscale. Infine, il rallentamento previsto dalle principali organizzazioni internazionali (al 6,3% nel 2016 secondo il Fondo monetario internazionale) è in parte fisiologico, dopo 30 anni di sviluppo a ritmi prossimi al 10%. Da tempo la comunità internazionale chiedeva un ribilanciamento della struttura dell’economia cinese, dalla manifattura ai servizi, dagli investimenti ai consumi, dall’export alla domanda interna.
Questo processo non è tuttavia privo di rischi. L’aggiustamento potrebbe essere più brusco del previsto. Dopo un periodo di crescita elevata, che ha fatto diventare l’economia cinese seconda soltanto a quella statunitense, stanno venendo al pettine sostanzialmente gli stessi nodi dei Paesi occidentali. E la gestione politica accentrata non appare poi particolarmente agevolata.
Come scoprirono i Paesi europei alla fine degli anni Ottanta, non è possibile perseguire al contempo i tre seguenti obiettivi:
1.l’attuazione di una politica macroeconomica — in particolare monetaria — indipendente, mirata ad un obiettivo interno di crescita o di inflazione;
2.l’integrazione finanziaria, in particolare la liberalizzazione dei movimenti di capitale;
3.la fissazione del tasso di cambio.
Questo dilemma — o trilemma — noto nella letteratura come il «terzetto incoerente», è alla base delle frequenti crisi valutarie europee del secolo scorso, culminate con la scelta di abbandonare uno dei tre obiettivi: l’indipendenza delle politiche economiche per chi adottò l’euro, la fissità del tasso di cambio per chi — come il Regno Unito — decise di rimanere fuori dall’unione monetaria.
La Cina cerca di perseguire tutt’e tre gli obiettivi, sebbene ciò stia diventando sempre più difficile, come si è visto dalle turbolenze registrate sui mercati finanziari di questa estate. Cerca di mantenere un tasso di cambio fisso, o comunque manovrato, nel timore che una svalutazione eccessiva e ripetuta dello yuan inneschi timori presso i risparmiatori cinesi e induca ulteriori uscite di capitale, come è avvenuto in agosto. Le autorità cinesi dispongono di ingenti riserve di cambio — circa 3 trilioni di dollari — per contrastare tale uscita, ma ne hanno già spesi quasi 200 miliardi tra agosto e settembre scorsi, a dimostrazione di come un tale «tesoro» possa rapidamente svanire se si diffonde la sfiducia. Per questo motivo le autorità cinesi hanno recentemente ribadito la centralità del cambio nella loro strategia di politica economica.
La Cina vuole anche perseguire la liberalizzazione del suo mercato finanziario, non soltanto per dare alla propria moneta uno statuto internazionale ma anche per rendere più attraente il mercato interno agli investitori internazionali. La liberalizzazione nei confronti dell’estero è anche uno stimolo alla liberalizzazione interna, necessaria per far crescere nuove imprese e stimolare la competitività.
In questo contesto, una politica macroeconomica di sostegno dell’economia, in particolare attraverso una ulteriore riduzione del tasso d’interesse, incoraggia il deflusso di capitali e mette sotto pressione il tasso di cambio.
A qualcosa si dovrà prima o poi rinunciare: alla stabilità del cambio, alla liberalizzazione dei mercati, o alla politica di sostegno dell’economia. In ciascun caso le conseguenze — per il Paese e per l’economia mondiale — rischiano di essere molto negative.
Un’alternativa esiste, ed è in realtà molto simile a quella con cui si confrontano i Paesi avanzati, ossia le riforme strutturali. Queste sono diventate particolarmente urgenti in Cina, per risanare profondamente le aziende in eccesso di capacità produttiva, favorire la concorrenza, soprattutto nei servizi, ristrutturare il settore bancario appesantito dalle sofferenze, smantellare la politica di controllo della natalità, ecc. Tali riforme sono essenziali per accelerare la trasformazione dell’economia cinese ed evitare una fase di crescita anemica e instabile, le cui conseguenze geopolitiche sono difficilmente prevedibili.
Fare le riforme è più facile nella teoria che nella pratica, non solo nelle democrazie occidentali.