Corriere 14.10.15
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Il sì alla riforma del Senato una vittoria con paracadute
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Non è un caso se il referendum costituzionale si terrà pochi mesi dopo le elezioni comunali, perché se in primavera il responso delle urne a Roma, Milano e Napoli fosse avverso al Pd, in autunno la consultazione sulla Carta si trasformerebbe per Renzi in un’occasione di rivincita
di Francesco Verderami
Il voto sulle riforme disegna due blocchi contrapposti e in mezzo una sorta di no fly zone , un’area cuscinetto, dove si scorgono le rovine del vecchio patto del Nazareno. Certo, il fatto che la fine del bicameralismo non sia frutto di un accordo tra forze di maggioranza e opposizione bensì l’esito di un conflitto, contrasta con l’idea che due anni e mezzo fa ha dato vita alla legislatura costituente. Ma da allora molte cose sono cambiate, compreso il governo, e non c’è dubbio che da allora le riforme sono diventate (anche) un terreno di lotta politica.
Così sul campo si contano vincitori e vinti, che già si preparano alla sfida referendaria, dove i comitati del sì e quelli del no — attraverso il voto dei cittadini — tenteranno di definire le future frontiere. Intanto Renzi ha ottenuto ieri dal Senato — grazie a un’ampia maggioranza — una rinnovata legittimazione, una sorta di fiducia costituzionale, tappa fondamentale per portare a compimento il suo ambizioso disegno: sancire la fine del bicameralismo paritario, tenere a battesimo la nuova Repubblica e infine guidarla. Ma l’esito non è scontato.
Arrivato un anno e mezzo fa al governo con l’ostilità del Palazzo e il consenso sostanziale della gente, ora ha conquistato il Palazzo perdendo però un po’ di smalto presso l’opinione pubblica. Il punto è che Renzi — presentatosi alla guida di una cordata di innovatori — ora rischia di essere vissuto come il capo di un nuovo establishment . E per quanto le Amministrative non rappresentino un test politico, in quel voto si riverseranno anche gli umori di un Paese che è solito cambiar verso rapidamente nei riguardi di ogni premier.
Perciò non è un caso se il referendum costituzionale si terrà pochi mesi dopo le elezioni comunali, perché se in primavera il responso delle urne a Roma, Milano e Napoli fosse avverso al Pd, in autunno la consultazione popolare sulla Carta si trasformerebbe per Renzi in un paracadute, in un’occasione di rivincita e di rinnovata legittimazione al cospetto degli italiani. È vero, la sfida decisiva verrà alle Politiche, lì si vedrà se il leader democratico avrà saputo intercettare gli italiani. Ma il passaggio del referendum sarà dirimente, perché servirà a formalizzare i confini della nuova Yalta o a decretarne l’immediato fallimento.
Al referendum si misurerà la forza d’urto dei Cinquestelle e dei leghisti, che certo non si giocavano la loro partita in Parlamento. Con i comitati per il sì al referendum si capirà se i centristi di Alfano — che sulle riforme hanno visto riconosciuta la ragione sociale del loro partito — sapranno aggregarsi insieme ad altri e costruire un campo più largo, elettoralmente attrattivo. È il referendum che chiarirà le sorti di Forza Italia, divisa ieri nel voto al Senato e schiacciata sotto il peso di vecchie contraddizioni e del giovane alleato leghista.
Renzi si avvia ad intestarsi la paternità della Terza Repubblica, che poggia però su basi ancora da consolidare. C’è un motivo quindi se Napolitano, che delle riforme è stato patron e architetto, ha esortato il premier a porvi rimedio oltre che attenzione. Il presidente emerito della Repubblica non ha inteso criticare la mancanza di qualità lessicale, che pure emerge dalla lettura delle nuove norme costituzionali, ma ha centrato il suo discorso in Aula su aspetti da correggere per spazzar via ogni accusa e timore sull’imprinting della Carta.
È vero che le riforme sono come delle Formula 1, che nessun test in galleria del vento nè simulazione al computer può anticipare la bontà di un progetto: che — insomma — bisogna girare in pista, cioè far entrare a regime una legge per provarla. Ma un sistema che per molti versi è presidenziale senza formalmente esserlo, ha bisogno di essere temperato, e Napolitano ha individuato nella legge elettorale il punto su cui intervenire. Possibile che Renzi non faccia tesoro del suggerimento?
Perciò, piuttosto che lasciare l’Aula in segno di ostilità verso l’ex capo dello Stato, il gruppo di Forza Italia avrebbe fatto meglio ad ascoltarlo, perché Napolitano ha sollevato — a suo modo — lo stesso identico problema posto dal capogruppo Romani a più riprese. Peccato: è stato un altro segno di come le riforme siano state usate in base alla convenienza politica del momento. E in questo caso non ci sono vincitori e vinti .