martedì 13 ottobre 2015

Corriere 13.10.15
La scoperta del bosco
Nel medioevo le foreste diventarono una risorsa di primaria importanza
L’editto di Rotari, la diffusione degli alberi di castagno, il fattore demografico
di Paolo Mieli


Nell’antichità, salvo qualche eccezione, i boschi erano visti come luoghi selvatici dai quali non potevano venire che insidie, sotto forma di belve o di uomini crudeli. E fu prevalentemente dai boschi che giunsero i barbari affossatori dell’impero romano. Poi però quei barbari insegnarono agli sconfitti ad apprezzare quegli insiemi fino ad allora incontaminati di alberi e cespugli. Fu da quel momento che iniziò quella civilizzazione del bosco di cui si occupa magistralmente Riccardo Rao in I paesaggi dell’Italia medievale (peraltro dedicato anche a chiese, monasteri, castelli, villaggi e città) che sta per essere pubblicato da Carocci. «Il mondo classico», scrive Rao, «destinava al bosco, che pure forniva risorse fondamentali per il sostentamento delle popolazioni, spazi marginali, attribuendogli una connotazione negativa: per la cultura dominante esso era il luogo della natura selvatica che si contrapponeva alla civiltà». Con la fine del mondo antico, prosegue l’autore, e con i primi secoli del Medioevo, «i boschi assumono una centralità nuova, che non è solo economica ma anche culturale: essi iniziano a essere pensati come uno spazio positivo, capace di creare luoghi dove la natura può convivere in equilibrio con l’uomo». In principio l’interesse umano era stato di tipo alimentare: i Romani si erano distinti per l’introduzione del castagno. E paradossalmente i primi secoli del Medioevo si segnalano per il «forte regresso» proprio di quel genere di albero «non più incrementato da una popolazione ormai meno bisognosa, per il calo demografico, di tale integrazione alimentare». Stesso discorso vale per il noce. Piante che però sopravvivono, sia pure in un diverso equilibrio con il resto degli alberi. E che, come vedremo, torneranno.
Poi arriva la novità. Nei primi secoli del Medioevo «i boschi assumono un’inedita centralità rispetto all’epoca classica, legata al rilievo economico delle attività silvo pastorali e alla gestione dei patrimoni regi». L’avanzata dei boschi nei primi secoli del Medioevo «coincide con la loro valorizzazione, non solo economica, ma anche culturale»: essi vengono percepiti con una «valenza positiva» come non accadeva nel mondo romano. Nell’Alto Medioevo si diffonde una parola nuova per designare i vasti spazi boschivi di pertinenza regia: foresta. È la pertinenza regia che fa la differenza. Durante il regno longobardo in Italia (569-774) i sovrani «sviluppano una notevole attenzione per la gestione degli incolti». Il «gaggio» (così viene definito il bosco ai tempi dei Longobardi) si presenta come uno spazio economico complesso, per il quale gli ufficiali del sovrano dispongono una severa regolazione. Non sono soltanto «vaste superfici boschive dove i re si recano a caccia a loro piacimento e i contadini raccolgono liberamente la legna», bensì «risorse che la monarchia gestisce, disponendone la valorizzazione economica o la concessione ad aristocratici, chiese e comunità di uomini liberi per intessere relazioni politiche e devozionali». È in questa fase storica che il bosco diventa davvero importante. Il termine foresta, però, si diffonderà in maniera più massiccia nei secoli IX e X, dopo la conquista da parte di Carlo Magno del regno dei Longobardi.
Ma facciamo un passo indietro. Per rendersi conto del ruolo assunto dai boschi in Occidente durante i primi secoli del Medioevo, scrive Rao, si deve guardare alle raccolte di leggi prodotte dai regni romano-barbarici, che dedicano ampio spazio allo sfruttamento delle specie arboree. Le codificazioni del resto d’Europa, come quella dei Burgundi (il cui regno si estendeva dalla Svizzera alla Borgogna) prevedono per lo più poche regole di tutela, limitate alle essenze nobili quali pini e abeti; quella longobarda — voluta dal re Rotari con l’editto del 643 — «rivela tutta la specificità del paesaggio nella Penisola che ancora è percepito come l’orto del Mediterraneo». L’editto di Rotari è spesso interpretato come un testo conservativo, volto a riportare in maniera fedele le leggi orali che i Longobardi si erano dati nel corso del loro stanziamento nelle pianure dell’Europa centrale, prima di migrare nel 568-569 al di qua delle Alpi. Un’interpretazione respinta da Rao. Per il quale invece l’editto di Rotari ha un «carattere innovativo» che «tiene conto dell’avvenuto processo di integrazione tra la popolazione barbarica e quella romana». La severa regolamentazione dell’uso delle risorse boschive, che tutela soprattutto gli alberi fruttiferi come olivi e castagni e la sensibilità di alcune disposizioni per le specie, come la vite, più caratteristiche del suolo italico, confermano che questa legislazione «ha ben presente le specificità del paesaggio peninsulare». Paesaggio che — ha scritto Paola Galetti in Civiltà del legno. Per una storia del legno come materia per costruire dall’antichità a oggi (Clueb) — è caratterizzato da una varietà molto maggiore di spazi agrari rispetto al resto dell’Occidente medievale. Vengono considerati sempre più «centrali» i maiali e i cavalli. Ai maiali allevati allo stato brado nei querceti e nei faggeti, nell’editto di Rotari, sono dedicati ben sette articoli. Ai cavalli addirittura dodici. È l’inizio della creazione di «peculiari boschi pascolivi».
A dispetto delle apparenze, i prati a faggeta di quell’epoca sono tutt’altro che naturali. Sul prato che fa da pascolo vengono fatti crescere alberi di faggio e querce, funzionali alla produzione di ghiande per i maiali e di foglie usate come foraggio durante l’inverno. I prodotti dell’incolto, dei boschi e dei pascoli — come ha documentato Massimo Montanari in Alimentazione e cultura nel Medioevo (Laterza) — arrivano sulle tavole dei ricchi e dei poveri, a partire dalle carni il cui consumo è promosso dalle nuove abitudini alimentari introdotte dai barbari rispetto alla dieta romana. Potremmo dire, sottolinea Rao, che i contadini di quest’epoca stessero molto meglio rispetto ai loro colleghi di età classica e a quelli dei secoli XII e XIII per la varietà di alimenti che erano in grado di portare sulle loro tavole.
Arriva poi il momento dei primi disboscamenti. Vito Fumagalli in Coloni e signori nell’Italia settentrionale (Pàtron editore) ha ben descritto quello voluto dagli abati del monastero di Nonantola nella selva di Ostiglia (un’area paludosa ombreggiata in prevalenza da pioppi, ontani, salici, tigli e olmi). Nella prima metà del IX secolo il monastero stipula con i coloni contratti che prevedono in maniera specifica la bonifica dell’area. Attraverso il parziale abbattimento della «boscaglia infruttuosa», la costruzione di case recintate e dotate di orti, l’impianto della vite e lo scavo di canali di drenaggio. Cosa era successo? «I vasti spazi boschivi, che durante i primi secoli del Medioevo avevano occupato buona parte dell’Italia e dell’Europa, si sono via via popolati e devono essere messi a coltura attraverso il disboscamento». I dissodamenti e la «trasformazione degli incolti in campi vanno di pari passo con la creazione di nuovi insediamenti: le abitazioni degli uomini si distendono sulle terre precedentemente ricoperte dalle foreste». I «disboscamenti virtuosi» (virtuosi in quanto rispettosi del complesso naturale) avviati tra il IX e il XIII secolo — circa cinquecento anni! — «non sono soltanto un momento di trasformazione del manto vegetale, ma soprattutto uno degli snodi decisivi del popolamento dell’Occidente medievale, che dà un volto nuovo alla trama insediativa nel suo complesso, ancora ben leggibile nel paesaggio contemporaneo». Poi, tra il XII e il XIII, secolo inizia un periodo di temperature miti che favorisse «l’antropizzazione dei territori ubicati alle quote più elevate». Il consistente afflusso di popolazioni sveve e bavare favorisce la costituzione di aree plurietniche, con insediamenti di contadini di origine germanica a fianco di altri abitati da popolazioni latine. È in quest’epoca che sulle Alpi, tra Piemonte e Lombardia, i Walser, un popolo di lingua tedesca, fondano nuovi villaggi ed estendono le loro coltivazioni sui suoli boscosi. Tra il XII e il XIII secolo, i disboscamenti si spingono in quota, «senza stravolgere tuttavia le caratteristiche di tali aree, dove boschi e incolti continuano a essere dominanti». Lo stesso manto forestale «viene riqualificato con l’espansione o la salvaguardia di specie utili all’economia montana, quali gli abeti, che danno un legno pregiato venduto nei cantieri navali, o l’acero montano, coltivato nei pressi dei punti di stazionamento dei pastori perché con le sue fronde ombrose favorisce la conservazione dei prodotti caseari e offre un valido nutrimento per gli animali».
Durante il periodo di crescita demografica torna ad essere piantato il castagno, l’albero che avevamo visto già valorizzato dai Romani e poi alquanto trascurato. La pressante richiesta di derrate alimentari da parte di una popolazione sempre più numerosa produce quella che può essere definita la «rivoluzione del castagno». In Italia esistono almeno una quarantina di comuni — a partire da Castagneto, di cui c’è una prima traccia nel 754 — che testimoniano fin nella toponomastica il successo di quell’albero che garantisce ottime rese alimentari. Nel XII secolo questa «rivoluzione» sarà ancora più evidente. Al culmine della pressione demografica e dei dissodamenti, la coltivazione del castagno si estende alla collina e alla montagna, in presenza di suoli scoscesi che non consentono i disboscamenti e la creazione di campi. In pianura le superfici disponibili vengono coltivate a cereali, mentre sui rilievi la conversione del bosco a castagno si fa più intensa. Fra il XII e il XIII secolo, in tutta la Penisola, foreste di abeti, frassini, faggi, betulle, sambuchi e querce si trasformano in castagneti.
Il castagno protegge dalla carestia, «fornendo un’importante diversificazione alimentare rispetto ai cereali»: le cattive annate del grano, che viene raccolto in estate, non coincidono con quelle delle castagne, che maturano soltanto in autunno. La «rivoluzione del castagno» ha due fasi. Nella prima (750-1100) «si diffonde quasi ovunque, anche sui suoli di pianura, senza tuttavia assumere un ruolo determinante nell’organizzazione paesaggistica ed economica delle società locali». Nella seconda fase (1100-1300) l’avanzata del castagno è più mirata, dal momento che si concentra nelle zone collinari e montane, ma avviene in maniera così consistente da determinare in tali aree una vera e propria civiltà del castagno». E dal frutto di quell’«albero dei poveri» si comincia a trarre una farina da cui si ottiene un pane scuro che consente di affrontare l’inverno in uno stato di relativo ottimismo. Ha osservato Samuel K. Cohn che molti ritengono che le popolazioni di montagna di quel periodo storico siano estremamente povere. Errore: in realtà nel Basso Medioevo la loro maggiore complessità paesaggistica e i benefici che ne derivano le rendono più solide.
Più solide al punto, ed ecco la seconda rivoluzione, che possono permettersi di dar vita a prime forme di cultura ecologista, volte a preservare alcune specie arboree messe a rischio dalle trasformazioni. Il primo documento «verde» è del 1033, contenuto in un atto con il quale il vescovo di Modena concede in affitto terre boscate, mettendo per iscritto una clausola che prescrive ai contadini di adoprarsi affinché «le querce più grandi siano custodite e le più piccole lasciate crescere». Una preoccupazione simile emerge da un documento del 1113 (ottant’anni dopo il primo) con cui Matilde di Canossa ordina ai monaci di San Benedetto di Polirone, vicino al fiume Po, di «tagliare ogni anno non più di dodici esemplari tra roveri e cerri in un bosco poco distante dal monastero». Certo, avverte Riccardo Rao, «tali disposizioni non rispondono a una sensibilità ecologica in senso moderno; non si può dire che esistesse una vera e propria consapevolezza ambientale… Si tratta piuttosto di una forma di ecologia volta alla salvaguardia di risorse paesaggistiche che hanno un ruolo centrale nel sistema economico locale». Comunque non è poca cosa. Anche perché questa sensibilità tenderà a crescere. Le normative prodotte nel Duecento e nei primi decenni del Trecento, quando i coltivi raggiungono le superfici più ampie, «accordano una speciale protezione al bosco», proibendo o limitando fortemente l’abbattimento degli alberi e — come ha ben documentato Rinaldo Comba in Metamorfosi di un paesaggio rurale (Celid) — vietando esplicitamente i disboscamenti in alcune aree dei territori comunali. Dopodiché dalla fine del Medioevo e dall’inizio dell’età moderna verrà un’epoca di disboscamenti selvaggi. Sempre di più. Su tutto il pianeta. E quest’epoca durerà seicento anni. Con qualche ripensamento (peraltro ancora insufficiente) verso la fine del millennio.
Il recente dossier Global Forest della Fao (ne ha riferito qualche giorno fa su queste pagine Sara Gandolfi) denuncia che le foreste del mondo continuano a ridursi, tant’è che nel complesso sono andati perduti 129 milioni di ettari boschivi, un’area grande come il Sudafrica. Ma negli ultimi venticinque anni il tasso di deforestazione globale netto si è ridotto di oltre il 50% e sono aumentate le aree protette. Un dato di grande rilievo, dal momento che le foreste contribuiscono con circa 600 miliardi di dollari l’anno al Pil mondiale, offrendo lavoro a oltre cinquanta milioni di persone. Ma a noi piace pensare che il freno posto alla deforestazione senza freni sia dovuto, almeno in parte, a un recupero di sensibilità medievale.