Corriere 12.10.15
La città vive di cittadinanza
Ritrovare il valore civile dello spazio urbano contro la dittatura della «postmetropoli»
di Vittorio Gregotti
Come è possibile nei nostri anni, individuare un elemento fondante che si costituisca come riferimento nel tempo di una nuova città?
Non più centri cerimoniali, né luoghi dei morti come fu per l’uomo paleolitico, ma neanche le tracce fondative del cardo e decumano, né le fortificazioni come traccia complessiva dell’insieme urbano, né la divisione per funzioni di cui il «centro» e la periferia sono due parti strutturali di vita collettiva in perfetto equilibrio, o il palazzo imperiale è il centro di comando e l’elemento fondante e invece la città è lo schema della perfetta viabilità, o quello intorno ad un grande centro di produzione (niente di più provvisorio). Oppure è un’utopia urbana ed il nucleo stabile è rappresentato dai sistemi che si occupano di cultura scientifica, delle arti, della società stessa e dell’insegnamento, anche se sappiamo bene come tutto questo è ciò che di più dinamico una società potrebbe produrre, e quindi è assai arduo far assumere ad esso una forma stabile.
Ma gli esempi del genere potrebbero continuare, a partire da quello della semplice necessità di abitare: senza gerarchie sociali come luogo dell’incontro necessario di una cittadinanza ideale che muove tra libertà ed equità.
Lo spazio progettuale dei nostri anni è invece probabilmente quello della modificazione della città come qualcosa di esistente a partire dalla conservazione delle sue qualità restanti, nel tentativo di attribuire ad essa un senso specifico anche in relazione al territorio, con la piena coscienza della possibile provvisorietà di quella stessa specificità ed a partire dal tentativo di calmare l’apparente ansiosa necessità della continua variazione del nuovo in tutta la sua provvisorietà come unico valore, ed immaginare un principio insediativo capace invece di durare a lungo ed affrontare il tempo della città in mutazione.
Nei nostri anni di globalismo (lo sappiamo) la città si esprime soprattutto nello sviluppo apparentemente illimitato delle «postmetropoli», sia nelle grandi concentrazioni asiatiche e sudamericane che in quelle, specie africane, che ne assumono la scala per mezzo degli sconfinati accampamenti autocostruiti delle loro poverissime periferie.
L’attenzione nei confronti della città media (non solo europea) si è enormemente affievolita, in parte anche perché molte di esse imitano in modo provinciale le figure delle postmetropoli, in parte perché molte non hanno trovato (nonostante, per alcune, le loro gloriose storie) una sufficiente specificità o un peso economico adeguato. Tuttavia il problema delle «città medie», ed anche piccole, è costitutivo, almeno in Europa, della struttura del territorio, ne articola il servizio con le (relativamente) brevi distanze reciproche. Tuttavia in queste realtà anche la struttura, le architetture e le loro modificazioni ed i nuovi principi insediativi sono incerti, estranei e sovente rovinosi.
Questo non significa un nuovo come ritorno ad un passato neoeclettico e stilistico, ma la ricerca di un inizio capace di muoversi dialetticamente rispetto ad esso e quindi di opporre alle bizzarrie provvisorie dell’architettura nelle città l’interrogativo di quale sia il loro rapporto con quella parte di cittadinanza ancora preoccupata del valore civile della città e del suo disegno. A tutto questo Luigi Mazza cerca di rispondere con un recente volume dal significativo titolo Spazio e cittadinanza (Donzelli editore) per concludere che «le pratiche di governo del territorio sono pratiche politiche» e che in questi anni proprio la relazione tra spazio urbano e cittadinanza si è perduta, perché la finalità primaria del governo della città e del territorio si è posta al servizio del capitalismo finanziario globale ed ha fatto dell’architettura uno strumento «di visibilità dei propri principi», sovente assai lontani da ciò che può fondare, gestire e rappresentare l’interesse di una cittadinanza civile.
Il bel libro di Mazza muove dai tre archetipi di governo del territorio, dalla griglia di Ippodamo da Mileto, alla fondazione come espressione del potere militare rappresentato da Roma (e su questo tema fa riferimento al libro di Joseph Rykwert sul tema dell’idea della città) ed ad un terzo archetipo, in cui la città è composta da sudditi di un potere, un tempo religioso o imperiale, che è ciò che avviene in modi diversi più complessi ed indiretti anche nei nostri anni.
Vi sono poi tre capitoli dedicati al sorgere ed allo svilupparsi del tema della cittadinanza, con speciale contributo (fin troppo specifico) della cultura inglese e nordamericana dal XVIII al XX secolo.
A tre protagonisti architetti urbanisti, costruttori di esempi della città del XIX e XX secolo Ildefons Cerdà, Ebenezer Howard e Patrick Abercrombie (mettendo da parte, non è chiaro perché, Georges Eugène Hausmann, nonostante la sua grande influenza) Mazza dedica una riflessione intorno alla ricerca di un equilibrio positivo tra disegno urbano e cittadinanza. L’apertura nel capitolo successivo è dedicata alle idee intorno al «diritto alla città», a partire da Henri Lefebvre e dalla loro fondamentale importanza nella relazione tra spazio e cittadinanza urbana e territoriale.
Le conclusioni del libro non sono tanto pessimiste da negare la possibilità che domani la cittadinanza torni ad essere «forma di autodeterminazione (...), occasione e spazio in cui i cittadini possono partecipare ad un dialogo di ricostruzione istituzionale» espresso, io aggiungo, in un disegno dell’architettura della città.