La Stampa 12.10.15
Il British celebra i celti, una civiltà fantasy
Nella straordinaria mostra londinese la genesi del mito che raccolse diverse genti nordiche sotto uno stesso nome. Fu l’arte il vero fattore comune unificante: lo stilema della linea curva attraverserà la cultura europea fino al Liberty
di Masolino D’Amico
Un grande dipinto di Anne-Louis Girodet datato 1802, custodito nel castello della Malmaison e intitolato Ossian che accoglie gli spiriti degli eroi francesi, mostra appunto il famoso bardo celtico, cieco come Omero, che accoglie in una specie di Walhalla alcuni giovani generali in divisa napoleonica, si immagina caduti sul campo. Non per nulla infatti l’Empereur era un grande ammiratore di Ossian, il volume dei cui canti si portò dietro nelle campagne di Egitto e di Siria. Peccato però che Ossian fosse una totale invenzione dello scozzese James Macpherson, che a partire dal 1760 lo aveva pubblicato, fingendo di averlo tradotto dal gaelico, sulla scia di una voga iniziata poco prima. A quell’epoca la parola stessa «celt» era appena tornata in circolazione, dopo più di un millennio di oblio. Ma chi erano stati, poi, questi celti? Audacemente la splendida mostra Celts and their Identity, testè inaugurata al British Museum, mette in discussione tutto quanto credevamo di sapere sulla mitica nazione che, si era arrivati a pensare, aveva occupato una enorme distesa dell’Europa centrale più le isole britanniche e la penisola iberica.
Questa idea cominciò a prendere piede agli inizi del Settecento, quando un linguista, un monaco bretone chiamato Paul-Yves Pezron, attribuì un idioma comune scomparso a una vasta popolazione, scomparsa anch’essa, che identificò con i Celti nominati da Giulio Cesare. In seguito antiquari si sbizzarrirono a trovare tracce del passato «celtico», soprattutto in Inghilterra, Scozia e Irlanda, e a quei «celti» attribuirono senza esitazioni costruzioni di pietra come Stonehenge e affini, in realtà appartenenti a una lontanissima preistoria. I greci e i romani avevano chiamato genericamente «celti» i nordici. Il primo a fare una distinzione fu Giulio Cesare nel famoso esordio del De Bello Gallico, dove afferma che la Gallia è divisa in tre parti, abitate rispettivamente dagli Aquitani, dai Belgi, e dai Celti (questi, nella zona tra il Rodano e la Garonna), «che noialtri chiamiamo Galli». Quindi i celti propriamente detti erano solo una tribù della Gallia.
A Nord della Manica nessuno parlò mai di celti, certo non gli interessati, che si chiamavano Britanni, Iberni, Pitti, Iceni e via dicendo. Nella prima sala la mostra mette a confronto due immagini, una convenzionale per i grecoromani, e una autentica: quella di marmo, celeberrima, del cosiddetto galata (ossia, gallo) morente ai Musei Capitolini, replica di una statua greca del 200 a.C. - un guerriero completamente nudo, con le sue armi sul terreno -; e la statua in arenaria, questa venuta dalla Germania, di un altro guerriero «celtico», ritto in piedi con tanto di armatura (che i «celti» combattessero nudi era una fiaba che durò fino ai contatti diretti) e di elmo cerimoniale. Esponenti di due scuole artistiche diversissime, raffinatamente realista la statua greca, grezza, stilizzata e ricca di simboli quella germanica, le due effigi hanno peraltro un significativo tratto in comune: entrambe portano al collo una torque, il collare caratteristico di tutte le popolazioni nordiche. E qui la mostra dà da pensare. Pur notando fondamentali differenze tra etnie - pur riconoscendo che non si può parlare di una comunità «celtica» tra popolazioni che come lo stesso Cesare dice erano divise da lingua, leggi, istituzioni - salta all’occhio come tutti i manufatti (armi, gioielli, utensili, anche un carro) scavati in aree che vanno dal Portogallo alla Danimarca e risalenti a epoche dall’età del ferro al basso Medioevo abbiano in comune una fondamentale omogeneità di stilemi artistici.
In tutta la sterminata area non-classica domina per secoli e secoli, nella decorazione e nella concezione stessa degli oggetti, la linea curva, secondo una stilizzazione sinuosa che ha varie evoluzioni ma che rimane fondamentalmente coerente col proprio principio, e che dopo avere vivacchiato semi-sommersa per secoli sarà ufficialmente adottata dal gusto occidentale. Questo avviene con l’Art Nouveau, movimento preceduto proprio dalla scoperta e dall’imitazione dei gioielli «celtici» trovati in sepolture irlandesi e riprodotti dai gioiellieri ottocenteschi. Qui sono esposte spille rotonde e piatte, simili a quelle tornate di moda con la stagione dei figli dei fiori, molto amate dalla regina Vittoria che ne indossò delle repliche. E’ impressionante, poi, la diffusione della surricordata torque, quel collare ad anello che non si chiude, di metalli intrecciati, talvolta di squisita esecuzione. Se ne trovano campioni dappertutto, con variazioni infinite; qui ce n’è persino una d’argento, con alle estremità due teste di toro entrambe munite di torque a loro volta, pesante quasi sette chili, e certo di uso cerimoniale.
La passione per la linea sinuosa continuò quando l’Irlanda fu evangelizzata nel settimo e ottavo secolo, e la caratteristica spirale degli oggetti artistici «celtici» continuò nella pazientissima, complicatissima decorazione dei codici miniati, di cui qui si ammirano splendidi esemplari, e delle croci celtiche in pietra con motivi rotondeggianti, erette in Scozia e in Irlanda. I ritrovamenti infiammarono la fantasia dei romantici, donde la leggenda di una fiera popolazione alle origini dei britanni ma non solo, vedi i quadri «pompier» con druidi e guerrieri dagli elmi bicornuti. A questa risalgono i miti cui minoranze un po’ dappertutto, Padania non esclusa, si aggrappano oggi per rivendicare, a volte aggressivamente, una identità. Si chiude con la chincaglieria di tipo celtico offerta nei negozi di souvenir, con i fumetti di Asterix, con la maglia bianca e verde dei Celtics, squadra di football dei cattolici di Glasgow.