lunedì 12 ottobre 2015

Corriere 12.10.15
Un breviario filosofico pubblicato da Einaudi
Domande e dubbi, quasi una fede Scalfari esplora il sacro (e la vita)
di Giorgio Montefoschi


Leggo regolarmente gli articoli che Eugenio Scalfari scrive la domenica, e non soltanto la domenica, sulla «Repubblica», il quotidiano che, dopo «L’Espresso», ha fondato una quarantina di anni fa. Di questi articoli, certe volte condivido le idee; altre volte, le condivido con alcune riserve o qualche dubbio; altre volte ancora non le condivido affatto (ma questo ha poca o nessuna importanza). Sempre, invece, ammiro la scrittura di Scalfari: una prosa limpida e scorrevole, un italiano elegante e molto ben costruito, con cadenze classiche. Ammiro anche la sua pazienza e la sua tenacia: la pazienza con la quale continua a occuparsi di quel deprimente «paesaggio con fantasmi» che nell’ultimo trentennio è diventata la politica italiana; la tenacia con la quale tiene sotto tiro chi non la pensa come lui e si comporta — in politica e nella vita — in una maniera che lui pensa si debba combattere. Una pazienza infinita. Un tiro che non si abbassa mai.
Devo dire, però, che ultimamente — parlo di un lasso di tempo non breve — gli articoli di Scalfari che leggo con maggiore interesse e curiosità sono quelli nei quali, talvolta dialogando a livelli alti (ricordo, per esempio, i bellissimi incontri, davvero commoventi, con il cardinal Martini), affronta gli argomenti cosiddetti «religiosi»: la fede, l’anima, la vita futura, Dio. Lo fa, da illuminista, con passione, col coraggio e gli inevitabili limiti della mente, e, credo, nella più totale sincerità.
Scalfari è ateo, non credente e, in questi articoli, non manca mai di ribadirlo con decisione. In una risposta del 7 marzo del 2014 al rabbino capo della comunità ebraica di Roma, Riccardo Di Segni, scrive testualmente: «In che cosa credo io? Non credo che esista un Aldilà dove le anime degli individui umani proseguono in qualche modo a vivere; non credo in nessuna divinità; non credo che le nostre persone siano composte da un corpo mortale e da una essenza immortale chiamata anima; non credo che il nostro transito mortale abbia un senso ultimo. Credo che abbia un senso nell’Aldiqua se l’individuo in questione ritiene di darselo, il che molto spesso non avviene. E questo è tutto circa la mia non credenza». Più chiari di così non si potrebbe essere.
Senonché, pur con tutto il rispetto che meritano la sua intelligenza e queste convinzioni proclamate con tanta determinazione (motivo ogni volta del mio stupore), io non sono mai stato persuaso fino in fondo che Eugenio Scalfari avesse queste granitiche certezze. Ora, leggendo il libro che ha appena pubblicato da Einaudi, L’allegria, il pianto, la vita — un diario nel quale raccoglie i suoi ricordi, i pensieri dell’ultimo anno, le riflessioni sugli scrittori e i poeti che ama — me ne sono persuaso ulteriormente. Come fa a dirsi ateo un uomo che fin dall’infanzia, molto prima di contare i giorni — come ci racconta nel suo diario — è vissuto corteggiando la morte? Come fa a proclamarsi non credente un uomo che non smette di dialogare con il Dio nel quale non crede? Un uomo che, certo, scrive: «Dio non esiste perché siamo noi ad averlo inventato», e subito dopo aggiunge: «Ma dove nasce il pensiero? Qualcuno o qualche cosa hanno creato il cogito (di Cartesio)»? E più tardi, il 30 maggio del 2015, scrive: «Io credo nell’Essere che contiene tutte le cose, tutte le creature, tutte le energie, tutti gli elementi. L’Essere è il Caos, creatore di tutte le forme. Ho già più volte manifestato questa mia credenza, ma, mentre la ripeto, mi accorgo che anche il Caos creatore ripropone la domanda: chi ha creato il Caos»? Chi è, cos’è questo Essere, il Caos, del quale, secondo Eugenio Scalfari, ciascuno di noi possiede dentro di sé una scintilla? Chi, al cospetto di questo Essere misterioso, può sostenere la certezza incrollabile di negarlo? E, dall’altra parte, chi è così beato da possedere la certezza opposta e poter dire senza mai vacillare: io credo?
Alcuni anni fa, a Gerusalemme, intervistai un importante teologo domenicano, Claude Geffré. Mi accolse, in jeans chiari, camicia button down a quadrettini bianchi e verdi, un pacchetto di Marlboro in mano, sulla soglia della Scuola biblica e archeologica francese immersa in un meraviglioso giardino pieno di cespugli di salvia e rosmarino. La prima domanda che gli feci fu: «Chi è Dio?» Mi rispose: «Dio è il mistero per eccellenza. La risposta all’enigma del mondo che vediamo, l’enigma della nostra stessa esistenza. E se si dovesse trovare una definizione di Dio, ma non esiste una definizione di Dio, direi che è l’Amore assoluto». L’intervista avrei potuto finirla lì.
C’è un profumo di adolescenza (una condizione che Scalfari non smette mai di ricordare, probabilmente ha accompagnato tutta la sua vita, e si ritrova nei momenti di caparbietà e in quelli non rari di pianto) nel diario scritto «da un anziano» per il bisogno di specchiarsi nei propri pensieri e nelle proprie memorie. E ci sono parecchie pagine scritte da narratore, anche se Scalfari ritiene di non esserlo. Tra queste vorrei ricordare la morte di suo padre, con quel tocco delle mani del figlio sulle spalle del padre morente; quelle sulla morte di Pannunzio, in clinica, visto da uno spiraglio della porta; e quelle delle condoglianze per la morte di Berlinguer portate da Scalfari a Botteghe Oscure, con Ingrao al centro di un semicerchio ancora sovietico nel quale avrebbero potuto tranquillamente sedere almeno Suslov e Brežnev. Ma farei un torto al libro se non raccomandassi un «pezzo» di grande giornalismo che c’è nel volume: il lungo incontro di Scalfari con Gassman e Mastroianni più che settantenni nella saletta di un albergo romano, prima di stare insieme a colazione. Un gatto soriano morbido e un cane lupo buono, disponibili soltanto a zampate amichevoli e qualche timido graffio.