Corriere 11.10.15
Dai Medio Oriente un conflitto globale?
Noi e la paura di una guerra mondiale
La formula di papa Francesco sulla Terza guerra mondiale «a pezzettini» si dimostra ogni giorno più tragicamente esatta.
L’ultimo pugno nello stomaco ci viene da Ankara, in Turchia, con la strage di giovani che ieri manifestavano per la pace.
Molti di loro avevano l’età dei nostri figli.
Ma serve davvero a qualcosa domandarsi chi abbia indottrinato e armato chi ha causato la strage? I siriani che hanno ogni interesse a destabilizzare la Turchia, gli iraniani per lo stesso motivo, la fazione più dura dei curdi in lotta con quella più moderata, gli agenti di Erdogan, che spera di strappare la maggioranza assoluta alle elezioni del primo novembre?
L’impressione, piuttosto, è che in una ampia zona del mondo che chiamiamo Medio Oriente ma che tocca l’Europa e l’Africa i «pezzettini» di Francesco si stiano ricompattando in una guerra globale a noi vicinissima, che sarebbe autolesionista tentare di ignorare o di sminuire. Il rapporto tra civiltà occidentale e civiltà islamica non è diventato complesso e conflittuale per una deriva storicamente fatalista come quella prevista da Huntington, ma piuttosto perché in entrambi i campi la caduta del Muro di Berlino e la fine dell’ordine dei blocchi ha fatto esplodere crisi interne di cui non si vede la fine. L’Occidente ha «perso» il nemico sovietico (anche se ora tenta di ritrovarlo con la generosa complicità dal Cremlino) e fatica a mantenersi unitario in un mondo che spinge piuttosto alla competizione economica e strategica. Fenomeno questo aggravato dal palese indebolimento della leadership americana e dal fallimento delle ambizioni europee sulla «voce unica» in politica estera. Ma la crisi del mondo islamico è molto più grave della nostra: è guerra senza quartiere tra sunniti e sciiti, è corsa alle interpretazioni più estreme del Corano, è odio incrociato tra fazioni e Stati (anche se il Nobel alla Tunisia segnala l’esistenza di eccezioni).
Le due crisi, quella occidentale e quella islamica, si scontrano confusamente in una partita che ha per posta la difesa per gli uni, e la distruzione per gli altri, dell’ordine geografico e politico che i colonizzatori occidentali credettero di poter imporre dopo la caduta dell’impero ottomano. Con l’aggravante che oggi sono ben più chiare, oltre alle contrapposizioni religiose, anche le mappe di enormi ricchezze. E che nei decenni si sono aperte ferite che paiono insanabili almeno fino a quando sulla scena globale non arriveranno statisti di levatura diversa rispetto a quelli che oggi non riescono a tenere il timone degli equilibri mondiali.
È in questa cornice che i «pezzettini» di guerra interagiscono e creano le premesse di un grande, tragico falò. In Siria si spara e si polemizza, ma si tende spesso a dimenticare che lì nasce la minaccia che sta agendo da grimaldello guerrafondaio nei confronti di tutte le altre parti: l’Isis, il nemico numero uno, ma di chi? Dell’Europa di certo, anche per la paura di nuovi attentati terroristici. Della Russia al pari di altri, visto che i molteplici obbiettivi di Putin sono salvare Assad, colpire i jihadisti provenienti dal Caucaso e piantare la bandiera per eventuali negoziati oppure, più probabilmente, in vista di una eventuale spartizione territoriale della Siria. Degli Stati Uniti l’Isis è il nemico principale, ma nemico è anche Assad (e qui le due strategie diventano incompatibili) ed è nemica strategica una Russia che ha occupato fulmineamente lo spazio vacante lasciato dagli Usa.
E che dire degli altri, mentre piovono bombe che non si sa bene chi colpiscano e volano missili che non si sa bene dove cadano? La Turchia colpisce i curdi più dell’Isis ed è contro Assad. Dunque è contro l’Iran, che non vuole stare con la Russia, ha rapporti ancora guardinghi con gli Usa, ma sta con Assad perché pensa alla difesa dello schieramento sciita. Per il motivo opposto l’Arabia Saudita sta con i sunniti dunque contro Assad, e ha inizialmente finanziato l’Isis.
Fermiamoci qui, per la Siria, anche se si potrebbe continuare. E in Iraq? I fronti schierati contro il Califfato sono più chiari, ma spesso divisi al loro interno tra componenti sciite e componenti sunnite impegnate comunque contro l’Isis. È nell’aiuto a queste ultime che bisognerebbe fare di più, perché soltanto una maggioranza di sunniti può davvero sconfiggere i sunniti estremisti dell’Isis. E se l’Italia manterrà le promesse fatte agli Usa i nostri Tornado potranno dare un piccolo contributo in questo senso, oltre a confermare l’appoggio ai curdi.
Nel frattempo il Libano e la Giordania sono stati resi più fragili (come la Turchia) dall’enorme afflusso di profughi siriani. Nello Yemen avvengono massacri circondati dalla disattenzione generale. Israele non vuole una terza Intifada, ma i palestinesi sembrano invece decisi ad attuarla anche per bilanciare l’estrema debolezza di Mahmoud Abbas. E l’ombra più cupa che si avvicina è una nuova guerra di Gaza, combattuta sulle macerie di quella precedente. La Libia che ospita un avamposto dell’Isis ci impone di attendere, anche se una eventuale ratifica del governo di unità nazionale risulterà utile (forse) al Consiglio di sicurezza più che sul terreno dal quale ci giungono, quando riescono a giungere, tanti migranti. E se poi la scelta si orientasse verso l’imposizione militare di una pace inesistente, rischieremmo di commettere un grave errore di calcolo.
Ne abbiamo trascurati parecchi di «pezzettini», a cominciare dalla crisi Ucraina che entro gennaio dovrà sciogliere il dilemma tra congelamento sulle posizioni attuali e scontato rinnovo delle sanzioni anti Russia, oppure cantonizzazione del Donbass, accordo sul confine Ucraina-Russia e difficile confronto euro-americano sulle sanzioni.
In Europa oggi l’arrivo dei migranti pare più grave e urgente di un possibile ritorno alla Guerra fredda. Brutto segnale anche questo.