Corriere 10.10.15
«I bambini non escono più da soli. Non ci fidiamo gli uni degli altri» Disoccupazione I ragazzi si sentono oppressi e non trovano lavoro. La frustrazione li spinge in strada
Lo scrittore Khaled Diab: «Pericoloso il populismo di chi chiama alle armi»
di Davide Frattini
GERUSALEMME Le immagini lo mostrano con la camicia azzurra che indossa per andare in ufficio e il fucile mitragliatore a tracolla. Il sindaco Nir Barkat ha servito sei anni nella Brigata paracadutisti (quella che ha avuto come primo comandante Ariel Sharon), ne fa sfoggio in campagna elettorale e lo esibisce adesso che la sua città sembra tornata in guerra. Pattuglia le strade la notte, invita gli abitanti ebrei a fare lo stesso. «Chi possiede un’arma deve sempre portarla con sé — ha commentato — per fortuna in questo Paese ci sono molti militari e riservisti ben addestrati».
L’appello di Barkat spaventa lo scrittore Khaled Diab, di origini egiziane, che ha vissuto tra l’Europa e il Medio Oriente e da un paio d’anni abita a Gerusalemme. Lo spaventa la chiamata alle armi perché gli sembra «pericoloso populismo». Ammette che la paura è cresciuta: «Mio figlio ha sei anni, frequenta la scuola francese e il preside ha vietato a tutti i bambini, anche a quelli più grandi, di tornare a casa da soli. Durante l’intervallo non possono più uscire».
Blindati come gli accessi alla Città Vecchia dove la polizia ha installato i metal detector nella speranza di fermare i possibili attentatori palestinesi, gli ultimi attacchi sono stati tutti perpetrati con i coltelli. «Nella Città Vecchia non andiamo più — spiega Diab — perché il rischio di rimanere coinvolti negli scontri è troppo alto».
Come ha raccontato sul Corriere , per la sua famiglia il pericolo è doppio: «E se un estremista ebreo ci sente parlare arabo? E se un estremista palestinese ci piglia per ebrei, un padre di carnagione scura e il suo figlio biondo?». È «dall’estate dell’odio che il senso di sicurezza e il residuo di fiducia reciproca sono stati azzerati». Le violenze vanno avanti da oltre un anno, dal rapimento e l’uccisione dei tre ragazzi israeliani, dall’omicidio per vendetta di un adolescente palestinese, dai sessanta giorni di guerra con Hamas a Gaza.
«Gli analisti si chiedono se battezzarla terza intifada. Di certo è una rivolta che non si placa, anche se per ora non sembra essere organizzata da leader. Un elemento nuovo rispetto al passato è rappresentato dalle rappresaglie dei coloni ebrei che si fanno le leggi da soli».
Nel suo libro «Intimate Enemies» ricorda e cataloga le passioni comuni dei palestinesi e degli israeliani ma «le due società hanno visto uno spostamento dal nazionalismo secolare e di sinistra verso il populismo di destra, con forti connotazioni religiose».
«Il presidente Abu Mazen cerca di barcamenarsi. Usa una retorica molto bellicosa sulla questione della moschea Al Aqsa. Lo fa per zittire le critiche interne, quelle di chi lo considera troppo debole o lo accusa di essere un dittatore che non ha mai indetto le nuove elezioni. Deve anche contrastare la concorrenza di Hamas: pure gli islamisti sfruttano la Spianata per lotte politiche tra i palestinesi, vogliono dimostrare che Abu Mazen non è in grado di proteggere i luoghi sacri».
David Rosenberg sul quotidiano israeliano Haaretz attribuisce parte della rabbia araba alla stagnazione economica: la crescita in Cisgiordania è zero, le prospettive di un rilancio ancora peggiori.
«I ragazzi si sentono oppressi, trovare una casa è impossibile, mancano gli appartamenti o sono troppo cari perché Israele non concede i permessi per costruire. La disoccupazione è alta soprattutto tra i giovani, così la frustrazione li spinge a scendere in strada».