sabato 10 ottobre 2015

Repubblica 10.10.15
Quei fantasmi sulla Spianata
Il luogo è di nuovo al centro della contesa. La vecchia ferita sanguina ancora ed è esposta al pericolo di un contagio in una regione piena di fanatismi
La moschea di Al Aqsa l’ultimo simbolo che infiamma la rivolta dei delusi da Abu Mazen
di Bernardo Valli


ABRAMO vi preparò il sacrificio del figlio Isacco. Gesù vi frequentava il Tempio ebraico (il secondo). Maometto vi spiccò il volo verso il cielo. La Spianata delle moschee per i musulmani o il Monte del Tempio per gli ebrei è, a Gerusalemme, uno spazio popolato di avvenimenti salienti per le tre religioni monoteiste. Al tempo stesso è un luogo che suscita aspre contese. Su una parete, in molte case palestinesi, c’è un manifesto o una fotografia della Spianata sulla quale sorgono le moschee di Al Aqsa e di Omar. In particolare l’immagine della moschea di Al Aqsa ha un valore non soltanto religioso. È il prezioso frammento di un’identità frustrata che nella Palestina occupata è rimasto un estremo e irrinunciabile simbolo.
Conquistata nel ’67 quell’area tanto carica di storia è stata considerata dagli stessi israeliani un bene religioso islamico ( Waqf) e il suo controllo è stato affidato alle autorità giordane. Le quali, nei momenti di crisi, si astengono dal difficile, ingrato compito. È quel che minacciano di fare in questi giorni. L’accesso alla Spianata è riservato ai musulmani per le preghiere; mentre gli ebrei recitano le loro nel sottostante Muro del Pianto. Capita spesso, da anni, che per evitare manifestazioni gli israeliani proibiscano ai palestinesi di meno di cinquant’anni (l’età limite è variabile) di raggiungere la Spianata. E accade che gli ebrei ortodossi violino le consegne e vadano a compiere riti o organizzino riunioni nello spazio a loro vietato. Questo appare ai musulmani una provocazione.
Nel 2000, il 28 settembre, due mesi dopo il fallimento del vertice di Camp David, negli Stati Uniti, dove si era sperato invano di risolvere il conflitto israelo-palestinese, Ariel Sharon, allora capo dell’opposizione di destra, raggiunse la Spianata, e il suo gesto fu interpretato come un segno di sfida. Il giorno successivo vi fu una manifestazione musulmana di protesta durante la quale furono uccisi cinque palestinesi, nell’area tra le due moschee, e altri due nella città vecchia. Cosi è cominciata la seconda Intifada (insurrezione), battezzata “Al Aqsa”. Durò cinque anni e fece circa 4.700 vittime, l’ottanta per cento delle quali palestinesi. Fu molto più sanguinosa della prima Intifada (1987-1993) che contò 1.258 palestinesi e 150 israeliani uccisi, e fu chiamata “dei sassi” o “delle pietre”, perché al contrario di quel che accadde nella seconda gli insorti non usarono armi da fuoco.
Siamo adesso alla terza Intifada? Non sono in pochi a pensarlo. Ismail Haniyeh, il capo di Hamas nella Striscia di Gaza, ne è convinto. Ma per ora resta un incubo per la maggioranza degli israeliani come per la maggioranza dei palestinesi. Le aggressioni improvvise con dei pugnali si moltiplicano e ci sono stati sei morti a Gaza nelle ultime ore. La scintilla c’è stata. Ma non l’incendio. Ancora una volta la Spianata delle Moschee è al centro della contesa, alimentata da tanti episodi sanguinosi che non hanno, per ora, l’estensione di un’insurrezione.
I palestinesi accusano il governo di Gerusalemme di limitare ai musulmani l’accesso al luogo santo, ma soprattutto di non respingere in modo netto le rivendicazioni degli estremisti israeliani. I quali, malgrado la proibizione, scortati dalla polizia armata, raggiungono al mattino presto la Spianata. «La considerano una zona di guerra poiché ci vengono scortati dai mitra», dicono i custodi palestinesi delle moschee. Inoltre molti sono convinti che gli israeliani vogliano distruggere le due moschee, quella di Omar (o Cupola della Roccia), e di Al Aqsa. O che si preparino a costruire tra le moschee una sinagoga, che sarebbe il terzo Tempio, dopo i due distrutti nell’antichità. Le ripetute smentite non sono ascoltate, destano invece sospetto i propositi provocatori degli estremisti israeliani.
Collere e fantasmi si addensano attorno alla moschea di Al Aqsa. Essa sorge sul terzo luogo santo dell’Islam, dopo la Mecca e Medina, e sulla sua immagine appesa alle pareti di molte case si concentrano tanti sentimenti, non essendo l’indipendenza neppure più un miraggio. La bandiera nazionale alle Nazioni Unite, il rango di osservatore della Palestina presso quell’istituzione tanto internazionale quanto impotente, le audaci parole del presidente dell’Autorità nazionale palestinese all’Assemblea generale di New York, come del resto tutte le puntuali dichiarazioni e promesse fatte in numerose capitali del mondo, hanno finito con l’avere scarso valore per i giovani e le giovani (numerose sono le ragazze che partecipano alle manifestazioni), nati dopo il 1993, l’anno degli accordi di Oslo che sembrava fossero il preludio alla nascita di uno Stato palestinese. Quel che è visibile, concreto, è il continuo espandersi degli insediamenti, tra il Mediterraneo e il Giordano, nel nome del Grande Israele.
Abu Mazen, il capo dell’Autorità nazionale palestinese, incarna la delusione. Impopolare tra i suoi, perché rappresenta l’impotenza politica o addirittura la collaborazione, non è preso sul serio neppure dagli israeliani. È una dignitosa figura che non incide sulla realtà. Quindi con scarso credito come leader cui è affidata la missione, per ora impossibile, di creare uno Stato. In queste ore il governo di destra, presieduto da Benyamin Netanyahu, considera con sospetto Abu Mazen, il quale ha condannato le violenze degli israeliani ma non quelle dei palestinesi. E quest’ultimi pensano che i rapporti tra le forze dell’ordine dell’Autorità palestinese e quelle israeliane non siano state congelate, come si dice, ma che in effetti continuino con discrezione.
Nel Medio Oriente costellato di vulcani in eruzione, il conflitto israelo-palestinese sembrava un cratere sonnolento, tutt’altro che spento, ma quieto. Periferico. Le vicine guerre hanno cambiato le alleanze. Israele è affiancata di fatto all’Arabia Saudita, e in generale ai paesi sunniti in lotta contro l’Iran sciita sul campo di battaglia siriano. Dove si incrociano aerei americani e russi. Tutti belligeranti interessati a problemi incandescenti, immediati, e non a crisi croniche e in apparenza e irrisolvibili come quella tra palestinesi e israeliani. Invece la vecchia ferita sanguina ancora, ed è esposta al pericolo di un contagio, in una regione generosa in armi e fanatismi. Mentre in Terra Santa c’è urgente bisogno di ragione.