mercoledì 9 settembre 2015

Repubblica 9.9.15
Una risposta globale per affrontare la crisi del secolo
di Angelina Jolie Pitt e Arminka Helic


IN NESSUNA FASE della storia recente si è avvertita maggiore necessità di leadership per affrontare le conseguenze e le cause della crisi globale dei profughi. Non c’è nulla che testimoni questa realtà quanto le colonne dei profughi provenienti da paesi come l’Iraq, l’Afghanistan e la Siria, in marcia per varcare i confini europei. La guerra in Siria ha prodotto un’ondata di sofferenza umana che si è distesa su tutta la regione fino a raggiungere le coste d’Europa. I siriani fuggono dalle bombe barile, dalle armi chimiche, dagli stupri e dai massacri. Il loro paese è diventato un campo di sterminio.
Non dovrebbe sorprendere che la gente che ha sopportato anni di guerra, o ha vissuto nei campi profughi con razioni alimentari sempre più ridotte, prenda le redini della situazione. Quanti di noi possono dire in tutta sincerità che al loro posto non farebbero altrettanto, di fronte alla paura, all’assenza di speranze, alla palese mancanza della volontà politica di porre fine al conflitto.
Ci siamo identificati con i siriani quando rivendicavano la libertà politica ed economica nel loro paese. Ci siamo indignati di fronte alle immagini delle loro famiglie bombardate dentro le case, dei bambini estratti dalle macerie, delle città invase dagli estremisti. In Europa come altrove i siriani meritano la nostra solidarietà. Nel corso delle ultime settimane siamo stati testimoni di numerose prese di posizione morale da parte della cittadinanza e dei politici, abbiamo visto accogliere gruppi di rifugiati, ascoltato nuove dichiarazioni di impegno ad assisterli. Per la prima volta da anni i profughi sono in prima pagina e alla ribalta del dibattito. Dobbiamo fare di questo fatto un punto di svolta nella visione globale non solo del conflitto siriano, ma della crisi mondiale dei profughi. Non basta il cuore, serve anche la testa: non bastano gli aiuti, serve anche la diplomazia e non basta concentrare gli sforzi su quest’anno, bisogna pensare al futuro.
Dobbiamo affrontare qualche dura realtà. La prima è che la responsabilità di aiutare non deriva dalla casualità geografica, ma dall’adesione ai valori e ai diritti umani universali, che trascende la religione, la cultura e l’etnia. Non bisogna puntare al minimo comune denominatore nell’affrontare la crisi dei profughi, ma battersi per essere all’altezza dei grandi ideali. Tutti i paesi del mondo, non solo quelli europei, devo contribuire a risolvere il problema.
La seconda realtà è che la portata del flusso di profughi che si muovono verso l’Europa pone ai paesi Ue sfide di carattere politico, sociale, economico e di sicurezza. Queste istanze non si possono ignorare. Ai governi spetta la responsabilità di trovare le risorse per affrontare le implicazioni interne e facilitare l’integrazione dei profughi. I paesi confinanti con la Siria da anni sopportano carichi ben più gravosi e hanno bisogno di maggiore assistenza. Ogni paese e ogni governo deve avere un piano ben preciso per assolvere ai suoi obblighi internazionali.
La terza realtà è che in questa fase di emergenza dobbiamo essere consapevoli della differenza tra i migranti per motivi economici, che cercano di sfuggire alla povertà estrema, e i profughi in fuga di fronte a una minaccia immediata alle loro vite. Tutti coloro che si spostano in queste tragiche circostanze devono veder rispettati e tutelati i propri diritti umani e la propria identità. Non si bolla nessuno perché aspira a una vita migliore. Ma i profughi hanno la necessità immediata di essere salvati dalla persecuzione e dalla morte e i loro diritti sono sanciti dalle norme internazionali. Per questo è importante ricorrere a efficaci procedure di accoglienza e selezione, che permettano di esaminare le richieste e di estendere la protezione a chi la necessita.
Per quanti profughi accogliamo il problema continuerà a crescere finché perdurerà il conflitto in Siria. Non possiamo donare una via di uscita dalla crisi, non possiamo risolverla semplicemente accogliendo i profughi, dobbiamo trovare una strada diplomatica per porre fine al conflitto. È sbalorditivo che dall’inizio della guerra in Siria il Consiglio di sicurezza dell’Onu non si sia ancora recato in visita alla regione, cosa che agli occhi di molti di noi costituirebbe l’indispensabile punto di partenza dell’azione diplomatica. L’iniziativa di pace avviata a Ginevra quattro anni fa si è pian piano esaurita e l’energia con cui sono stati condotti i negoziati sul nucleare iraniano finora non si è manifestata per la Siria. Dobbiamo essere realistici: questa crisi è parte di una crisi più ampia del governo mondiale. Negli ultimi 10 anni il numero delle persone costrette a lasciare le proprie case nel mondo si è raddoppiato, toccando i 60 milioni. La situazione è insostenibile e ben oltre le possibilità di gestione da parte delle organizzazioni umanitarie internazionali. È dovuta all’incapacità sistemica di risolvere i conflitti. Nulla è più rivelatore dello stato del mondo dello spostamento di individui oltre i confini. È tempo di cercare soluzioni a lungo termine e di riconoscere che sono i governi e non i profughi a dover dare la risposta. Non è la prima crisi di questo tipo che abbiamo affrontato né sarà l’ultima. Dall’Europa all’America i nostri paesi sono costruiti in parte sulla tradizione del sostegno ai profughi, dal dopoguerra al conflitto dei Balcani degli anni ‘90. La nostra reazione di oggi sarà conferma della nostra identità di paesi, dell’intensità della nostra umanità e della forza delle nostre democrazie.
© Questo articolo è stato pubblicato dal “Times” di Londra (traduzione di Emilia Benghi)