mercoledì 9 settembre 2015

Repubblica 9.9.15
Quegli abusi di potere per amore di metafora
Dal Leviatano alla crisi greca, l’analisi di Gianrico Carofiglio sulla figura retorica più potente e più smodatamente utilizzata.Soprattutto nel discorso politico
di Gianrico Carofiglio


Nel 1651 Thomas Hobbes bandì dal linguaggio politico «l’uso metaforico delle parole». Non si trattò di un editto fortunato: le metafore politiche non solo non sono scomparse, ma si sono anzi moltiplicate al punto che oggi è difficile anche solo contarle. Era facile, d’altronde, prevedere che quella condanna non sarebbe stata eseguita. Troppo singolare la circostanza che, per il nascente Stato moderno, Hobbes stesso avesse escogitato una metafora sbalorditiva, quella del gigantesco mo-stro
mitologico descritto nella Bibbia, il Leviatano. Ma, soprattutto, era troppo antica la storia delle metafore politiche per poter esser recisa da un ordine, per quanto autorevole. Nella Repubblica Platone aveva paragonato l’assetto della città all’anima umana. Niccolò Machiavelli aveva prescritto al principe di imparare a usare, a seconda dei casi, la forza del leone e l’intelligenza della volpe. Nella modernità è poi diffusamente circolata l’immagine dello “Stato- macchina”; finché, negli anni Settanta del Novecento, il filosofo Robert Nozick, teorico estremo del libertarismo, ha sostenuto che lo Stato dovrebbe comportarsi come un “ guardiano notturno”. Alludeva, con tale espressione, alla necessità che gli spazi di intervento dello Stato fossero limitati al minimo indispensabile, consentendo il più ampio dispiegarsi della libertà individuale.
In realtà la metafora non è una figura retorica come le altre: essa può produrre effetti molto difficili da ottenere con argomentazioni ordinarie e lineari. Può illuminare un concetto altrimenti troppo oscuro. Può sciogliere un problema intricato. Può svelare un aspetto decisivo, e fino a quel momento trascurato, di una questione importante. La metafora può comunicare ciò che un discorso ordinario rischia spesso di occultare. In termini più radicali: la metafora, più che una semplice figura retorica, è una forma del pensiero. Il nostro modo di ragionare e comunicare è disseminato di metafore, anche se molte sono di uso così comune che nemmeno ci accorgiamo della loro esistenza. Tanto per dire: disseminato è una metafora. Il nostro è un linguaggio metaforico e prenderne consapevolezza è un passaggio fondamentale per comprendere certi meccanismi. A cominciare da quelli della comunicazione e della manipolazione politica. Riconoscere le metafore non è troppo difficile; meno scontato descriverle, se è vero — come ha notato Umberto Eco — che la voce metafora è la bestia nera di ogni dizionario. Che cos’è dunque, propriamente parlando, una metafora?
Fra le tante definizioni che si possono scegliere, quella più efficace ci viene dal confronto con la similitudine. In essa si associano due cose diverse allo scopo di spiegarne una — meno nota — attraverso il riferimento a un’altra — più nota. Si dice che la faccia di Cesare era come un cielo in tempesta, e «come un cielo in tempesta» è una similitudine, uno strumento molto lineare e immediato per rendere un concetto. Ma molto più potente è dire «la faccia di Cesare era un cielo in tempesta». A prima vista la metafora parrebbe solo una similitudine abbreviata, ma in realtà l’assenza dell’avverbio come produce una drammatica moltiplicazione di senso. La metafora è più potente della similitudine perché — quando è ben concepita e non volta alla manipolazione — costringe la mente a un cambio di piano, a un vero e proprio scarto della conoscenza o dell’intuizione.
Le metafore sono dappertutto, anche se di solito non ce ne rendiamo conto. Esse sono nel diritto, nella psicoterapia, nella pubblicità, ovviamente nella letteratura. E soprattutto nella politica. Proprio in questo campo, più che in altri, oggi viviamo l’epoca delle troppe metafore, delle metafore sbagliate, delle metafore tossiche. Braccio di ferro tra Atene e Berlino, aprire un tavolo, c’è qualche mela marcia, i cespugli del centro, il teatrino della politica, abbassare la guardia, il colpo di spugna, franchi tiratori, gogna mediatica, macchina del fango, staccare la spina, scontro tra falchi e colombe. Si potrebbe continuare a lungo, ma anche solo questo rapido elenco ci illustra come il discorso politico sia oggi molto (forse troppo) ricco di immagini e piuttosto povero di idee.
Le metafore politiche, analizzate dal punto di vista etico, si dividono infatti in due categorie: molte sono strumenti di manipolazione e ottundimento dell’intelligenza individuale e collettiva; altre un formidabile mezzo di trasformazione del reale. La spropositata quantità di metafore cui si faceva cenno è, dunque, solo una parte del problema. L’altro fondamentale aspetto riguarda la qualità delle metafore in uso nel dibattito politico italiano e l’orizzonte di senso che esse sono in grado di produrre.
La questione, inutile dirlo, non ha un mero carattere retorico o speculativo. Le metafore — e quelle della politica in particolare — incidono sui sistemi di credenze individuali e collettive e orientano, quando addirittura non determinano, comportamenti e scelte. In altre e più sintetiche parole: le metafore hanno il potere di creare o comunque trasformare la realtà.
Non è quindi senza conseguenze il fatto che, nel discorso pubblico, prevalga una metafora anziché un’altra, un sistema metaforico piuttosto che un altro. Per capire chi vincerà o chi perderà una competizione politica è necessario — anche se certo non sufficiente — verificare quale dei contendenti è munito dell’armamentario metaforico più adeguato e penetrante. Bisogna dunque in primo luogo riflettere sull’efficacia di tali armamentari, a prescindere, per il momento, da ogni valutazione sul loro contenuto etico.