mercoledì 9 settembre 2015

Repubblica 9.9.15
Così si può amare la vita anche se non ha senso
di Massimo Carofiglio


Una riflessione sull’esistenza e sulla sua bellezza, nonostante sia effimera in “Il mondo sia lodato”, il nuovo poemetto di Franco Marcoaldi
La caducità delle cose — destinate a sparire nel nulla — rende impossibile la bellezza del mondo? Ha forse ragione il condannato a morte del racconto Il muro di Sartre a pensare che la vita non “vale nulla dal momento che è finita”?
Questi interrogativi sono una porta di entrata nell’ultimo, intensissimo poemetto di Franco Marcoaldi titolato Il mondo sia lodato nel quale ritorna il battito tra l’apertura della vita e la chiusura della morte che aveva permeato la precedente raccolta di versi dal titolo La trappola (2012): «Si chiude e si apre/ di continuo lo spiraglio/ a meno che non sia l’eterno/ abbaglio della vita». Nondimeno il passo che egli compie in quest’ultimo lavoro pare ancora più radicale. Mentre ne La trappola prevaleva ancora il conflitto irrisolto tra la spinta vitale e il suo intrappolamento mortifero, adesso la contingenza illimitata della vita viene redenta in quanto tale da un “Si!” che diventa “lode” senza reticenze per il mondo, la cui forza non può non ricordare quello pronunciato dallo Zarathustra di Nietzsche.
Si può sopportare davvero il reale privo di senso della vita? Si può amare la vita anche se la vita è senza fondamento, se non è altro, come scrive il poeta, che un “incombente abisso”? «Posso lodare/ il mondo in mancanza/ di un ulteriore trascendente/ sfondo?». Posso lodarlo non nonostante la sua caducità, la sua imperfezione, il suo orrore, ma proprio per la sua caducità, per la sua imperfezione, per il suo orrore? Perché «merita lode/ il sorriso ed il pianto/ l’orrore e l’incanto»?
La lode del mondo non avviene nel nome di alcun aldilà, non è ispirato dall’esistenza di nessun «mondo dietro il mondo»: «Per strada si spazzano polvere/ e incubi, nei bagni si radono/ barbe e blandiscono cuori»; l’eterno non è l’alternativa al divenire, non è fuori dal tempo, ma accade nel tempo; la redenzione della vita avviene solo attraverso l’accoglimento della vita. È questo lo spirito cristiano e francescano che permea le pagine del libro. La vita è accolta in toto, senza resistenze, ma senza alcun idealismo. Essa non è il fondamento di se stessa, non è mai autofondata. È sempre fatta di quello che gli altri ci hanno lasciato. In questo è da sempre in rapporto alla morte, o, meglio, con i morti («ai morti/ chiedo di offrirmi qualche appiglio») dai quali proveniamo.
Il dialogo che Marcoaldi tesse con gli spettri del proprio passato è struggente e delicatissimo: si può avere una madre persa, sprofondata nella nebbia, «sull’orlo di abissi/mentali paurosi» con «quel viso/d’improvviso incagliato/in confuse domande », e, al tempo stesso, amarla? Si può amare questa madre resa umanissima dalla sua castrazione? Si possono amare un padre e un fratello che non ci sono più? La natura del mondo è matrigna; essa resta indifferente alle sorti umane: «Ho visto paurose alluvioni/ annegare nell’onda assonnati/ bambini, preziosi violini/ nel fango perdere/ il loro perfetto suono». La vita non è ordinata dal telos perché «l’ordine è solo nei cieli». Possiamo — allora — lodare il mondo se «lungo le nostre strade/invece s’aprono fosse,/ buche, fenditure, squarci?». Marcoaldi non opta per la via leopardiana della resistenza della Ginestra; ne imbocca un’altra, altrettanto stretta; non quella della resistenza, ma della resa. Egli si arrende, si abbandona al mondo e proprio in questo movimento di arretramento, accede ad un altro volto del mondo. La morte non è distruzione della vita, ma un nome della vita: «Tra il buio e la luce/il silenzio e la voce/penso e sogno, vivo/ e muoio, muoio e sono». Se un fiore fiorisce una sola notte, non per questo, scriveva Freud, la sua fioritura ci appare meno splendida. «Tutto qui, né più ne meno», scrive Marcoaldi. Ed è davvero solo questo “tutto qui” che può rendere «nuovo il cielo/ e nuova la terra».