sabato 5 settembre 2015

Repubblica 5.9.15
Il nostro grido di dolore che il mondo non vuol sentire
di Enaiatollah Akbari

Enaiatollah Akbari è un ragazzo afgano arrivato in Italia come profugo La sua storia è stata raccontata da Fabio Geda in Nel mare ci sono i coccodrilli (Baldini e Castoldi)

CHISSÀ che cosa sarebbe diventato, il piccolo Alan. Magari un bravo avvocato, o un grande chirurgo. Invece il destino l’ha fatto morire troppo presto, sulle coste della Turchia, dopo esser fuggito assieme ai genitori dal suo Paese e aver abbandonato il suo nido, distrutto dalle bombe. In questi mesi, purtroppo, la sfortuna si accanisce su tanti altri bimbi, che magari non riescono neanche ad avvicinarsi all’Europa, perché falciati prima dalla fame o dalla sete. Altri piccoli, e sono molti di più di quanto non si creda, muoiono al settimo o all’ottavo mese nella pancia di una madre così stremata da non riuscire a portare a termine la gravidanza.
Noi rifugiati siamo gente molto fragile. E tra gli umani apparteniamo alla categoria più debole. Già nel nostro Paese d’origine non abbiamo diritti, e subiamo le peggiori ingiustizie. Imploriamo aiuto al resto del mondo, ma non c’è quasi mai nessuno che ascolti il nostro dolore, nessuno che senta il nostro grido. Lo stesso accade quando siamo all’estero. Che esistono i diritti dell’infanzia e i diritti dell’uomo l’ho scoperto dopo essere approdato in Italia, quando ho cominciato a leggere e studiare. Prima, non me n’ero accorto che c’erano delle leggi internazionali sancite al solo scopo di proteggere l’essere umano, come non se ne accorgono i migranti in viaggio da Siria, Afghanistan o Nigeria. I diritti dell’uomo vengono forse rispettati al di qua del muro europeo, sicuramente non al di fuori. Perciò, per la maggior parte dei profughi sono un concetto molto astratto, di cui non vedono mai l’applicazione e nei quali hanno difficoltà a credere. Ora, senza l’applicazione di questi diritti, che ne è dei principi fondamentali degli Stati che li hanno firmati?
La mia esperienza di guerra, vissuta quando vivevo in Afghanistan, mi ha insegnato che i bambini sono sempre i primi a morire. Ciò accade perché quando si trovano davanti a un campo minato, anche se i genitori li hanno messi in guardia e anche se ci sono dei cartelli che ne indicano il perimetro, loro non sono in grado di valutarne la pericolosità. Ci vanno ugualmente e saltano per aria. Oppure, quando una casa viene bombardata, sono loro i primi a morire, perché i più lenti.
Io ce l’ho fatta, perché sono stato più fortunato di altri, e non più forte di loro. Per riuscire ho attraversato due guerre: quella nel mio Paese, dal quale era difficilissimo e pericolosissimo uscire; e quella per arrivare in Europa, dopo un viaggio interminabile, con pochissimo cibo e pochissima acqua. Lo stesso succede in questi giorni ai profughi che arrivano in Ungheria. Hanno attraversato mari, deserti e montagne, e quando arrivano lì, la prima cosa che trovano è il filo spinato che gli blocca la cammino.
Vorrei solo che i popoli d’Europa capissero perché tanta gente s’ammassa alle sue porte. La maggior parte di chi fugge lo fa perché in patria è perseguitato. Che significa essere perseguitato? Significa che se ti trovano a casa tua, siano essi poliziotti, nemici o islamisti, ti ammazzano. Ho come l’impressione che questo concetto di persecuzione non sia chiaro a tanti. I siriani, per esempio, sono perseguitati dalle falangi dello Stato islamico, che torturano, chiudono le persone nella gabbie e gli danno fuoco, decapitano. Ora, le vittime di queste barbarie sono persone come noi, ma che hanno solo avuto la sfortuna di nascere in un Paese in guerra. Sono esseri umani come noi. Sono nostri fratelli, ai quali nessuno dovrebbe sbattere la porta in faccia.
Mi fanno ridere coloro che temono l’arrivo di terroristi, travestiti da profughi. Infatti, tra i migranti siriani non ci sono uomini dello Stato islamico, né tra quelli afgani dei Taliban o tra i nigeriani dei guerriglieri di Boko Haram.
Oggi ho 27 anni, e studio Scienze politiche e cooperazione all’Università di Torino. Sono pronto a qualsiasi lavoro mi verrà offerto, ma il mio sogno è di lavorare per le Nazioni Unite. Per poter al più presto aiutare le persone che stanno vivendo adesso l’odissea che fu la mia.