giovedì 3 settembre 2015

Repubblica 3.9.15
La battaglia delle caste
Per anni in India le quote hanno consentito ai più poveri di accedere a università e posti di lavoro
Ora però i ceti medi si ribellano: “Basta, anche noi chiediamo garanzie”
Viaggio tra i rivoluzionari del Gujarat che vogliono cambiare la Costituzione e fanno tremare il governo nazionalista di Modi
L’uso dei social media ha permesso alla rivolta di raggiungere consensi mai visti prima
di Raimondo Bultrini


CHENNAI SEI giorni fa durante il sanguinoso Kranti rally, il “corteo della rivoluzione” ad Ahmedabad, c’erano mezzo milione di rivoltosi che portavano esattamente lo stesso cognome: Patel. Li guidava un giovanotto di 22 anni di nome Hardik Patel, arrestato e subito rilasciato per paura delle conseguenze. Dieci morti, duecento autobus dati alle fiamme e la paralisi di ogni attività cittadina, hanno costretto la polizia dello Stato a farsi aiutare dall’esercito per riprendere il controllo della capitale del Gu-jarat, governato da una capo ministro donna di nome, tanto per cambiare, Anandiben Patel. Ma anche se apparentemente è tornata la calma, sembra sempre più difficile riuscire a contenere a lungo un movimento che intende scardinare uno dei principi della Costituzione indiana, il diritto dei più deboli a ottenere quote fisse garantite per l’educazione e il lavoro nella complessa gerarchia di tribù e clan.
Il sistema della caste in India è un meccanismo di gerarchie sociali di carattere rigorosamente ereditario. Questo criterio millenario, nonostante sia stato ufficialmente abolito nel 1950, influenza in parte ancora oggi la suddivisione dei lavori, gli equilibri di potere, il passaggio dei beni attraverso i matrimoni e si basa su fondamenti religiosi molto antichi e profondamente radicati.
In questo clima di pace armata si attende ora la prossima mossa del giovane Hardik, che fino a due mesi fa era un illustre sconosciuto con una laurea ottenuta a fatica in Economia e commercio, e che ora è a capo di uno dei “mille ammutinamenti” del Continente, forse il più importante dopo quello dell’”Uomo qualunque” di Arvind Kejiriwal. Detta anche Patidar, l’etnia di Hardik è composta da 270 milioni di anime, un quinto dell’intera popolazione indiana, in gran parte proprietari terrieri, grossi agricoltori e commercianti – come suo padre, venditore di pompe idrauliche – non tutti benestanti, ma capaci di eleggere o far cadere governi regionali e nazionali.
I primi martiri di questa ennesima “rivoluzione” dalle radici che affondano nelle ingiustizie del sistema religioso dei “varna” hindu, hanno sfidato i proiettili delle forze dell’ordine per ottenere uno status di censo inferiore, o in alternativa la fine toutcourt dell’era delle quote nelle scuole e gli uffici pubblici su base di casta. È una sfida diretta all’intero sistema di garanzie per le classi marginali come gli Intoccabili dalit, i tribali e le cosiddette OBC, o altre caste arretrate. È a queste ultime che vorrebbero associarsi ora i Patel, non certo catalogabili come emarginati, ma vittime della crisi come tutti gli altri indiani. Se non otterranno di essere “degradati” formalmente come chiedono, minacciano di coalizzarsi con gli altri clan del loro stesso rango che già si battono, ma senza la stessa grinta di Hardik, per cambiare radicalmente l’intero sistema, e far assegnare i posti solo ai meritevoli a prescindere dall’origine familiare.
Già negli anni Ottanta numerosi figli di bramini, “guerrieri” e commercianti si diedero fuoco per protesta contro il sistema delle assegnazioni che li vedeva esclusi dai college o costretti a studiare il triplo dei loro compagni meno privilegiati per ottenere gli stessi punteggi di ammissione a collegi universitari prestigiosi e agli impieghi statali.
Finora le regole garantiste avevano equilibrato almeno in parte le diseguaglianze in un Paese dominato da politici, imprenditori, giornalisti e manager di casta alta. «Ma i risultati – ha detto Hardik ai giornalisti e alle folle dei suoi omonimi militanti – sono l’aumento della disoccupazione tra i nostri giovani, i diecimila suicidi in 10 anni dei contadini Patel e la corruzione. Per questo – ha aggiunto – sono sceso in campo con “dabangai”, l’aggressione, e non con l’amore».
Viaggiando nel centro e Sud dell’India in questi giorni di tensione, la guerra dei Patel sembra solo apparentemente circoscritta ad Ahmedabad, dove ha sede il quartier generale del nuovo leader in erba. Hardik dice di non amare le ghirlande di fiori e spesso apre i suoi comizi sguainando una spada. Ma per portare ovunque il suo messaggio “moderno” ha assoldato, non si sa con quali soldi, dodici esperti di computer che hanno mobilitato le folle di Ahmedabad e raccolto consensi in tutta l’India con 2 milioni di messaggi Twitter, WhatsApp e Facebook. Senza false modestie ha detto infatti che intende «manovrare personalmente il telecomando del potere» per ottenere i diritti negati al suo clan, e ora non sono in pochi a temere che dietro di lui ci siano gli ultrareligiosi dell’RSS e del VHP, magari intenzionati a ridimensionare la politica di aperture di un altro loro ex mi-litante, l’attuale premier Narendra Modi. Di certo Modi ha governato il Gujarat per 12 anni grazie ai Patel che lo hanno anche eletto alla massima carica dell’Unione. Ma ora il paladino del grande clan minaccia sia il premier che il suo partito di maggioranza: «Solo se saranno garantiti i nostri intecaste ressi nutriremo ancora il vostro loto» (il fiore simbolo del Bjp), gli ha detto. Dopo le rivolte di qualche giorno fa, questo studente dai voti mediocri che ha diretto l’ala giovanile di un partito della sua casta prima di venirne cacciato per i suoi metodi violenti, è stato acclamato anche a New Delhi come potenziale leader non solo della sua gente, ma di una coalizione nazionale che comprende altre influenti famiglie di alto censo: i Gujjari del Rajasthan, i Reddy del Telangana, i Kamma dell’Andra Pradesh o i Vanni del Tamil Nadu, oltre a popolosi sottogruppi di OBC quali gli Yadav dell’Uttar Pradesh e i Kurmi del Bihar. Nel passato il conflitto tra caste virtualmente abolite dalla Costituzione è più di una volta sfociato in massacri e guerre di sapore tribale come quelle dei Gujjari, corrispettivo dei Patel in Rajasthan, che ottennero con la “auto-retrocessione” una parte delle quote spettanti al gruppo aborigeno dei Meena. Anche i Jat, altra etnia dominante in diversi Stati, avevano ottenuto dal Congresso lo status più basso di “OBC” in cambio del loro voto, salvo vedersi togliere dalla Corte suprema i privilegi cosi ottenuti, e ora minacciano nuove proteste simili a quelle dei Patel.
In questo clima Modi potrebbe essere tentato di seguire l’onda montante e cambiare radicalmente i criteri delle quote, dando inizio a una nuova era di distribuzione dei posti sulla base del reddito. L’ipotesi non è remota e qualche intellettuale progressista, come la studiosa Indira Hirway, ammette che «il vecchio sistema ha fallito miseramente nel garantire eguaglianza e armonia sociale», e che «i Patel non sono contro le altre caste arretrate, ma contro i privilegi dei più ricchi tra loro». Infatti anche tra i ceti emarginati ci sono i privilegiati con soldi e buona educazione, e quelli che per ignoranza non sanno nemmeno di avere diritto alle quote.
«Io penso che le caste abbiano salvato l’Induisimo dalla disintegrazione. Ma come tutte le altre istituzioni hanno sofferto di “escrescenze”. Considero fondamentali, naturali ed essenziali soltanto le quattro divisioni. Le numerosissime sottocaste possono essere talvolta un vantaggio, ma il più delle volte rappresentano un ostacolo». Lo diceva il Mahatma Gandhi ormai più di ottant’anni fa, ma le contraddizioni esplose nelle ultime settimane sembrano dargli, ancora una volta, ragione.