martedì 29 settembre 2015

Repubblica 29.9.15
Putin
La rinascita dello Zar
di Paolo Garimberti


FINO all’altro ieri era lui il problema. Sanzionato economicamente per la guerra in Ucraina, espulso dal G8, rinominato G7 come ai tempi della guerra fredda, marginalizzato al vertice del G20 in Australia al punto da tornarsene a casa in anticipo, Vladimir Putin era il reietto dell’Occidente, quasi una reincarnazione dell’Impero del Male, che Barack Obama a stento salutava ai summit internazionali. Da ieri sembra diventato di colpo la soluzione, soprattutto del problema dei problemi.
CHE in questo momento è la guerra civile in Siria e la lotta contro il nuovo diavolo, il cosiddetto Stato Islamico. Tutti d’accordo, dai guru della politica internazionale ai capi delle diplomazie occidentali, per finire con i grandi giornali che più influenzano l’opinione politica americana: dal “New York Times” (“Obama non ha altra scelta che cercare di lavorare con Vladimir Putin”) al “Financial Times” (“Un accordo con Putin è per Obama la meno peggio delle opzioni”).
Una fanfara corale che ha preparato il ritorno del presidente russo alle Nazioni Unite dopo ben dieci anni di assenza e il suo incontro bilaterale con il presidente americano.
Il reietto è ora il benvenuto. E, come ai tempi della guerra fredda, il destino del mondo sembra di nuovo nelle mani dell’America e della Russia: Kennedy con Krusciov, Nixon con Breznev, Reagan con Gorbaciov.
Come ha fatto Putin a trasformarsi da problema in soluzione? La risposta è relativamente semplice. Si è infilato nel vuoto strategico dell’America e nella totale mancanza di coesione dell’Occidente (ultimo, abbagliante esempio è la Francia che bombarda in so-litario, con Hollande che rischia di ripetere in Siria gli errori di Sarkozy in Libia, in nome di una “grandeur” muscolare goffamente giustificata).
Dopo aver a lungo meditato e dibattuto, gli Stati Uniti si sono trovati con non più di una settantina di militari addestrati sul terreno siriano e hanno finito per buttare 500 milioni di dollari in un programma di aiuti e armamenti ai ribelli siriani stanziato un anno fa quando l’Is ha cominciato a fare progressi preoccupanti sul terreno. Invece, senza farsi notare grazie anche a un controllo assai poco democratico del Parlamento e dell’informazione, lo “zar” Putin ha inviato in Siria 28 cacciabombardieri Sukhoi, due dozzine di elicotteri da combattimento, ha avviato lavori per ampliare due basi vicine a Latakia, ha rafforzato il porto di Tartus (unica base navale russa al di fuori dell’ex Urss).
E secondo fonti militari sta trasferendo in Siria un contingente di duemila uomini. Intanto ha messo il silenziatore ai combattimenti in Ucraina e la Russia ha dato una grossa mano — come ha riconosciuto lo stesso Obama — per arrivare a una positiva conclusione del negoziato sul nucleare iraniano.Per capire dove voleva andare a parare il presidente russo sarebbe bastato fare attenzione ai suoi servili aedi che ne illustrano le intenzioni nei canali della tv di Stato. Dmitry Kiselyov, il suo anchorman preferito, che aveva sempre sostenuto che la guerra in Ucraina era dovuta a un complotto americano, qualche giorno fa titolava l’apertura del suo show: “La guerra ora è in Siria!”. E concionava: “Il barbaro califfato è un demonio assoluto, che cerca di arrivare in Russia. Ma noi abbiamo un solido alleato in Medio Oriente: la Siria. Se si arrende è come invitare i terroristi a venire da noi”.
Non a caso ieri, nel discorso all’Onu, Putin ha invocato una coalizione internazionale contro l’Is, come ci fu contro Hitler. E ha denunciato “il dominio americano nel periodo post guerra fredda”. Due messaggi forti e chiari. Il primo: oggi il nemico non è Assad, ma lo Stato Islamico, la lotta contro il “barbaro califfato” deve essere la priorità assoluta, come lo fu quella contro il nazismo, che unì Stalin, Roosevelt e Churchill. Il secondo: l’America ha creduto di essere la sola superpotenza mondiale, ma da sola non ce la fa, ha bisogno di un’altra superpotenza, e questa è la Russia, come una volta lo era l’Urss.
Certo, sono messaggi che hanno anche una forte valenza interna. Riprendendosi la ribalta internazionale, trasformandosi da “villain” in “superhero”, come direbbero gli americani, Putin titilla l’orgoglio nazionalistico russo (che è una componente fortissima nel consenso di cui continua a godere in patria) e cerca di far dimenticare i morti in Ucraina, l’inflazione al 16 per cento, la debolezza del rublo, in generale la recessione di un’economia che le sanzioni occidentali hanno indubbiamente contribuito a minare.
Senza contare la minaccia del terrorismo islamico, che è un incubo permanente del nuovo zar. Quando i suoi cantori dicono in tv che il “barbarico califfato” minaccia la Russia non fanno solo retorica: secondo cifre fornite da alti funzionari della sicurezza russa, ci sono 2400 russi che si sono arruolati tra i macellai islamici oltre a circa 3000 elementi provenienti dalle ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale, che ora combatterebbero in Siria.
Ma al di là di queste motivazioni strumentali per non far calare un consenso popolare che sorprende solo chi non conosce l’anima russa, Putin ha avuto l’abilità di andare a vedere il bluff dell’Occidente e soprattutto dell’America al tavolo della Siria e dell’intero Medio Oriente (non scordiamoci dell’Iraq).
Mostrando carte, tra cui quella iraniana, che non sono un poker vincente, ma sono comunque meglio di quelle in mano dei suoi interlocutori.
Dopo quattro anni di guerra civile, 300 mila morti, 11 milioni di rifugiati e quasi due terzi del territorio siriano in mano agli estremisti islamici, chi se la sente di dire al presidente russo: no, noi con te non vogliamo giocare?