Repubblica 26.9.15
Dopo il caos di agosto il governo rinvia i dati sui nuovi contratti
di Valentina Conte
ROMA Alla fine il ministero del Lavoro rinuncia. Ieri, come accade da marzo ogni 25 del mese, dovevano uscire i nuovi dati sui contratti attivati e cessati ad agosto. Ma dopo il caos di quattro settimane fa, con le cifre prima diffuse e poi corrette perché del tutto sballate, il dicastero di Poletti si prende una pausa. Zero numeri, zero confusione. «Puntiamo su un’uscita concordata e condivisa con Istat e Inps», fanno sapere da via Veneto. La necessità è quella di «integrare le fonti informative », per renderle chiare e possibilmente non contraddittorie. Un processo tutt’altro che rapido. «Ci stiamo lavorando», chiosano. E ora dunque cosa succede ai dati sull’occupazione? Anche l’Inps si accoderà ad un’informazione corale con l’Istat? Si tornerà all’aggiornamento trimestrale? Non è dato sapersi.
La confusione è alta sotto il cielo dei «numerini», come li definisce Renzi. E alcuni tra questi più che confusi sembrano invisibili. È il caso dei contratti di collaborazione. Alla domanda quanti sono ora in Italia i cocopro e i cococo, la risposta non esiste. L’Istat prende in considerazione il tempo determinato. Il ministero del Lavoro solo i privati e tra l’altro è un dato di flusso non di stock, ben poco indicativo (se ho cambiato quattro cocopro in un anno sono registrato come un +4). L’Inps ogni mese pubblica l’ormai famoso “ osservatorio sul precariato” che però di tutto parla fuorché dei precari (voucher esclusi). L’ultimo dato aggiornato è comunque il suo e risale alla fine del 2013: 1,3 milioni di collaboratori, di cui 503 mila cocopro e 43 mila cococo statali, ma si sale a 1,7 milioni con le partite Iva.
Nessuno sa quanti sono, ma tutti ne annunciano la morte prematura. Il governo dice che il contratto a progetto è stato abrogato. Vero formalmente, falso nella sostanza. In effetti, il decreto 81 del 2015 ha bandito i cocopro a partire dal 25 giugno. Ma in realtà il più precario dei contratti vive e vivrà nel suo surrogato ancor meno tutelato, il cococo. E anche come cocopro in tutto e per tutto, grazie alle sostanziose deroghe. Due su tutte: i contratti nazionali e gli albi professionali. Se gli accordi collettivi lo prevederanno, i settori del recupero crediti e dei call center, per nominare quelli a più alto tasso di precari, possono dormire sonni tranquilli, si fa per dire. Così avvocati, commercialisti, giornalisti, ingegneri. Senza parlare poi delle associazioni e società sportive dilettantistiche. Ma c’è una terza, subdola e utilissima (per le aziende), deroga: la certificazione.
L’istituto esiste dal 2003, ma il decreto del Jobs Act lo ha arricchito. Il datore può richiederla all’apposita commissione prevista dalla legge (istituita da università o parti sociali, consulenti del lavoro, direzioni territoriali del lavoro). E questa commissione ora potrà anche attestare l’assenza del requisito della cosiddetta “etero-organizzazione”, in vigore dal primo gennaio 2016, la novità principale del Jobs Act in tema di contratti precari. Ovvero certificare, dopo apposita istruttoria, che tempo e luogo di lavoro non sono decisi dal datore. In questo modo, la collaborazione sarà blindata. Nessuna sanzione, se arriva l’ispezione. Nessuna conversione automatica in contratto a tutele crescenti, esito obbligato dal primo gennaio prossimo per tutte le collaborazioni etero-organizzate. A meno che il lavoratore riesca a dimostrare davanti a un giudice che la certificazione era concordata e forzata. La precarietà dunque vive. I numerini meno.